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252 | capo xxiv. |
posti, come quelli delle case aeree, di travi distanti l’uno dall’altro venti o venticinque centimetri e senza tralicci.
Più volte corsero il pericolo di cadere, senza l’aiuto dei loro guardiani, i quali invece non mettevano mai i piedi nel vuoto, tanto sono abituati a quei pavimenti incomodi sì, ma che hanno il vantaggio di lasciare cadere le immondizie della casa senza bisogno di scope.
— Ed ora, cosa intendi di fare? chiese il capitano al capo, quando si vide rinchiuso in una stanzuccia assieme ai suoi compagni.
— Il consiglio degli anziani della tribù deciderà la tua sorte rispose il selvaggio. Se voi avete ucciso mio figlio, morrete.
— Capo testardo! esclamò il capitano, che usciva dai gangheri. Ti ho detto che noi non siamo tuoi nemici.
— Gli uomini bianchi sono miei nemici.
— Gli altri forse, ma non noi.
— Fa lo stesso, poichè anche voi siete bianchi.
— Ma se io non ho mai veduto tuo figlio.
— L’avranno ucciso gli Arfaki tuoi alleati.
— Sei una canaglia!...
— Sono Uri-Utanate.
— Un brigante! urlò il capitano, esasperato.
— Bada!... Uomo bianco!...
— Non ho paura dei tuoi uomini.
— Me lo dirai più tardi.
— Bada, vecchia pelle negra, che ho dei compagni ancora liberi nella foresta e che se tu tocchi me o mio nipote od il chinese, ti faccio incendiare il villaggio.
— I miei guerrieri lo difenderanno.
— Oh furfante!...
Il capitano, furibondo, si era alzato tendendo le pugna verso il papuaso, quando improvvisamente udì echeggiare due colpi di fucile e subito dopo dei clamori assordanti.
— Degli spari!... esclamò Hans. Forse sono Cornelio e Wan-Horn!...
Il capo papù si era precipitato fuori dell’abitazione colla mazza in pugno, forse credendo che degli uomini bianchi assalissero il suo villaggio. Ad un tratto emise un grido di gioia.