I naviganti della Meloria/20. La frana
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XX.
La frana.
Le poderose scosse di terremoto, avevano prodotto in quel luogo un vero disastro.
Le vôlte, spaccate, erano diroccate violentemente trascinando con loro gli strati superiori del suolo e quella massa enorme di terra e di macigni, aveva ostruito completamente il passaggio, tagliando a metà le acque del canale.
Forse lateralmente, al di sotto del pelo d’acqua, qualche passaggio era rimasto, udendosi verso le pareti dei gorgoglìi, ma doveva essere così ristretto da non permettere agli esploratori di poterne approfittare.
— Siamo bloccati — aveva esclamato padron Vincenzo. — Cosa faremo noi ora?
— La cosa è grave, non ve la nascondo, — rispose il dottore, — però credo che non rimarremo a lungo prigionieri.
— Volete tentare di aprire una galleria?
— Sì, Vincenzo, e senza perdere tempo. Io temo che l’acqua ci possa venire a mancare, possedendone noi pochissima.
— E l’aria? Essendo la comunicazione tagliata, non entrerà più.
— Non temere che noi possiamo morire asfissiati. L’aria può filtrare egualmente e poi ve ne sarà sempre in abbondanza qui.
— Che sia molto estesa questa frana? — chiese Michele.
— Ecco quello che non possiamo sapere — rispose il dottore.
— Una domanda, signore — disse Roberto.
— Parla liberamente.
— Potremo scavare una galleria?
— E perchè no?
— Questa massa di terreno non ci crollerà addosso?
— È possibile, pure non vi è altra via da tentare. Scaveremo con prudenza e non ci inoltreremo se non saremo ben certi del nostro lavoro.
— Che sia meglio attaccare la frana in alto o abbasso.
— Verso le vôlte, Vincenzo.
— E la zattera?
— La scioglieremo per ricostruirla poi al di là della frana. Sarà un lavoro lungo e faticoso, ma noi siamo uomini da non indietreggiare.
— E poi si tratta della pelle — disse Michele. — Quando vi è l’esistenza in giuoco non si guarda ai sacrifici.
— Dottore — disse padron Vincenzo. — Affrettiamoci o noi verremo alle prese colla fame e colla sete.
Il signor Bandi esaminò la frana su tutta la sua fronte per scegliere il punto migliore, quindi sbarcò e arrampicatosi sulle rocce accumulate insieme al terriccio, giunse presso la vôlta.
Avendo osservato che un masso enorme, composto di tufo, si appoggiava solidamente ai massi inferiori, lo mostrò ai suoi amici, dicendo:
— Assaliremo questo.
— Sarà molto più duro della terra — osservò padron Vincenzo.
— Questo è vero, ma avremo il vantaggio di non vederci crollare addosso la galleria da noi scavata. Impiegheremo doppio tempo, però lavoreremo con maggior sicurezza.
— Quale spessore avrà questa rupe?
— Lo sapremo domani o posdomani.
— Che si spinga fino dall’altro lato del canale?
— Lo spero. Mano ai picconi, amici e forza di braccio.
Per non esaurirsi tutti in una volta e non potendo d’altronde lavorare tutti uniti, si divisero.
Michele e padron Vincenzo, i due più robusti s’incaricarono della prima ora di lavoro; il dottore e Roberto dovevano poi surrogarli e nel frattempo sciogliere la zattera.
I due pescatori, dopo d’aver osservata attentamente la vôlta onde evitare di venire schiacciati da qualche masso male equilibrato, afferrarono i picconi e si diedero a battere la gran rupe con vero furore, facendo saltare a destra ed a manca degli scheggioni del peso di qualche chilogrammo.
Fortunatamente quel tufo era di qualità friabilissima, sicchè i picconi avevano buon giuoco. In una diecina d’ore potevano aprire una galleria di mezza dozzina di metri e fors’anche di più.
Dopo la prima ora, il dottore e Roberto surrogarono i due lavoratori, assalendo anche essi la rupe con grande energia.
Per otto ore continue i quattro esploratori batterono la rupe, poi stanchi, trafelati, sostarono per mangiare un boccone.
Il tunnel scavato era già molto innanzi, però non pareva che fosse al termine, anzi, la roccia aveva dato un suono così sordo da far disperare padron Vincenzo.
