I naviganti della Meloria/8. Un grave pericolo

8. Un grave pericolo

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VIII.

Un grave pericolo.


La scialuppa che era stata arrestata presso la parete sinistra della galleria, fu lasciata libera e si mise a scendere lentamente, seguendo il filo della corrente.

Roberto e Michele avevano afferrati i remi, pronti ad arrestarla nel caso che un pericolo minacciasse l’esistenza di tutti.

Padron Vincenzo, ed il signor Bandi, seduti a prora, interrogavano ansiosamente le cupe tenebre addensate sotto le interminabili vôlte del tunnel e tendevano gli orecchi, sperando di raccogliere qualche rumore che fornisse dare la spiegazione di quello strano fenomeno.

Dopo quel rombo e quel lampo, più nulla era stato nè udito, nè veduto. Però i gaz petroliferi erano ancora abbondanti e nelle acque si vedevano ancora a serpeggiare in gran numero i filamenti bituminosi.

Di quando in quando si scorgevano dei larghi crepacci sulle due pareti del canale e là entro si udivano dei rauchi gorgoglìi, annuncianti la presenza di sorgenti petrolifere. A rari intervalli si udivano pure dei crepitìi leggeri, prodotti probabilmente dalla fuga dei gaz.

La scialuppa, che s’avanzava con prudenza, aveva già percorso un chilometro, quando il dottore s’accorse che la temperatura del tunnel era considerevolmente aumentata. Osservato un termometro che aveva sospeso a poppa, s’avvide che segnava 35 centigradi, con tendenza a salire ancora.

Immerse una mano, ma le acque si conservavano sempre fredde.

— Fa caldo, è vero, dottore? — disse padron Vincenzo.

— E molto — rispose il signor Bandi. — Si comincia a sudare. [p. 67 modifica]

— Che questo aumento di calore sia stato prodotto da quello scoppio di gaz?

— Non si sarebbe mantenuto a lungo, Vincenzo.

— Che passiamo vicini a qualche vulcano?

— Il Vesuvio è lontano — rispose il dottore, ridendo. — Credo invece che il canale attraversi qualche regione ricca di acque bollenti, d’altronde non crediate che nei sotterranei e nelle miniere la temperatura sia sempre eguale alle stesse profondità. La crosta del globo ha degli strati eccessivamente caldi e talvolta relativamente freschi.

— Io credevo che fossero dappertutto uguali, dottore.

— No, Vincenzo. Si è osservato, per esempio, che nelle miniere di Amalden, in California, alla profondità di soli centocinquanta metri vi è un calore di ben 50° centigradi, mentre a cinquecento i minatori possono lavorare senza troppo sudore.

«Anche in quelle di Eureka a cinquanta metri si ha una temperatura superiore che alla profondità di trecentocinquanta.

— Vi sono anche delle miniere dove gli uomini non possono lavorare pel troppo caldo?

— Talune gallerie non possono venire lavorate, appunto in causa del soverchio calore.

— Quale sarebbe la miniera più ardente?

— Quella di Corastok nella Nevada, dove il termometro segna 58° centigradi alla profondità di soli seicento metri.

— Quei poveri minatori devono cucinarsi.

— Per poterli mantenere laggiù, si è costretti a lanciare di quando in quando, delle correnti d’aria fredda.

— In caso diverso non potrebbero resistere a lungo. E da che cosa deriva quel calore?

— Per lo più dalla presenza di sorgenti d’acque bollenti, ma dipende anche molto dalla costituzione geologica del suolo.

«È stato osservato che il calore aumenta nei terreni trachitici ed in quelli carboniferi; invece nelle gallerie scavate nei terreni calcarei la temperatura si mantiene fredda. Nei tunnel del Moncenisio e nelle gallerie della miniera di Chornorcillose poi...

— Tacete signor dottore — disse in quel momento Michele.

— Cos’hai? — chiese padron Vincenzo.

— Ascoltate!...

Il dottore ed il suo compagno zittirono, tendendo gli orecchi.

— Dell’acqua che scroscia — disse il signor Bandi, dopo alcuni istanti di attesa.

