I naviganti della Meloria/9. Un lume sospetto
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IX.
Un lume sospetto.
Dopo una dormita durata ben dieci ore, i quattro esploratori si imbarcarono per riprendere il loro viaggio lungo il canale.
Appena oltrepassato il crepaccio che serviva d’entrata alla caverna dei vulcanetti di fango, la scialuppa urtava un grosso corpo galleggiante. Era uno dei due pescicani che avevano cercato di assalirla poche ore prima.
Il mostro, nel dibattersi, era andato a cacciare il muso entro una fessura della parete e con tale impeto da non essere stato più capace di staccarsene. Forse però la morte l’aveva sorpreso poco dopo.
Avendo dei viveri più che sufficienti per compiere il viaggio i pescatori ed il dottore non vollero occuparsi di trarlo di là per tagliarne qualche pezzo, tanto più che avevano fretta di uscire dal canale.
La marea saliva, perciò Michele e Roberto avevano dovuto riprendere i remi. La corrente però era così lenta e la scialuppa così leggera che non era necessario uno sforzo eccessivo per guadagnare via.
Il tunnel, al di là della spaccatura, descriveva un gomito assai accentuato piegando leggermente verso il sud. Forse il capitano Gottardi ed i suoi uomini erano stati costretti ad abbandonare la linea quasi retta fino allora seguìta, per evitare qualche ostacolo derivante dalla natura del suolo.
Infatti esaminata la parete settentrionale, il dottore constatò che era formata da una specie di granito durissimo, difficile ad intaccarsi. Probabilmente l’incontro di quella roccia aveva consigliato il capitano a deviare più verso il sud, dove invece il terreno era composto di tufo, pietra facilissima a traforarsi.
I naviganti avevano percorso circa due chilometri, quando verso la parete meridionale trovarono una grande escavazione che non doveva essere naturale, essendo le rocce perfettamente livellate. Quel cavo era così grande da poter contenere comodamente una delle più grosse navi.
— A cosa poteva servire questa specie di bacino? — chiese padron Vincenzo al dottore.
— Non comprendete lo scopo?
— No, dottore.
— Di fermata alle navi. Supponi che un vascello rimontasse il canale da levante ed un altro da ponente.
— Benissimo: ora capisco. Una delle due navi bisognerebbe che cedesse il posto all’altra, non consentendo la larghezza del canale il passaggio ad entrambe.
— E troverebbe qui il suo posto di fermata.
— Un brav’uomo quel capitano Gottardi!...
— Un grande ingegnere, Vincenzo.
— Ne troveremo degli altri di questi rifugi.
— Certamente e forse chissà quanti ne abbiamo passati senza vederli. Non ammetto che ne abbia fatto costruire uno solo a tanta distanza dall’Adriatico.
– A tanta distanza!... Ma dove ci troviamo noi?
— Se i miei calcoli sono esatti, noi dobbiamo aver percorso quasi mezza via. In questo momento noi attraversiamo il Modenese.
— Quale lunghezza date al canale?
— In linea retta non deve superare i centocinquanta o tutt’al più i centosessanta chilometri.
— Allora fra un paio di giorni noi avremo terminato il viaggio.
— Certamente, se non succedono dei malanni.
— Cosa temete?...
— Non si sa mai ciò che può avvenire.
— Speriamo che in questi due giorni non succeda la fine del mondo o che crolli la galleria — disse il pescatore, ridendo.
— Oh!... La galleria è solida — rispose il dottore. — Ha resistito per tanti secoli e non cederà ora.
Un brusco movimento fatto da Roberto, interruppe la loro conversazione.
— Cos’hai? — gli chiese padron Vincenzo.
Il giovane pescatore aveva abbandonato il remo e curvo sulla prora, pareva che cercasse di discernere qualche cosa attraverso le tenebre addensate sotto le infinite arcate del tunnel.
— Parla — disse il signor Bandi.
— Un lume — rispose Roberto.
— Un principio di fosforescenza?
— No, dottore: era un lume.
— È impossibile!
— L’ho veduto due volte brillare e poi spegnersi.
— Molto lontano?
— Forse qualche chilometro.
— Che fosse proprio un lume, signor Bandi? — chiese padron Vincenzo.
Il dottore scosse il capo.
— Nessuno può essere disceso qui — disse poi.
— E come lo spiegate?...
— Chissà, può esservi laggiù qualche vulcanetto però...
— Dite, dottore.
— Se vi fosse qualche vulcanetto si vedrebbe ancora il fuoco, mentre io non scorgo che tenebre.