— Ne avremo per molto, temo — disse al dottore. — Eppure abbiamo lavorato meglio dei minatori.
— Non perdiamoci di coraggio, amico. Colla pazienza si arriva dappertutto.
— Ebbene sono assai inquieto, dottore. Non abbiamo che tre litri d’acqua, avendone consumati già due.
— La economizzeremo, Vincenzo.
Terminata la cena si rimisero al lavoro con novello vigore, addentrandosi nella galleria. Il secchio di catrame era stato portato presso l’imboccatura onde i lavoratori potessero vederci, però il fumo che sprigionava quella torcia primitiva dava non poco fastidio a tutti.
Tuttavia per altre otto ore continuarono a picchiare la grande rupe. Alla nona, quando già avevano scavati altri cinque metri, trovarono improvvisamente uno strato di terra misto a sassi di dimensioni non comuni.
— La rupe è stata attraversata — disse padron Vincenzo.
— Si ode nulla? — chiese il dottore.
Il pescatore appoggiò un orecchio allo strato ed ascoltò con profondo raccoglimento.
— Nulla — disse poi.
— Non udite il mormorìo delle onde?
— No, dottore.
Il signor Bandi fece un gesto di scoraggiamento.
— Ciò vuol dire che la frana ha uno spessore enorme — mormorò.
— Che cosa facciamo, dottore? — chiesero i tre pescatori.
— Bisogna continuare il lavoro o noi morremo tutti.
— Resisterà questo terreno? — chiese padron Vincenzo. — Mi pare molto friabile.
— Tentiamo.
Padron Vincenzo e Michele, quantunque fossero esausti, afferrarono i picconi e cominciarono ad assalire lo strato, levando uno ad uno i massi che incontravano.
Il dottore e Roberto colle pale ritiravano la terra e la portavano fuor della galleria, precipitandola nel canale.
Pareva da principio che tutto dovesse andare bene. Ad un tratto però, quando padron Vincenzo e Michele si erano inoltrati d’un paio di metri, la vôlta della galleria cominciò a franare.
Ebbero appena il tempo di uscire. Un istante dopo una valanga di terriccio e di massi precipitava con grande impeto, distruggendo quel lavoro che aveva costato due ore di fatiche.
— Mille merluzzi! — esclamò padron Vincenzo, che era scampato miracolosamente al pericolo. — Un momento di ritardo e noi eravamo impacchettati nel suolo. Noi siamo proprio disgraziati, dottore. Tutto congiura contro di noi.
— O meglio siamo stati imprudenti — rispose il signor Bandi. — Dovevamo prevedere questa catastrofe.
— Vi dico che non si farà nulla, dottore. Il terreno non ha consistenza.
— Anche nella miniera talvolta franano le vôlte, eppure i minatori non s’arrestano.
— Come fare allora?
— Puntelleremo la vôlta.
— Con che cosa?
— Forse che non abbiamo il legname della zattera?
— E dopo?
— Vuoi dire?
— La zattera ci sarà necessaria per navigare.
— Ritireremo i puntelli finchè potremo. Del legname ne abbiamo in abbondanza, Vincenzo. Coraggio amici, non è il momento d’indietreggiare.
Durante lo scavo della prima galleria, Roberto aveva già sciolto la zattera ed il legname era stato messo al sicuro, sul fianco della frana.
I tre pescatori trasportarono le tavole e le traverse fino presso la vôlta del canale poi nella galleria ed il lavoro fu ripreso con novello vigore. Mentre padron Vincenzo e Michele tornavano a scavare, il dottore e Roberto s’affrettavano a collocare le traverse ed a puntellarle.
Essendo necessario molto legname, anche le botti erano state sfondate per poter utilizzare le doghe.
Dopo qualche ora padron Vincenzo s’avvide del felice successo ottenuto con quel sistema usato dai minatori di carbon fossile. Le vôlte non franavano più e permettevano di spingere il lavoro con maggior alacrità, senza poi contare la maggior sicurezza.
Dopo altre tre ore, la nuova galleria era stata approfondita di altri quattro metri e senza che cadesse una sola palata di terra.
La stanchezza costrinse ben presto i lavoranti a sospendere l’escavazione. Da più di venti ore non avevano chiusi gli occhi un solo momento e non si reggevano più in piedi.
