I naviganti della Meloria/14. Le vittime del grisou
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XIV.
Le vittime del «grisou».
La lampada di sicurezza, inventata dal celebre chimico inglese Davy circa ottant’anni or sono, permette di sfidare impunemente il gaz tuonante, chiamato anche grisou, che si trova sparso talvolta in grandi quantità nelle miniere di carbon fossile.
Somiglia ad una lampada comune, ma la fiamma è circondata da una fitta reticella metallica, la quale impedisce che l’accensione si comunichi al gaz esterno, e ciò per una legge fisica assai facile a spiegarsi.
Il grisou, penetrando attraverso la reticella, si accende subito, senza però provocare esplosioni, essendo la quantità minima, ma il metallo, che è un buonissimo conduttore, assorbendo immediatamente il calore, impedisce che si comunichi all’esterno.
Prima dell’invenzione di questa lampada, tremende esplosioni avvenivano nelle miniere di carbon fossile, seppellendo talvolta sotto le macerie delle centinaia di operai; ora questo pericolo è evitato. È bensì vero che anche oggidì di quando in quando si hanno da deplorare delle catastrofi; sono però dovute all’imprudenza dei minatori, i quali talvolta osano accendere le pipe, malgrado il pericolo e gli ordini severissimi degli ingegneri.
Accesa la lampada con speciali operazioni, il dottore ed i suoi compagni guardarono se le vôlte avevano sofferto per quel tremendo scoppio, ma videro che non avevano ceduto in alcun luogo. Solamente qualche crepaccio si era manifestato nella parete meridionale, cosa però di nessuna importanza.
— È stata una vera fortuna che la fiammata sia fuggita verso l’ovest — disse il dottore. — Se si fosse rovesciata su di noi, ci avrebbe arrostiti e probabilmente anche subissati.
— Che vi sia qualche miniera di carbon fossile in questi paraggi? — chiese padron Vincenzo.
— Certamente — rispose il dottore. — Il grisou irrompe dai carboni ordinariamente, però non manca nelle salse e nei pozzi petroliferi.
— Che siano stati gli uomini che ci precedono ad accenderlo?
— Da solo non prende fuoco.
— E come può essersi sprigionato il grisou?
— Chi sa, in qualche miniera può essere avvenuto qualche franamento, ed il gaz, che si trova rinchiuso fra gli strati carboniferi, è uscito accumulandosi nella galleria.
— Allora quella miniera deve avere comunicazione col tunnel.
— Sì, Vincenzo. State attenti se vedete, a destra od a manca, qualche caverna o qualche squarcio.
— Non ci sfuggirà, dottore — risposero i pescatori.
La scialuppa intanto s’avanzava rapidamente, poichè anche chiacchierando, i quattro esploratori arrancavano con supremo vigore, essendo ansiosi di giungere là dove era avvenuto lo scoppio.
Il grisou pareva che aumentasse di passo in passo che si avvicinavano al luogo della catastrofe. La fiamma della lampada volta a volta si allargava e si tingeva di azzurro, segni infallibili della presenza del pericoloso gaz.
Certamente quello scoppio aveva prodotto qualche altra frana nei depositi carboniferi, e il grisou si era nuovamente accumulato sotto le vôlte del canale.
Guai se qualcuno avesse acceso uno zolfanello! Un altro scoppio si sarebbe succeduto e forse più tremendo del primo.
Già gli esploratori si erano avanzati d’un chilometro, quando la scialuppa urtò bruscamente contro un ostacolo, il quale però subito cedette, non avendo arrestata la spinta dei remi.
— C’è qualche cosa dinanzi alla prora — disse Michele, abbandonando il remo e balzando in piedi.
— Che abbiamo urtato contro qualche rottame? — si chiese padron Vincenzo.
Staccò la lampada e si chinò sulla prora. Subito vide un oggetto, non ben definito, galleggiare a babordo della scialuppa.
— Aiutatemi — disse.
— Badate a non sbandare la scialuppa — disse il dottore.