— E nemmeno io vedo alcun punto luminoso.
— Andiamo innanzi.
Roberto stava per riprendere il remo, quando s’udì Michele ad esclamare:
— Guardate!... Guardate, signor Bandi!...
Il dottore e padron Vincenzo alzarono la testa e videro a brillare, distintamente, fra la profonda oscurità, un piccolo punto luminoso, di colore rossastro che pareva una stella di sesta o settima grandezza.
— Ma sì, laggiù arde qualche cosa!... — gridò Vincenzo.
— Si direbbe un fanale — disse il dottore.
— Ed un fanale da marina, a luce rossa — aggiunse Michele.
— Dottore!... — esclamò Vincenzo, incrociando le braccia e guardandolo fisso.
— Cosa vedete.
— Che qualcuno ci abbia preceduti?
— E chi?...
— Non vi ricordate di quella barca semisfasciata che abbiamo trovata sul banco di sabbia?
— Non l’ho dimenticata, Vincenzo.
— Forse gli uomini di quella barca hanno pure tentata l’esplorazione.
— E chi volete che abbia loro confidata l’esistenza di questo canale?
— Chi?... Chi?... Un birbante che lo sapeva.
— Il suo nome.
— Quel cane di Simone!...
— Lo slavo!...
— Non può esser stato che lui.
— Non credo che egli avesse tanta audacia da intraprendere una simile esplorazione. E poi cosa importava a lui di accertare l’esistenza di questo tunnel?...
— La speranza di scoprire qualche favoloso tesoro può averlo deciso.
— Lo dubito, Vincenzo. D’altronde noi non tarderemo a mettere in chiaro la cosa.
— Sì, dottore, e se quel furfante ha venduto il segreto ad altri, vi giuro che lo strozzerò!...
— Avanti, Michele!... Cerchiamo di guadagnare via!...
I due pescatori avevano ripreso i remi, mormorando minacce all’indirizzo dello slavo e decisi di raggiungere a qualunque costo quel punto luminoso.
Il dottore e padron Vincenzo, ritti a prora, interrogavano ansiosamente le tenebre, ma invano. La fiammella rossa non si vedeva più luccicare sotto le interminabili vôlte del tunnel.
S’avanzavano da circa mezz’ora, quando tutto d’un tratto videro la galleria allargarsi bruscamente, mentre le vôlte s’alzavano tanto da non poterle più scorgere.
Il dottore aveva alzata la torcia sperando di vedere le pareti; anche quelle pareva che fossero scomparse.
— Noi dobbiamo trovarci in qualche immensa caverna naturale — diss’egli a Vincenzo che lo interrogava. — Deve essere stata una vera fortuna per gli operai del capitano Gottardi.
— Siamo in qualche lago sotterraneo.
— E forse immenso Vincenzo. Odi, in lontananza, il rompersi delle acque sulle scogliere!...
— Sì, dottore. Cosa faremo?...
— Seguiremo l’una o l’altra delle due sponde.
— Ed il fanale?...
— Non lo vedo in alcuna direzione.
— Che quei furfanti siano scomparsi?
— Li ritroveremo, Vincenzo, quantunque abbia ancora i miei dubbi.
— Non credete che fosse un fanale?...
— Non ancora. Volete che pieghiamo a mezzodì o verso settentrione?...
— Seguiamo la costa meridionale. Ma... Oh!... Guardate laggiù, dottore!... Si tratta di fosforescenza o di qualche strano fenomeno?...
— Dove?...
— Non vedete quei bagliori? Si direbbe che laggiù vi sono degli ammassi di fosforo.
— Vi saranno degli ammassi di funghi invece.
— Dei funghi luminosi!...
— Vi stupisce?...
— Non ne ho mai veduti, dottore.
— Eppure ve ne sono anche in Italia e non pochi.
— E quali sono?
— Tutti i funghi degli olivi, gli agaricus olearius come vengono chiamati dai botanici sono fosforescenti. Se si lasciano esposti al sole per qualche tempo e poi si trasportano in luogo oscuro, mandano dei vivi bagliori specialmente sulla faccia inferiore del cappello. Ciò d’altronde si osserva anche alla notte.
«Ve ne sono poi altri, le rizomorfe per esempio, funghi che vivono sui tronchi delle piante e specialmente nei luoghi umidi ed oscuri i quali tramandano talvolta una luce eguale a quella d’una fiaccola vivissima.