Trovato un piccolo spazio quasi piano si lasciarono cadere al suolo, addormentandosi di colpo.
Quanto durò quel sonno? Era impossibile a saperlo.
Mangiati pochi biscotti quando si svegliarono, e vuotata una scatoletta di tonno, ritornarono nella seconda galleria colla speranza di poter finalmente attraversare la frana e giungere nel canale.
Stavano per intaccare il terreno, quando un rombo sordo si propagò attraverso gli strati del suolo.
I quattro esploratori si guardarono in viso l’un l’altro, con terrore.
— Ancora il terremoto? — chiesero Michele e Roberto, con voce angosciata.
— Ma no — disse padron Vincenzo. — Questo rombo mi parve ben diverso dall’altro. Cosa dite dottore?
Il signor Bandi invece di rispondere aveva appoggiato un orecchio al suolo e ascoltava con grande attenzione.
Un secondo, poi un terzo, indi un quarto rombo si fecero udire a brevissima distanza l’uno dall’altro.
— Amici! — esclamò il dottore, con accento giulivo. — Non sapete da che cosa prevengono questi rombi lontani?
— Annunciano una nuova scossa, è vero signore? — chiese Roberto.
— No, miei amici! Sono colpi di cannone!
— Di cannone! — esclamarono tutti, con stupore.
— Sì — riconfermò il dottore.
— Ma allora noi siamo presso il golfo! — esclamò padron Vincenzo.
— Certamente e forse noi ci troviamo ora sotto le fortificazioni della città. Non udite che questi colpi prevengono dall’alto? Forse il franamento ha lasciato qualche fessura comunicante colla superficie del suolo ed il rimbombo dei cannoni si ripercuote fino a noi.
— Mille milioni di merluzzi e di pescicani! — esclamò padron Vincenzo. — Giacchè sappiamo ora di essere così vicini al golfo, buttiamo giù subito questa dannata frana e scendiamo dall’altra parte.
— Adagio, Vincenzo. Non commettiamo delle imprudenze; una nuova frana può avvenire e seppellirci tutti.
— Sono impaziente di andarmene.
— Io non lo sono meno di voi, Vincenzo.
— Ricominciamo?
— Sì, però procediamo adagio. Quanti metri abbiamo scavato?
— Sei, dottore — rispose Michele.
— Siamo già molto innanzi.
— Ma quanto ci mancherà ancora? — chiese padron Vincenzo.
— Possiamo assaggiare il terreno. Abbiamo un lungo palo fra le tavole della zattera.
— Sì, dottore.
— Andatelo a prendere.
Roberto uscì dalla galleria aperta nella rupe e poco dopo entrava portando un pennoncino della lunghezza di cinque metri.
— Facciamo una punta — disse il dottore.
Padron Vincenzo con pochi colpi di scure la aguzzò ad una estremità poi i quattro esploratori, unendo i loro sforzi, lo cacciarono orizzontalmente nella massa di terra, battendo l’altra estremità per mandarlo innanzi.
Quel primo assaggio non diede alcun risultato favorevole, avendo incontrato una resistenza invincibile, dovuta certamente alla presenza di qualche altra roccia.
Rinnovarono l’operazione un po’ più in alto, poi più sotto e sempre con medesimo insuccesso.
— Dovremo scavare una terza galleria — disse il dottore che era diventato pensieroso. — Questa frana ha uno spessore enorme e temo che ci vorrà molto tempo per attraversarla.
— Apriamo intanto questa e lavoriamo con lena — disse padron Vincenzo. — Non dimentichiamo che i viveri scarseggiano.
— Quanti ce ne rimangono? — chiese il dottore.
— Per un giorno ancora.
— Brutta notizia. Orsù, non disperiamo e confidiamo ancora in Dio.
Si rimisero al lavoro con accanimento. Michele e padron Vincenzo scavavano ed il dottore e Roberto trasportavano la terra fuori dalla galleria e armavano la vòlta per impedire dei nuovi franamenti.
Quel lavoro durò due ore, poi i minatori si trovarono dinanzi ad una massa rocciosa che pareva dovesse avere delle dimensioni straordinarie.
— Ecco quello che temevo — disse il dottore.
Padron Vincenzo, quantunque avesse lavorato fino a quel momento, attaccò la roccia con rabbia estrema, validamente aiutato da Michele.