— Non temete — rispose Michele.
Vincenzo e Roberto si spinsero fuori dal bordo ed agguantarono l’oggetto che si trovava quasi interamente sommerso.
— È un barile — disse Vincenzo.
— E deve essere pieno — aggiunse Roberto.
— Potete issarlo a bordo? — chiese il dottore.
— Non è molto grande, quindi non sarà difficile. Bada, Roberto! Non forzare il bordo o cederà.
Afferratolo solidamente, con uno sforzo poderoso lo trassero dall’acqua e lo deposero in mezzo alla scialuppa.
Il dottore s’era impadronito vivamente della lampada, osservandolo attentamente.
Era un barile comune, di quelli che vengono chiamati dai marinai carratelli, senza alcuna modificazione. Solamente su di una doga si scorgevano due lettere impresse a fuoco: un B ed un N.
— Nulla — disse il dottore. — Speravo di trovare qualche nome, almeno quello del fabbricante o del fornitore.
— Vediamo cosa contiene — disse padron Vincenzo.
Afferrò una scure e con un colpo vigoroso sfondò una doga.
— È pieno di carne salata — disse.
— Bene conservata?
— Sì, dottore.
— Allora questo barile apparteneva agli uomini che ci precedono. Se fosse rimasto sommerso parecchio tempo, anche ben chiuso, le carni si sarebbero guastate.
— Il legno non si è ancora impregnato d’acqua — osservò Michele. — Questo barile deve essere stato gettato nel canale da qualche ora.
— Ciò mi mette un sospetto — disse Vincenzo.
— Quale? — chiese il dottore.
— Che quell’esplosione abbia affondata la scialuppa degli uomini che ci precedono.
— È probabile.
— Allora si saranno annegati?
— Lo temo, Vincenzo. Le pareti del canale sono troppo lisce per offrire un rifugio. Io non so chi sono quegli uomini, ma penso che non dobbiamo lasciarli perire. Chissà qualcuno nuota ancora.
— Proviamo a chiamare. Se qualcuno è ancora vivo, risponderà.
— Tanto più che sotto questo tunnel la voce deve propagarsi ad una distanza straordinaria.
Padron Vincenzo lanciò tre tuonanti chiamate:
— Ohe! Ohe! Ohe!
Stettero in ascolto, ma la voce si perdette sotto le infinite vôlte dell’immensa galleria, senza ottenere alcuna risposta.
Le tre chiamate furono ripetute e con eguale insuccesso.
— Devono essere morti — disse Michele, il quale aveva provato un brivido.
— Lo suppongo — rispose il dottore. — La terribile fiamma li avrà asfissiati di colpo e fors’anche carbonizzati.
— Cerchiamo almeno i loro cadaveri — disse padron Vincenzo, con voce un po’ commossa. — Quei poveri diavoli non ci hanno fatto nulla di male.
— Sì, cerchiamoli — disse il dottore. — Ai remi!... Ai remi!...
La scialuppa s’avanzava rapidamente, fendendo con cupo fragore le acque del canale.
Padron Vincenzo di quando in quando guardava dinanzi la prora per vedere se vi erano altri avanzi, qualche altro barile, qualche cassa o qualche rottame, e di quando in quando lanciava qualche chiamata.
Nulla, assolutamente nulla si vedeva, nè si udiva. Pareva che i disgraziati esploratori che li precedevano fossero stati veramente uccisi dall’esplosione del grisou.
Ad un tratto, ad una svolta della galleria, il pescatore scorse, nella parete meridionale, una grande squarciatura, dalla quale uscivano delle ondate di fumo nerissimo ed impregnato di quell’odore acuto che mandano i carboni fossili in combustione.
— Alt! — comandò.
— Un’apertura? — chiese il dottore.
— Una caverna, mi pare — rispose il pescatore.
— Che la miniera si trovi là dentro?
— Lo sospetto, signor Bandi. Ma... adagio... esce del fumo.