— Si potrebbe adoperarli come lampade.
— Staccati perdono presto la loro fosforescenza.
— Dottore!... Che la luce che abbiamo scorta fosse prodotta dai funghi!...
— Può essere, Vincenzo.
— Sarei più contento che così fosse.
— Ed anch’io.
Mentre chiacchieravano, la scialuppa aveva raggiunta la riva meridionale della immensa caverna.
Quella spiaggia era superba. Pareva che fosse stata formata di banchi di ghiaccio e d’ammassi di neve, perchè le rupi che la formavano erano d’una candidezza abbagliante.
Si avrebbe detto che quella caverna era stata aperta fra un blocco immenso del più bel marmo di Carrara.
— Quante ricchezze da sfruttare vi sarebbero qui — disse il dottore che guardava, con viva ammirazione, quelle splendide rocce che la luce della torcia faceva talvolta scintillare come se fossero d’alabastro. Le celebri cave di Carrara sono un nulla in confronto alle enormi masse di pietra che qui si potrebbero trarre.
— Ed è marmo superbo, dottore — disse Vincenzo. — Me ne intendo un po’ avendo fatto parecchi carichi a Spezia.
— È statuario finissimo — rispose il dottore. — Non vale meno di millecinquecento lire al metro cubo.
— Qui adunque si potrebbero ricavare dei milioni.
— Sì, Vincenzo.
— Che disgrazia!... Tanta fortuna e non poterla sfruttare!...
— Un giorno, conosciuto il canale, si potrebbero mandare delle navi a caricare questi marmi.
— E delle migliaia di scalpellini.
— Sì, Vincenzo. Verrà l’epoca in cui anche questa immensa cava sarà lavorata.
— Forse quando si saranno esaurite quelle di Carrara?
— Eh!... Esaurirsi quelle cave!... Pensa che è dal tempo dei Romani che vengono lavorate eppure quante montagne di marmo rimangono ancora da spezzare!... E l’esportazione aumenta sempre!...
— Se ne deve estrarre un bel numero di tonnellate, dottore.
— Si calcolano a 90.000 all’anno in media.
— Delle montagne intere... Per ottenere una simile massa di macigni, devono venire impiegati moltissimi operai.
— Circa quattromila nel solo comune di Carrara, senza però contare gli scultori, i modellatori e le persone incaricate del trasporto dei marmi.
— I proprietari delle cave devono fare dei grossi guadagni.
Intanto la scialuppa, spinta dai due remi maneggiati da Michele e da Roberto, continuava a seguire la spiaggia di quella gigantesca caverna. Di tratto in tratto s’incontravano dei gruppi di scogliere emergenti dalle acque come dei veri ice-bergs polari, essendo anch’essi candidissimi come le pareti e le rupi della costa.
Ora invece si vedevano dei graziosi seni, dei porticini in miniatura, appena capaci di contenere una dozzina di scialuppe, oppure delle spaccature profonde che sembravano il letto d’antichi fiumiciattoli; talvolta anche delle cascate d’acqua si precipitavano dall’alto, balzando e rimbalzando su quegli splendidi marmi con un cupo rombo che l’eco della immensa caverna ingrossava smisuratamente.
E non crediate che su quelle spiagge mancassero piante, fiori e foglie. Non erano veramente piante vive, bensì pietrificate o formate da cristallizzazioni superbe.
In certi crepacci si vedevano sorgere dei tronchi d’alberi pietrificati, ma che davano una illusione perfetta, erano macchioni che non potevano certamente competere colla celebre foresta pietrificata scoperta ultimamente in America, nell’Arizona, ma pur sempre ammirabili.
Sulle rocce poi si scorgevano delle stupende cristallizzazioni. Soffici muschi, licheni leggiadrissimi, gruppi di filamenti, mazzi di foglioline, cespi di fiori strani che mandavano, alla luce della torcia, bagliori fulvi come se fossero d’oro o scintillìi di rubini o di topazi.
Certamente un tempo quella grande caverna doveva essere stata il fondo d’un vulcano, poichè quelle meravigliose cristallizzazioni ordinariamente non si vedono che nell’interno o sui crateri di quei mostri vomitanti fuoco.
Talvolta il candore dei marmi cambiava bruscamente. Alle rocce bianche si succedevano rupi di calcari rossi, carnicini, con venature splendide verdognole o rossastre; poco dopo il bianco riprendeva il suo impero.