Quel macigno era formato da una specie di tufo, friabile come l’altro, attraversato però da venature rosse piuttosto resistenti.
Per altre quattro ore i due pescatori s’accanirono contro quel nuovo ostacolo, avanzandosi per altri due metri, poi si arrestarono entrambi, mandando un grido di stupore.
— Cosa avete? — chiese il dottore accorrendo. — Frana la galleria.
— No, signore — rispose padron Vincenzo. — La parete rocciosa ha ceduto e vediamo dinanzi a noi il vuoto.
— Che la frana sia stata attraversata?
— Hum! Lo dubito, dottore; io non odo il gorgoglìo dell’acqua.
— Porta la lampada! — comandò il signor Bandi.
Roberto sollevò il secchio ripieno di catrame e lo accostò.
La parete rocciosa sotto i poderosi colpi di zappa dei due pescatori erasi aperta, mostrando una cavità che pareva molto vasta.
Il dottore introdusse la testa in quel crepaccio e guardò dall’altra parte, ma non potè distinguere nulla. Tese gli orecchi, raccomandò ai compagni di non parlare e gli parve di raccogliere un lontano mormorìo che poteva essere prodotto dal rompersi dell’acqua contro le pareti del canale.
— E dunque? — chiese padron Vincenzo, che era in preda ad una viva impazienza.
— Esiste una galleria — disse il dottore.
— E dove metterà?
— Se non la esploriamo è impossibile a saperlo. Credo che abbia qualche comunicazione col canale.
— E come può essersi qui formata una galleria? La cosa mi sembra molto strana, dottore.
— Ed a me niente, Vincenzo. Le rocce, cadendo disordinatamente, lasciano sovente dei vani e dei passaggi fra di loro.
— Esploriamola, dottore — dissero Michele e Roberto.
— Accendiamo una fune incatramata e seguitemi. Vediamo dove finisce.
Allargarono coi picconi l’apertura e accesa una fune incatramata, si spinsero risolutamente in quel buco.
Non si trattava veramente d’una galleria. Era un semplice passaggio, formato da immense rupi addossatesi l’una all’altra, in modo però da toccarsi solamente verso la cima.
Sotto era rimasto uno spazio sufficiente per permettere a delle persone d’inoltrarsi senza troppa difficoltà.
Il dottore e padron Vincenzo, che marciavano alla testa, s’accorsero presto che quel passaggio invece d’innalzarsi verso le vôlte, scendeva come se volesse sprofondarsi nelle acque del canale.
— Diavolo!... — esclamò padron Vincenzo. — Dove andremo a finire noi?
— Sapete dirmi quale direzione tiene questa galleria? — chiese il dottore, il quale si era arrestato.
— Va da levante a ponente, signore.
— Allora segue la linea del tunnel?
— Sì, dottore. Ma perchè queste domande?
— Un momento. Quanti metri abbiamo percorsi finora?
— Almeno sessanta.
— E non siamo ancora alla fine.
— Cosa volete concludere, dottore?
— Che se noi non avessimo trovato questo passaggio, avremmo dovuto scavare forse cento e più metri di galleria.
— Saremmo prima morti di fame o di sete.
— Non siamo ancora certi di essere sfuggiti al pericolo, Vincenzo.
— Volete spaventarmi, dottore?
— A quale scopo? Dico questo perchè noi non sappiamo ancora dove finirà il passaggio.
— Mille merluzzi!... Non udite l’acqua a gorgogliare dinanzi a noi? Sono le piccole onde prodotte dal flusso e che si rompono dentro la frana.
— La odo, Vincenzo, ma se questo passaggio finisse sott’acqua?
— Non daremo indietro, dottore — rispose padron Vincenzo, risolutamente. — Avanti!...
Il passaggio scendeva rapido, conservando però sempre una larghezza sufficiente e un’altezza superiore ai due metri e mezzo. Non era regolare, anzi tutt’altro; qua e là le due gigantesche rupi che l’avevano formato, impedendo alla frana di occupare anche quello spazio, ora si avvicinavano ed ora si allontanavano, essendo le loro superfici ora irte di sporgenze ed ora ricche di curve rientranti.
Percorsi altri quindici metri padron Vincenzo, che si era messo dinanzi a tutti, s’arrestò bruscamente.