— Ed attraverso al fumo vedo dei bagliori rossastri — disse Michele, che era salito sul banco di prora. — Pare che vi sia del fuoco là dentro.
— Andiamo a vedere — disse il dottore. — Mi pare che lo squarcio sia abbastanza largo per lasciar passare la scialuppa.
— E non correremo il pericolo di saltare in aria? — chiese padron Vincenzo.
— Se vi fosse del grisou, a quest’ora sarebbe scoppiato.
— Ed il fumo non ci soffocherà?
— Se la respirazione diverrà difficile, torneremo indietro — disse il dottore. — Avanti, amici forse là dentro agonizzano quei disgraziati che hanno provocato lo scoppio del gaz.
— Andiamo a salvarli! — esclamarono i tre pescatori con nobile slancio.
Varcata la spaccatura, i quattro esploratori si trovarono entro una caverna che pareva dovesse avere delle dimensioni notevoli, poichè il fumo vi circolava liberamente, senza addensarsi.
Una luce sanguigna si scorgeva all’estremità opposta di quell’antro. Pareva che dei rigagnoli di lava scorressero attraverso a delle rocce nere come la pece.
Di tratto in tratto delle scintille salivano scoppiettando e, spinte da qualche corrente d’aria, venivano portate fino in mezzo al laghetto, solcando le tenebre come minuscole stelle.
— Cosa brucia laggiù? — gridò padron Vincenzo.
— Dei massi di carbon fossile — rispose il dottore. — La miniera ha preso fuoco.
— Provocato dallo scoppio?
— Certamente, Vincenzo.
— Dunque quegli uomini avevano cercato un rifugio in questa caverna?
— Lo credo.
— Bisogna sbarcare e cercare i loro cadaveri.
— Vedo sulla nostra sinistra una spiaggia.
— Accostiamola, dottore.
Quantunque il fumo e le scintille invadessero la caverna turbinando, i quattro esploratori spinsero la scialuppa verso una spiaggia assai bassa, formata da massi neri che ai riflessi dell’incendio avevano dei luccichii d’argento. Dovevano essere dei blocchi di carbon fossile, almeno così la pensava il dottore.
Arenata la scialuppa, il signor Bandi e padron Vincenzo balzarono a terra portando con loro due lampade di sicurezza.
A pochi passi dalla riva s’alzava una parete gigantesca, nera, a riflessi argentei ed a righe biancastre disposte in zone orizzontali. Erano strati di carbon fossile divisi da quella specie di roccia che i minatori inglesi chiamano trapp, ma che non è altro che lava più o meno dura.
Osservata meglio quella parete, il dottore vide che al carbone erano mescolate anche delle masse metalliche che riconobbe subito per ferro.
— Ecco una miniera che può gareggiare con quelle più ricche dell’Inghilterra — disse. — Carbone e ferro! Cosa si potrebbe desiderare di più?
— È adunque una miniera mista — disse padron Vincenzo. — Io credevo che quelle di carbon fossile non dovessero contenere che combustibile.
— E lo si crede dai più, — rispose il dottore, — mentre invece i bacini carboniferi sono ricchi di metalli, specialmente quelli inglesi; si può dire anzi che si ricava maggior profitto dal ferro che dal carbone. Guardate attentamente intorno per vedere se trovate i disgraziati che hanno provocato lo scoppio.
— Vi è qui luce sufficiente per poter scorgere un accampamento, ma ho un bel guardare, non vedo nulla, dottore.
— Il carbone è franato ed in mezzo a quei massi vi può essere qualche cadavere.
— Cerchiamo, dottore.
Più innanzi lo scoppio del grisou aveva fatto crollare una parte delle vôlte, accumulando in vari luoghi degli enormi massi di carbone e di trapp. All’estremità della caverna poi erasi manifestata una grande squarciatura, e colà i carboni avevano preso fuoco su una estensione di una trentina di metri, formando un solco fiammeggiante, il quale bruciava lentamente, con un crepitìo incessante, gettando in aria nuvoloni di fumo nero, denso, impregnato d’un acuto odore di gaz, di zolfo e di bitume.
