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il capo uri-utanate 253


— Uri!... Uri!... gridò, correndo attraverso alle terrazze, sulle quali si era radunata l’intera popolazione.

Un papuaso, che era seguìto da due uomini bianchi, superato un ponte, gli correva incontro colla velocità d’una freccia.

— Padre!... esclamò.

Il capo, che pareva estremamente commosso, se lo strinse al petto dicendo:

— Vivo, vivo ancora!...

— Sì, padre: gli Arfaki non mi hanno ucciso, come ben vedi.

Poi, dopo d’aver lanciato un rapido sguardo all’ingiro, chiese:

— Hai fatto prigionieri degli uomini bianchi?

— Sì, rispose il capo.

— Dove sono?... Voglio vederli!...

— Sono nella mia capanna.

Il giovane papuaso balzò attraverso alle terrazze ed entrò nella stanza dove stavano il capitano, Hans ed il chinese.

Si avanzò verso di loro e con un gesto che non mancava d’una certa nobiltà, disse:

— Siete liberi e ospiti graditi del capo Uri-Utanate.

— Ma chi sono costoro? chiese il capo, che lo aveva raggiunto. Non sono nostri nemici?

— No, padre, essi sono i fratelli degli uomini bianchi che mi hanno strappato dalle mani degli Arfaki, quando ero già votato alla morte.

In quell’istante Cornelio e Wan-Horn, apparvero sulla porta. Quattro grida echeggiarono.

— Zio!...

— Nipote!..

— Hans!...

— Wan-Horn!...

I quattro naufraghi, che credevano di non più rivedersi, si abbracciarono, mentre il chinese, fuori di sè per la gioia, sgambettava per la stanza come se fosse impazzito.

— Uomini bianchi, disse Uri-Utanate, che ormai sapeva ogni cosa. La mia casa, i miei guerrieri e le mie barche sono a vostra disposizione. Voi mi avete ridato il figlio, l’erede del mio grado: io vi ridò la libertà.