— Qualche cateratta? — chiese padron Vincenzo.

— È probabile, però...

— Dite, dottore.

— Mi pare che scrosci dietro le pareti del tunnel.

— O dentro quella squarciatura? — disse Roberto, indicando un largo crepaccio che si scorgeva verso babordo. [p. 68 modifica]

— Un’altra caverna? — chiese padron Vincenzo.

— Pare — rispose il dottore.

— Andiamo ad esplorarla.

Il signor Bandi stava per rispondere, quando la scialuppa subì un urto così poderoso, che i quattro uomini caddero l’uno sull’altro.

— Per mille merluzzi!... Abbiamo toccato!... — esclamò padron Vincenzo.

— O siamo invece stati urtati? — disse Roberto, che si era curvato sulla poppa.

— Noi urtati?... E da chi?... — chiese il dottore.

— Ho veduto l’acqua rimbalzare come se fosse stata sollevata da un poderoso colpo di coda.

— Dove?

— Presso la poppa — rispose il giovane pescatore.

— Che qualche grosso pesce abbia tentato di assalirci?

— Non potrebbe essere che qualche pescecane – rispose padron Vincenzo.

— Ancora uno di quei pericolosi e voraci pesci? Cattivo vicino, amico mio.

— Lo uccideremo — rispose Vincenzo, risolutamente.

— Prendete le rivoltelle e tenetevi pronti ad aprire un fuoco di fila.

— Cerchiamo invece di prenderlo, dottore — dissero i pescatori.

— Siete pazzi!... Non pensate alla leggerezza della nostra scialuppa? Un colpo di coda basterebbe a sfondare il tessuto.

— Mille merluzzi!... — esclamò padron Vincenzo, rabbrividendo. — Alle rivoltelle, amici!... La nostra pelle corre un grave pericolo.

In un baleno fu aperta una cassa dove stavano rinchiuse delle armi ed i quattro uomini impugnarono rapidamente delle rivoltelle, disponendosi a prora ed a poppa della scialuppa.

Due altre lampade erano state accese per rischiarare quelle acque tenebrose e poter scorgere meglio gli avversari.

Il pericolo era maggiore di quanto dapprima l’avevano creduto. Se si trattava d’un pescecane grosso come quello che avevano ucciso nella grande caverna, la scialuppa poteva venire facilmente sfondata da un semplice colpo di coda.

Il tessuto non avrebbe certamente potuto resistere ad un urto simile e fors’anche nemmeno le costole.

I tre pescatori ed il dottore, curvi sui bordi, spiavano ansiosamente le acque per sapere con quale avversario avevano da fare. Dopo quella forte scossa, la scialuppa aveva ripreso il suo equilibrio e più nulla era accaduto, però alcuni passi più lontani si vedeva l’acqua ancora agitata.

— Scorgete nulla? — chiese il dottore.

— No — risposero Vincenzo e Michele, che si trovavano a poppa.

— Che ci siamo ingannati?

— L’urto è avvenuto e tutti lo abbiamo sentito, signore — disse Michele. [p. 69 modifica]

In quell’istante, come per confermare le parole del pescatore, la scialuppa fu quasi sollevata verso poppa, poi respinta bruscamente da un lato.

Quasi subito due grosse teste emersero a quattro o cinque passi, mandando due rauchi sospiri, poi tornarono a inabissarsi.

— I pescicani!... — avevano urlato Michele e padron Vincenzo.

— Un altro urto come questo e la scialuppa cederà — disse il dottore, che si sentiva rizzare i capelli sulla fronte. — Se non ci affrettiamo a sbarazzarci di quei mostri, per noi la sarà finita.

— Eccoli! — gridò Roberto. — Attenti!...

Le due teste erano ricomparse a poche braccia dalla scialuppa, mostrando le loro bocche irte di denti triangolari.

Erano due grossi pescicani, forse più grandi di quello che era stato ucciso nella caverna. I due mostri, accortisi della presenza della scialuppa e probabilmente affamati, si preparavano ad assalire gli sventurati esploratori.