Dopo un’ora la scialuppa giungeva dinanzi ad una microscopica baia, racchiusa da scogliere altissime che sembravano composte d’alabastro. Sulla spiaggia, fra due rocce colossali, si vedevano brillare degli ammassi di funghi, i quali spandevano all’intorno una luce fosforescente d’una tinta indefinibile.
— Andiamo a vederli — disse il dottore. — Intanto i nostri uomini si riposeranno un po’.
— E prepareranno la colazione — disse padron Vincenzo.
Stavano per sbarcare quando i loro orecchi furono colpiti da un lontano rombo che veniva dalle pareti delle gigantesche rupi ammassate sulla spiaggia.
— Cos’è questo? — chiese padron Vincenzo, guardando il dottore con una certa ansietà.
— Non saprei — rispose il signor Bandi, il quale s’era arrestato. — A me parve piuttosto uno scoppio.
— Forse è avvenuta qualche scossa di terremoto.
— Non lo credo. La superficie di questo lago è tranquilla.
— Udite?
— Sì, un altro scoppio.
— Ed è avvenuto dinanzi a noi.
— Però non si scorge nulla — disse il dottore. — Che vi sia qualche altra caverna?
— Scavata nella parete che vedo biancheggiare dietro a quelle rocce?
— Sì, Vincenzo.
— Cosa facciamo, dottore.
— Per Bacco!... Andremo a vedere cosa avviene laggiù.
— Non ci esporremo a qualche grave pericolo?
— I pericoli si possono anche evitare; basta essere prudenti.
— Allora andiamo tutti; alla colazione penseremo poi.
— È ben assicurata la scialuppa?
— L’ho legata con doppio ormeggio — disse Michele.
— Prendete altre due lampade e andiamo a vedere da che cosa sono prodotti questi rombi.
Poco dopo i tre pescatori ed il dottore sbarcavano, dirigendosi verso quell’ammasso di funghi che s’estendeva per un tratto d’oltre cinquanta metri su una larghezza di venti o trenta.
Erano una specie di rizomorfe, ossia di quei funghi che crescono sugli alberi morti e nelle cantine, però di dimensioni molto maggiori. Infatti ve n’erano taluni che avevano trenta o quaranta centimetri di circonferenza, con un’altezza di sette od otto pollici.
Mentre il dottore ed i suoi compagni stavano osservandoli, udirono nuovamente il rombo. Questa volta pareva che uscisse da una grande arcata che si vedeva delinearsi confusamente al di là della rupe.
— Sono vere esplosioni — disse il dottore. — Che vi sia qualche vulcanetto in questi dintorni? Mi sembra di sentire odor di zolfo o di materie bituminose.
— È vero, signore — disse Michele.
— Cerchiamo un passaggio fra queste rupi.
— Badate, dottore — disse Vincenzo.
— Non temere, amico; se vi sarà qualche pericolo, ci affretteremo a ritornare.
Dopo aver superata, con non pochi rischi, un’altra rupe, trovarono una specie di gola strettissima, cosparsa di frammenti di marmo bianchissimi che si potevano scambiare per pani di zucchero infranti da qualche maglio enorme e fiancheggiata da due pareti lisce, tagliate a picco.
Pareva che, anticamente, quel passaggio avesse servito di letto a qualche impetuoso torrente.
La via era aspra, in causa soprattutto di quei pezzi di roccia, ma il dottore ed i suoi compagni superarono ben presto quegli ostacoli sboccando in un avvallamento assai profondo. Di fronte a loro si rizzava una parete gigantesca, la cui cima smarrivasi fra le tenebre. Era perfettamente liscia, impossibile a scalarsi; però, guardando verso destra, il dottore credette di scorgere una specie di arcata che poteva indicare o qualche passaggio o l’entrata di qualche caverna.
— Là — diss’egli.
Stava per slanciarsi in quella direzione, quando vide una specie di lampo rossastro balenare al di sotto di quell’arcata, seguìto poco dopo da quel rombo che già avevano udito prima.
— Avete veduto, signore? — chiese padron Vincenzo.
— Sì — rispose il dottore.
— Laggiù vi deve essere l’inferno.
— Qualche cosa di simile — rispose il signor Bandi, ridendo. — Avete paura a seguirmi?
— Se andate voi, verrò anch’io.
— E anche noi — dissero Michele e Roberto.
— Allora vi mostrerò una eruzione di lave. Sarà uno spettacolo che ve lo ricorderete per un pezzo e che ben pochi hanno potuto osservare.
— E non ci abbruceremo?
— Non temere, Vincenzo. Venite, amici!