Alla luce della corda incatramata aveva veduto a scintillare una pozza d’acqua.
— Ci siamo — disse.
— Dove? — chiese il dottore.
— La galleria finisce in acqua. Voi avete ragione, signor Bandi.
— Vediamo.
Il dottore si spinse innanzi e constatò che quel passaggio finiva precisamente nelle acque del tunnel.
Si curvò e bagnò un dito portandoselo alle labbra.
— Acqua salata — disse.
— Sarà possibile passare? — chiese padron Vincenzo.
— È quello che non possiamo sapere. Roberto, va’ a prendere il palo.
— Volete misurare la profondità?
— Sì, Vincenzo.
Un istante dopo Roberto tornava col piccolo pennone.
Il dottore lo cacciò in acqua e con sua grande soddisfazione s’accorse che non vi era alcun ostacolo.
— Pare che questo canale si prolunghi anche sott’acqua — disse. — Le due rupi si sono adagiate sul fondo del canale.
— E come faremo a uscire da qui? — chiese padron Vincenzo.
— Non vi è che un mezzo.
— Immergersi e nuotare sott’acqua, è vero?
— Sì, Vincenzo.
— A me, allora.
Senza aggiungere altro il pescatore si sbarazzò rapidamente delle vesti, poi tendendo una mano al dottore, gli disse:
— Tornerò presto.
— Volete tentare la sorte, Vincenzo?
— È necessario — rispose il pescatore. — Ancora un giorno che perdiamo e noi saremo alle prese colla fame.
— E se la galleria fosse chiusa?
— Allora cercheremo qualche altro mezzo per uscire da questa orribile prigione.
— Vincenzo, pensate a quello che fate.
— Oh!... Sono un abile nuotatore.
— Andate e tornate presto.
Padron Vincenzo si immerse rapidamente dopo d’aver fatta un’abbondante provvista d’aria.
Il dottore, Roberto e Michele, curvi sull’acqua, aspettavano la comparsa del loro intrepido compagno con angoscia indicibile. Dalla riuscita di padron Vincenzo dipendeva la loro sorte.
Se il canale era chiuso, per essi era finita, non avendo i viveri sufficienti per poter intraprendere un altro lavoro.
Passarono dieci, poi quindici secondi, senza che il bravo pescatore riapparisse.
Già il dottore ed i suoi compagni cominciavano a temere che a padron Vincenzo fosse toccata qualche disgrazia, quando udirono l’acqua a gorgogliare.
— Vincenzo!... — gridò il signor Bandi.
La testa del pescatore comparve.
— Eccomi, dottore — disse, dopo d’aver sternutato sonoramente.
— Dunque? — chiesero ansiosamente il dottore, Michele e Roberto.
— Il passaggio è libero — rispose il pescatore.
— Comincia il canale?
— Sì, dottore.
— È lunga la galleria?
— Forse quindici metri.
— Avete veduto nessun raggio di luce?
— No, dottore.
— Allora noi non siamo ancora giunti allo sbocco del canale. Ciò m’inquieta, padron Vincenzo.
— E perchè, dottore?
— Avremo ancora bisogno della zattera.
— La ricostruiremo al di là del passaggio.
— Dovremo fare molti viaggi, Vincenzo, per poter condurre con noi i legnami.
— Io e Michele siamo abili nuotatori e anche Roberto non è alle sue prime armi. Dottore, non perdiamo tempo. Fra un paio d’ore possiamo navigare sul libero canale.
— Sono pronto ad aiutarvi.
Lasciarono un pezzo di corda incatramata presso lo sbocco della galleria, poi tornarono indietro per trasportare i pezzi della zattera.
In capo a mezz’ora le tavole e le travi si trovavano radunate presso il passaggio acquatico.
— Prima di metterci al lavoro, ditemi se potremo trovare un posto per costruire la zattera — disse il dottore.
— Sì — rispose padron Vincenzo. — Ho trovato una specie di banchina formata da una di queste due rupi.
— Chi passa pel primo?
— Io, dottore — rispose Michele. — Voglio conoscere anche io il passaggio.
— Noi vi seguiremo.
Si spogliarono tutti, fecero delle vesti un pacco solo che legarono attorno ad una delle tavole più grandi, poi Michele pel primo si cacciò arditamente sott’acqua, spingendo innanzi a sè il pennoncino.