— Fuoco!... — urlò il dottore.

Una scarica accolse i due mostri.

Uno, colpito forse nel cervello, colò subito a picco, ma l’altro, solamente ferito, si mise ad avventare tremendi colpi di coda, sollevando delle vere ondate.

Reso furioso dal dolore, si contorceva come un serpente, mandando rauchi sospiri e rinchiudendo, con fragore, le formidabili mascelle.

Balzava a destra ed a sinistra come un pazzo, minacciando di dar di cozzo contro la scialuppa e di sfondarla.

Michele e Roberto si erano precipitati sui remi, mentre Vincenzo ed il dottore bruciavano le ultime cariche delle loro rivoltelle, cercando di ferire quell’agonizzante ancora troppo pericoloso.

La scialuppa, cappeggiando pesantemente sotto quelle incessanti ondate che la investivano da tutte le parti, minacciando di colarla a fondo o di sfracellarla contro le pareti del tunnel, si era allontanata di alcuni passi, quando ricevette un tale colpo di coda, da rovesciarsi sul fianco.

Fu un momento d’ansietà terribile pei quattro esploratori, perchè avevano creduto che l’imbarcazione fosse stata sfondata di colpo da quell’urto poderoso.

— Coliamo? — chiese il dottore, bruciando l’ultima carica della sua rivoltella.

— No, signore — rispose Michele, il quale si era curvato per vedere se l’acqua aveva invaso il fondo della scialuppa. — Le casse hanno sopportato l’urto salvando il tessuto, ma non so se potremo resistere ad un altro colpo di coda.

— E questo dannato squalo che non si decide a morire!...

— Ci vorrebbe un buon colpo di scure sul muso — disse padron Vincenzo.

— Non possiamo avvicinarlo senza farci subbissare. Forza di remi, amici!...

Michele e Roberto non avevano bisogno di essere eccitati. [p. 70 modifica]Arrancavano con lena affannosa, premurosi di allontanarsi da quel luogo, diventato troppo pericoloso per la scialuppa, però lo squalo, come se avesse compreso di aver buon giuoco e la possibilità di vendicarsi dei suoi feritori, li seguiva, agitando continuamente le acque del canale.

Doveva aver ricevuto per lo meno una mezza dozzina di palle, pure resisteva tenacemente nè pareva che le sue forze scemassero. Si sa d’altronde che gli squali hanno una vitalità più che straordinaria.

Anche se tratti fuori dall’acqua e dopo d’aver ricevuto dei colpi di rampone o dei colpi di scure, sono ancora capaci di opporre una fiera resistenza e di fare talvolta delle vere stragi sulle tolde delle navi.

— Cerchiamo un rifugio o noi finiremo col colare a fondo assieme alla scialuppa — disse il dottore, che aveva impugnata un’altra rivoltella.

— Mi sembra di scorgere un’apertura sulla nostra destra — disse padron Vincenzo.

— Qualche caverna?...

— Certo, dottore.

— Cerchiamo di cacciarci là dentro. Forse questo dannato pesce non ci seguirà...

— Ohe!... Badate a non urtare!...

— Non temete, padrone — risposero Michele e Roberto.

Mentre la scialuppa cercava di avvicinarsi al crepaccio il quale pareva che dovesse mettere in qualche caverna, il dottore aveva aperto nuovamente il fuoco per spaventare lo squalo. Padron Vincenzo invece vibrava colpi di rampone in tutte le direzioni, sperando di colpirlo in qualche organo vitale.

Il pescecane però si teneva sempre a dieci o dodici metri dalla poppa della scialuppa, accontentandosi di sollevare ondate sopra ondate, con furiosi colpi di coda. Si slanciava in alto balzando più di mezzo fuori dall’acqua, poi s’inabissava con sordo fragore, quindi tornava a galla dibattendosi disperatamente e contorcendosi.

La sua formidabile coda sferzava talvolta perfino le pareti della galleria e con tale violenza, da produrre dei veri scoppi.

Fortunatamente la fenditura era vicina. Michele e Roberto aspettarono che lo squalo s’immergesse, poi spinsero velocemente la scialuppa attraverso allo squarcio nella parete, mentre il dottore spegneva le lampade.