Il dottore e padron Vincenzo, perlustrati i cumuli di massi senza aver rinvenuto alcun cadavere, si diressero verso la spaccatura e s’arrestarono a pochi passi dall’incendio, cercando di esplorare la parte opposta cogli sguardi, non potendo varcare quella zona di fuoco.
— Scorgete nulla, Vincenzo? — chiese il dottore.
— No, signore — rispose il lupo di mare. — Non vedo che dei massi di carbone.
— Che quegli uomini siano riusciti a salvarsi?
— O che l’esplosione li abbia scaraventati in questo piccolo lago?
— Vorrei averne la certezza.
— Faremo il giro del bacino, dottore. Gli annegati tornano a galla dopo un certo tempo.
— Sonderemo il fondo.
— Ditemi, dottore, non si spegnerà più questo incendio?
— È capace di durare dei secoli.
— Fino alla totale distruzione della miniera?
— Sì, Vincenzo. In Francia ed in Inghilterra vi sono già altre miniere che ardono lentamente da tempi immemorabili.
— Anche oggidì? E perchè non le spengono?
— Lo hanno tentato e non vi sono riusciti.
— Basterebbe privarli dell’aria.
— Lo sanno anche i francesi e gl’inglesi, pure non sono stati capaci di soffocare quei fuochi.
— Sicchè anche fra cento o duecento anni questa miniera si troverà accesa?
— E anche di più, forse. Questo è un vero bacino carbonifero e chissà quale estensione può avere.
— Si potrebbero ricavare dei milioni da questi carboni.
— Ed in buon numero, Vincenzo. Sono di qualità eccellente, grossi e duri, apprezzatissimi per la fabbricazione del gaz e del coke.
— Quante ricchezze perdute — mormorò malinconicamente il bravo pescatore.
— Perdute no, Vincenzo. Chi impedirebbe di lavorare questo bacino, attaccandolo dall’alto? Verrà il giorno in cui qualcuno scoprirà questo ricco giacimento, poichè io credo che questi strati si spingano fino alla superficie del suolo.
— E sarebbe una vera fortuna pel nostro paese, che è così scarso di carboni.
— E chi vi dice che in Italia non vi siano miniere? Nei tempi antichi, la Liguria forniva carbon fossile ai Greci, ed in molte delle nostre regioni si sono trovati dei filoni, ma nessuno s’è mai preso la briga di lavorarli. Petroli e carbone non ne mancano nel nostro paese, e se gli italiani volessero, potrebbero in parte fare a meno della Russia, dell’America e dell’Inghilterra, invece da noi si preferisce tenere i capitali alla banca: ecco il nostro male.
— È vero, dottore. Ditemi, a quanto può ammontare la produzione delle miniere ora lavorate?
— In media si ricavano trecento milioni di tonnellate all’anno, e questa cifra aumenta sempre.
— E non verrà il giorno in cui queste miniere saranno esaurite?
— Verrà di certo, Vincenzo, però quel giorno sarà ancora molto lontano. Vi sono ancora delle immense regioni ricche di carboni e che non sono mai state manomesse dal piccone dei minatori: la Cina, per esempio, l’America del Sud e l’Africa meridionale e fors’anche la centrale.
«E poi chissà cosa avrà inventato il genio umano allora! Fra cento o duecent’anni non si avrà forse più bisogno dei carboni e potrà bastare il calore solare a muovere le macchine di tutto il mondo.
«Ritorniamo alla scialuppa, Vincenzo. Esploreremo il bacino e la sponda opposta.»
Stavano per abbandonare il crepaccio ardente, quando udirono Michele a gridare con accento terrorizzato:
— Padrone! Dottore! Accorrete!
— Per centomila merluzzi! — gridò padron Vincenzo. — Cosa succede?
— V’è un cadavere che galleggia in mezzo al bacino!