Dietro a lui si gettarono, uno ad uno, il dottore, padron Vincenzo e Roberto trascinando con loro delle tavole, le maggiori.
Mezzo minuto dopo e forse anche prima, i quattro esploratori si trovano radunati su una specie di banchina, formata, a quanto si poteva supporre, da una delle due grandi rupi.
Il dottore, che aveva conservata la sua scatola di fiammiferi, chiusa ermeticamente, dopo infinite precauzioni accese un zolfanello.
A quella debole fiamma vide che avevano approdato su di una roccia che si staccava dalla frana. Era una specie di banco, perfettamente liscio, e così grande da permettere di raccogliere dieci o dodici persone.
— Qui potremo ricostruire la zattera — disse il dottore. — Vi è spazio sufficiente.
— Anche per accamparci — disse padron Vincenzo.
— E per fare una dormita — aggiunse Roberto. — Io non ne posso più.
— Nessuno c’impedirà di prendere un po’ di riposo — rispose il dottore.
— E se durante il nostro sonno le rupi cedessero e ci schiacciassero? — chiese Michele, rabbrividendo.
— Se non si sono riunite prima resisteranno anche ora — disse il dottore. — Ordinariamente quando avviene una scossa di terremoto molto forte, non si ripete subito dopo.
«I vapori ormai si sono aperti una via attraverso le viscere della terra e non avranno bisogno di un altro sfogo, almeno per un certo tempo.
— Lo dite per tranquillizzarci dottore? — chiese padron Vincenzo, il quale osservava la vôlta con inquietudine.
— No, amico mio. Costruiamo prima la zattera onde la corrente non porti via le tavole, poi dormiremo un paio d’ore.
I tre marinai, un po’ rassicurati, si misero tosto al lavoro, unendo le tavole ed i pennoncini colle funi che avevano tolte alla vecchia galera, poi assicurarono il galleggiante alla punta d’una roccia.
Mangiarono lestamente alcuni biscotti con un pezzo di lardo, innaffiando il tutto con una sorsata d’acqua, poi si sdraiarono gli uni accanto agli altri cercando di chiudere gli occhi.
Tentativi inutili!... La paura che avvenisse un’altra scossa e che le rupi si abbassassero, li teneva svegli. Anzi di quando in quando ora l’uno ed ora gli altri si alzavano per tendere gli orecchi, credendo sempre di udire a propagarsi attraverso alle gallerie quel terribile e pauroso rombo che si sentivano ripercuotere ancora dentro i cervelli.
Anzi Michele, che ne aveva riportato più profondo effetto di tutti, chiedeva di sovente a Roberto che gli stava vicino:
— Trema il suolo?
— Non mi pare.
— Eppure giurerei d’aver udito degli scricchiolìi misteriosi.
— Ma no, tutto è tranquillo.
Dopo cinque minuti erano le medesime domande e le identiche risposte. Tuttavia nemmeno il dottore era capace di addormentarsi.
Era passata un’ora, quando Michele balzò in piedi urlando:
— Fuggite!... Alla zattera!...
Non si era ingannato. Un altro rombo, meno intenso di quello udito il giorno innanzi è vero, si era udito echeggiare sotto la tenebrosa galleria e dei frammenti di roccia erano caduti in acqua, producendo un rumore simile alla pioggia.
Tutti si erano alzati, mentre il dottore accendeva con molto stento, un pezzo di fune incatramata che per un caso provvidenziale non era molto umida.
— Alla zattera!... — gridò, appena un po’ di luce ruppe le tenebre.
I tre marinai con un solo salto si slanciarono sul galleggiante.
Avevano appena presi alcuni pezzi di legno che contavano servirsene come di remi, quando un secondo rombo si fece udire, molto più intenso di prima.
Le due rupi già malferme, si spaccarono di colpo, facendo scomparire lo spazio che esisteva, mentre dalla vôlta precipitavano nel canale enormi massi.
Uno era caduto sulla zattera spaccandola a metà, poi un’onda gigantesca si era rovesciata attraverso il canale, allontanando i due pezzi.
Quando fu passata, il dottore e padron Vincenzo si trovarono soli.
L’altro pezzo, con Roberto e Michele, era scomparso!...