— Fermi — disse padron Vincenzo. — Se quel maledetto pescecane ode lo sbattere dei remi ci seguirà anche qui.

— E poi vi possono essere degli scogli dinanzi a noi — disse il dottore.

— E mi pare che ci sia anche qualche cosa d’altro — disse Roberto.

— Cosa vuoi dire? — chiese il dottore.

— Non udite?

Il dottore tese gli orecchi, ma il pescecane in quel momento faceva un tale fracasso nella vicina galleria, da non poter distinguere nessun altro rumore. Le onde, sollevate dalla coda del mostro, si frangevano [p. 71 modifica]contro le pareti e contro i macigni dello squarcio con fragori assordanti che l’eco ripeteva, ingrossandoli enormemente.

— È impossibile udire qualche cosa — disse il dottore.

— Aspettiamo che quel furfante si allontani — disse Roberto. — Se non ci trova, finirà coll’andarsene.

— Hai veduto qualche fuoco o qualche pericolosa scogliera?

— Nè l’una nè l’altra, signore. Ho udito come dei leggeri scoppiettii ed anche una specie di fischio.

— Per mille merluzzi! — esclamò padron Vincenzo. — Che questa caverna sia abitata?

— E da chi? — domandò il dottore, con tono beffardo.

— Io non lo so, signor Bandi.

— Forse dai topi.

— Udite, signore?... — chiese Roberto.

Fra il rumoreggiare delle acque ancora mosse dai capitomboli del pescecane, s’erano uditi degli scoppiettìi, seguìti poco dopo da alcuni sibili molto acuti.

Quei rumori non venivano dalla parte del canale, bensì dall’estremità di quella caverna, a quanto pareva.

— Cosa dite dottore? — chiese padron Vincenzo, che non si sentiva tranquillo.

— Dico che noi spiegheremo questo fenomeno — rispose il signor Bandi. — Mi pare che lo squalo si sia allontanato; accendiamo adunque le nostre lampade e andiamo a vedere da che cosa provengono questi scoppiettìi e questi sibili.

— Che ci sia qualche vulcano qui dentro?

— Non vedo alcuna fiamma, Vincenzo e poi, si udrebbero dei boati tali da far tremare le vôlte del canale.

Una lampada ed una torcia furono accese da Michele e da Roberto e la luce fu proiettata innanzi.

La scialuppa era entrata in una caverna di dimensioni però molto minori di quella ove era stato ucciso il primo pescecane, però al pari dell’altra era irta di rupi ed ingombra di scogliere.

Anche la vôlta era meno alta e tutta coperta di superbe stalattiti, le quali formavano dei veri festoni, assai artistici. Certuni giungevano quasi a livello dell’acqua, però erano così leggeri che bastava un semplice urto per spezzarli.

A levante le pareti scendevano a picco, formando un muraglione regolare; a ponente ed a settentrione invece si scorgeva una spiaggia dirupata, non però difficile a scalare.

Era precisamente in mezzo a quelle rocce che s’udivano i sibili e gli scoppiettìi che avevano tanto sorpreso Roberto e spaventato padron Vincenzo.

— Io so di cosa si tratta! — disse il dottore, dopo d’aver ascoltato attentamente.

— Spiegatevi, signor Bandi — disse padron Vincenzo, sempre inquieto. [p. 72 modifica]

— Qui ci sono certamente dei soffioni forse simili a quelli che si vedono in Toscana, nei pressi delle salse di Nirano ed in quelle di Sassuolo.

— Cosa sono questi soffioni?

— Dei vulcanelli...

— Per mille merluzzi! E voi volete andarli a vedere?

— Non sono che dei vulcanelli di fango, affatto innocui. Non vi è alcun pericolo ad avvicinarli.

— E non eruttano lave?

— No, Vincenzo. Si accontentano di soffiare fuori dell’argilla e un po’ di gaz. Qualche volta spruzzano anche un po’ d’acqua bollente mescolata a dell’acido borico.

