I naufragatori dell'Oregon/4. Una eredità colossale
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CAPITOLO IV.
Una eredità colossale.
L’ex-ufficiale olandese che portava il grande cappello a fungo, udendo quella voce, si era subito voltato. Scorgendo l’armatore, una rapida contrazione scompose i suoi lineamenti, ma rimettendosi subito, disse, colla più squisita cortesia:
– Buon giorno, signor Wan-Baer.
La giovanetta e il ragazzo si erano pure voltati, esclamando ad una voce:
– Voi, cugino?...
– Io, miei bravi ragazzi, – rispose l’armatore col più amabile sorriso. – Come state, Amely?... E tu, Dik?... E voi, signor Held?
– Tutti benissimo, signor Wan-Baer – rispose asciuttamente l’ex-ufficiale.
– Avete sofferto mare grosso nella traversata?
– No, cugino – rispose Amely. – Da Macao a queste isole, l’oceano fu sempre tranquillo.
– Voi avete la fortuna sempre in favore e vi auguro che continui.
– Ci aspettavate, cugino?
– Lo vedete, Amely.
– Grazie della vostra premura.
– Volevate che dimenticassi i miei parenti?... Sapete, Amely, che sono quattro anni che non ci vediamo?...
– È vero.
– E che ardevo dal desiderio di stringervi le mani?
– Grazie, cugino.
– E d’offrirvi ospitalità in casa mia.
– Grazie della vostra offerta, signor Wan-Baer – disse il signor Held. – Disgraziatamente non possiamo accettare.
– E perchè, signor Held?
– I miei protetti hanno molto da fare. Voi sapete quante noie richiedono le eredità.
– Si possono sopportare, signor Held, quando si tratta di raccogliere una cinquantina di milioni. Ragazzi miei, che bella fortuna vi è toccata!
– È vero, cugino, ma non ci dimenticheremo di voi – disse Amely. – Eravate pur anche voi nipote del defunto.
– È vero, ma vostro zio non ignorava che io ero già ricco, ed ha fatto bene a pensare a voi.
– Ma cinquanta milioni...
– Il denaro non è mai troppo, cugina. Orsù, accettate l’ospitalità in casa mia.
– Vi ho già detto che è impossibile, signor Wan-Baer – disse Held. – Dobbiamo recarci al consolato olandese per tutte le formalità necessarie ed avremo appena il tempo per ricevere tutti i documenti. Voi sapete che l’Oregon non si arresta che ventiquattro ore.
– È vero, spero però di venirvi a salutare prima della partenza.
– Anzi contiamo su di voi, cugino – dissero Amely e Dik.
L’armatore strinse la mano ai due cugini ed al signor Held, poi s’allontanò a lenti passi, dirigendosi verso il ponte che doveva condurlo a Bidondo. Il suo volto, ordinariamente così placido era diventato burrascoso e cupi lampi balenavano in quegli occhi, rispecchiando l’irritazione dell’anima.
– Ah!... – esclamò egli, quando fu a metà del ponte. – Quel signor Held teme, per istinto, qualche cosa da me, ma io sarò più furbo di lui. Per bacco!... Come ha preso a cuore la sua parte di protettore!... Ma, mio caro, non conosci ancora Wan-Baer!... Il mio uomo mi farà guadagnare quei cinquanta milioni e ben presto.
Frenò un gesto di minaccia e attraversato rapidamente il ponte, scese lungo il molo aprendosi con grande fatica il passo fra la folla dei barcaiuoli e dei facchini, che caricava e scaricava le merci allora sbarcate dalle scialuppe dell’Oregon.
Non si arrestò che dinanzi alla sua casa, un vasto fabbricato, colle pareti dipinte a vivaci colori, coi tetti arcuati come le costruzioni chinesi, circondato da vasti magazzini.
Un uomo, seduto su di una botte rovesciata, con la pipa fra le labbra, lo attendeva sulla porta dell’abitazione. Era O’Paddy.
– Già di ritorno, signor Wan-Baer? – chiese l’irlandese. – Fulmini di Giove!... Ed i fanciulli?... Che si siano accorti che qui non soffiava vento per loro?
– Cosa fate qui, O’Paddy?
– Come vedete, vi aspettavo.
– Ma l’equipaggio?
– Trovato.
– Così presto?...
– Coi denari tutto si ottiene.
– Sono uomini risoluti?
– Furfanti della più bell’acqua.
– Europei?
– Non m’impiccio con costoro: preferisco gli uomini di colore.
