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248 | capo xxiv. |
Hans ed il chinese in un baleno furono atterrati e ridotti all’impotenza prima che potessero far uso delle loro armi, ma il capitano, impugnando una scure, era balzato fuori cercando di guadagnare la foresta, ma giunto colà era stato assalito da una seconda orda di papuasi e fatto prigioniero, malgrado la sua disperata difesa.
Un vecchio papuaso, di alta statura, col capo adorno di piume d’uccelli del paradiso ed i fianchi stretti da una larga fascia di nanchino che gli ricadeva sul dinanzi, avvicinatosi al capitano, gli chiese in lingua malese:
— Dov’è mio figlio?...
— Tuo figlio!... esclamò Wan-Stael. Non so chi sia.
— Era qui venuto per uccidere il capo degli Arfaki.
— Non l’ho mai veduto.
— Tu menti, bianco, gridò il papuaso. Tu l’hai ucciso.
— Ma se ti dico che non l’ho mai veduto.
— Gli uomini bianchi sono nostri nemici.
— Io non sono mai stato tuo nemico.
— Tu vuoi ingannarmi, ma sei mio e diventerai mio schiavo o ti farò mangiare dai miei sudditi.
— Tu sei ubbriaco, papù, disse il capitano, che perdeva la sua calma. Quali istorie vieni a raccontarmi?...
— Cosa facevi in questi boschi?...
— Sono naufragato su queste coste spintovi dalle tempeste e cercavo di raggiungere la Durga per poi guadagnare le isole Arrù e di là tornarmene in patria.
— E non hai veduto gli Arfaki?...
— Nemmeno uno.
— Ma cos’è avvenuto di mio figlio?
— L’avranno ucciso.
— Sono tuoi amici gli Arfaki?
— Mi avrebbero mangiato, se li avessi incontrati.
— Non ti credo: sarai mio schiavo finchè non avrò ritrovato mio figlio.
— Come vuoi, ma bada, papù, che se tocchi un capello ai miei compagni, io ti ucciderò, dovessi poi venire divorato dai tuoi sudditi. Dov’è il tuo villaggio?
— Sulla Durga.
— È la mia via, mormorò il capitano. Cornelio e Wan-Horn sanno che noi dovevamo recarci a quel fiume, speriamo