— Un cadavere! — esclamarono il signor Bandi ed il lupo di mare, slanciandosi verso la spiaggia.
— L’abbiamo scoperto or ora — disse Roberto.
— Ramponalo e tiralo alla riva — disse Vincenzo.
Quando giunsero presso il piccolo seno che serviva di rifugio alla scialuppa, Michele e Roberto avevano già estratto dalle acque l’annegato.
Tutti quattro si curvarono su quel disgraziato osservandolo attentamente.
Era il cadavere d’un giovanotto robusto, di circa venticinque anni, di statura alta e dalle membra muscolose. Aveva i capelli d’un biondo chiaro, in parte arsi, la pelle del viso era tutta strappata, le carni apparivano nere come se fossero state investite da una fiammata, i baffi erano quasi scomparsi.
Le sue vesti, di panno grosso color turchino, erano pure abbrucciacchiate e lacerate e la fascia rossa che gli cingeva le reni era stata spezzata, essendosi il ventre straordinariamente gonfiato.
— Chi sarà questo disgraziato? — chiese padron Vincenzo con voce commossa.
— Frugate nelle sue tasche — disse il dottore.
Michele obbedì con una certa ripugnanza e trovò un coltello da manovra, come quelli che vengono adoperati dai gabbieri, più una pipa ed una borsa di tabacco quasi vuota.
— Nessuna carta?
— Nessuna, dottore — rispose Michele.
— Che non si possa adunque sapere chi erano gli uomini che ci precedevano? — si chiese il dottore, con stizza.
— Da quanto tempo è morto quest’uomo? — chiese padron Vincenzo.
— Da due o tre ore, non di più.
— È adunque una vittima dell’esplosione.
— Non possiamo ingannarci. Vedete che questo povero corpo è coperto di ustioni.
— Che sia un italiano?
— Ho i miei dubbi, Vincenzo.
— Da cosa lo arguite?
— Dai suoi lineamenti ed anche dalla tinta dei suoi capelli. Mi sembra più uno slavo che un italiano.
— Allora non può essere stato che Simone a condurlo qui.
— Comincio a sospettarlo.
— Che si sia salvato quel furfante?
— Chi può dirlo?
— Bisogna cercare ancora, dottore.
— Perlustreremo il bacino.
— Avete misurato il fondo? — chiese Vincenzo, volgendosi verso i due pescatori.
— Sì — rispose Michele. — Non vi sono che cinque piedi d’acqua.
— Imbarchiamoci.
— E di questo cadavere che cosa ne faremo? — chiese Roberto.
— Non abbiamo picconi per scavare una fossa fra questi strati di carbon fossile — disse il dottore. — Lasciamolo dove si trova.
Salirono sulla scialuppa, accesero un’altra lampada di sicurezza che collocarono a poppa e presero il largo sondando di tratto in tratto le acque.
Quell’esplorazione non diede dapprima alcun risultato, però essendosi diretti verso la spaccatura che metteva nel canale, videro galleggiare qualche cosa a pochi passi da una roccia carbonifera.
— Un altro cadavere! — esclamò padron Vincenzo, prendendo un rampone.
Non si era ingannato. Quel secondo annegato era uomo sulla cinquantina e indossava pure delle vesti di grosso panno turchino. I suoi capelli, brizzolati erano semiarsi e il suo volto era ridotto in uno stato miserando.
Aveva perduto perfino un occhio e porzione del naso.
— Non è Simone — disse padron Vincenzo, lasciando ricadere il cadavere. — Che noi ci siamo ingannati?
— Quegli uomini erano tre — osservò Roberto. — Bisognerebbe trovare anche l’ultimo per essere certi di non aver avuto da fare collo slavo.
Ripresero le ricerche, facendo parecchie volte il giro della miniera, poi convinti che l’ultimo avesse potuto sfuggire alla catastrofe, ritornarono nel canale.
Avevano appena oltrepassata la spaccatura, quando si udì Michele a gridare:
— Ancora il fanale rosso!