— Allora andiamo a vedere.

La scialuppa era giunta presso la spiaggia. Michele l’assicurò con una doppia fune alla punta di uno scoglio, per tema che l’onda prodotta dal cambiamento della marea la strappasse una seconda volta, poi tutti quattro s’arrampicarono sulle scogliere, portando con loro le lampade.

I fischi e gli scoppiettìi continuavano, accompagnati talvolta da un sordo boato. Un acuto odore di gas si espandeva per la caverna, facendo sternutare fragorosamente i tre pescatori ed anche il dottore.

Attraversate le prime rocce, essi si trovarono improvvisamente dinanzi ad un ammasso di fango ancora semiliquido, il quale circondava un cono dell’altezza di cinque o sei metri.

Era dalla cima di quel vulcanetto che uscivano fischi e brontolii e di quando in quando dei getti di materia nerastra, accompagnata da spruzzi d’acqua fumante.

— È questo il vulcanello? — chiese padron Vincenzo, stupito.

— Sì — rispose il dottore. — Ne scorgo però degli altri più piccoli laggiù.

— E cosa c’è dentro a questi coni?

— Lo vedete: del fango caldo.

— E non udite questi scoppiettìi che salgono fra quei crepacci? — disse Michele.

— Sono fughe di gaz — rispose il dottore, abbassando la lanterna. — Guardate: non vedete quelle gallozzole che montano fra il fango e che scoppiano?

— Sì — disse Vincenzo.

— Provate ad accostare un zolfanello acceso.

Il pescatore, dopo una breve esitazione, obbedì e vide quelle bolle prendere subito fuoco e scoppiettare.

— Questa è strana! — esclamò. — E non vi è alcun pericolo che i gaz, nascosti sotto questo fango, prendano fuoco e ci gettino in aria.

— Oh!... Nessuno.

— Nemmeno questi vulcanetti non possono causare dei malanni?...

— Eh!... Talvolta sono diventati pericolosi quanto i grandi vulcani.

— Questi giuocattoli!... [p. 73 modifica]

— Sì, Vincenzo. A Sassuolo, per esempio, un paese della provincia di Modena e che forse si trova precisamente sopra le nostre teste, v’è un vulcanetto chiamato comunemente salsa di Sassuolo, non più grande di questo ma che pure certe volte ha avuto delle eruzioni tremende.

— Un mostricciattolo simile!...

— La storia ricorda delle eruzioni gravissime. Novant’anni prima della nascita di Gesù Cristo, quel giuocattolo, come tu lo chiameresti, eruttò fiamme e fango in quantità straordinaria e produsse tali scosse di terremoto da diroccare non poche abitazioni. Nel 1801 rovinò la cittadella di Sassuolo avvampando con gran furore per parecchie settimane e lanciando in aria dei macigni di parecchi quintali, come se fosse l’Etna od il Vesuvio. Anche nel 1835 per nove settimane devastò i dintorni, vomitando un milione e mezzo di metri cubi di fango.

— Mille merluzzi!... Ed ora?

— Ora dorme e si accontenta di eruttare appena appena qualche po’ di fango e delle gallozzole di gaz. Anzi certi anni non dà quasi segno di vita.

— Dottore, andiamocene.

— Prima che anche a questo vulcanetto salti il ticchio di farci qualche brutto giuoco — disse Michele.

— Non v’è pericolo.

— Preferisco però andarmene, dottore.

— Come volete; facciamo però prima colazione e dormiamo un paio d’ore. Abbiamo bisogno di un po’ di riposo. Sapete che sono quindici ore che non chiudiamo gli occhi.

— Se mi garantite che questi vulcanetti staranno tranquilli, facciamo pure una dormita anche di dieci ore. Si sta meglio qui che sulle casse della scialuppa.

— Speriamo che si accontentino di fischiare.

Trovato un luogo acconcio per accamparsi, si prepararono il pranzo poi, dopo qualche fumata, i quattro esploratori si avvolgevano nelle loro coperte e s’addormentavano profondamente, non ostante i continui sibili e gli scoppiettìi dei vulcanelli.