– Quanti ne avete arruolati?
– Sei ed il mio malese fanno sette.
– Sono tagali?
– No, signore, sono tutti dell’isola di Mindanao.
– Pirati, allora.
– O poco meno.
Il signor Wan-Baer estrasse un magnifico cronometro d’oro, poi disse:
– Sono le sei: fra un’ora potrete partire.
– Sono ai vostri ordini.
– Andate a prendere i vostri arruolati.
– Ma la nave?
– È già sotto pressione.
– È a vapore?
– Sì.
– Meglio, signore: l’Oregon non mi sfugge più.
– Fra i vostri arruolati vi è qualcuno che s’intende di macchine?
– Due sono già stati fuochisti.
– Basteranno?
– Ci sono anch’io, signor Wan-Baer.
– Andate.
Poi, mentre l’irlandese s’allontanava, si volse verso uno dei suoi commessi che sorvegliava l’imbarco d’alcune merci su di una scialuppa e gli disse:
– Recatevi al cantiere, signor Bilbao, e dite ai miei marinai di condurre qui il Wangenep.
Un quarto d’ora dopo una nave a vapore di trecento o quattrocento tonnellate scendeva il Passig e s’arrestava dinanzi ai magazzini dell’armatore.
L’equipaggio che l’aveva condotta ed ormeggiata al molo, stava per discendere a terra, quando da una stradicciuola si vide uscire l’irlandese seguìto da sette uomini di colore.
Il primo era un malese, riconoscibile alla sua tinta olivastra, di statura bassa ma membruto, colle gambe corte, il viso piatto e contemporaneamente ossuto, gli occhi piccoli, il naso schiacciato, la bocca assai larga ed il cranio rasato e unto di recente con olio di cocco. Una larga cicatrice gli solcava il viso e un’altra gli attraversava il nudo petto.
Tutto il suo costume consisteva in un sottanino di percallo rosso ed in una fascia fra le cui pieghe uscivano due kriss, specie di pugnali lunghi trenta centimetri, colla lama serpeggiante e colla punta forse avvelenata col mortale succo dell’upas.
Gli altri sei invece erano di statura alta, ma poco sviluppata nei contorni. Avevano la carnigione rossastra, le ossa delle gote assai sporgenti, il viso romboidale, il naso prominente, gli occhi alquanto obliqui.
Anche loro non indossavano che un semplice sottanino, ma invece dei kriss portavano, fra le pieghe della cintura, dei parangs, specie di sciabole la cui punta termina a doccia e così larghe e pesanti, che basta un sol colpo per decapitare un uomo.
Erano tutti mindanesi, isolani che abitano una vasta terra situata al sud delle Filippine, individui pericolosi, poichè, malgrado l’assidua sorveglianza degli incrociatori spagnuoli, esercitano la pirateria anche oggidì.
O’Paddy attese che l’equipaggio dello steamer s’allontanasse e che i magazzini, essendo già sera, fossero chiusi, poi condusse il suo drappello sul molo.
Wan-Baer lo attendeva, passeggiando nervosamente sulla sponda.
– Siamo pronti, signore – disse l’irlandese. – Il mio equipaggio attende i vostri ordini.
– La macchina è sotto pressione – rispose l’armatore.
– Le vostre ultime istruzioni?
– Investire l’Oregon a tutto vapore, onde vada a picco tanto rapidamente da impedire ai viaggiatori di occuparsi del loro bagaglio.
– Di notte?
– Sì, signor O’Paddy. Spaventati dall’urto, dalle grida dell’equipaggio e dall’irrompere delle acque, i miei cugini penseranno a salvare la loro vita senza occuparsi dei documenti, che affonderanno colla nave.
– Ma correranno anche il pericolo di annegarsi, signor Wan-Baer.
– Bah! L’Oregon non affonderà di colpo e potranno salvarsi sulle scialuppe.
– E poi?
– Poi vi presenterete come un protettore, assumerete il comando della scialuppa da loro montata e li condurrete al Borneo. Poi penserete voi a farli cadere nelle mani di qualche tribù o di qualche sultano od a smarrirli in mezzo alle grandi foreste del Borneo. A me basta che stiano lontani qualche anno: poco m’importa se ritornassero a Kupang.
– E perchè?... Potrebbero poi reclamare la loro eredità.
– Posseggo anch’io un testamento del defunto zio, mio caro O’Paddy, ed in mio favore. Lo aveva fatto dieci anni or sono e l’anno scorso riuscii a carpirglielo, non ignorando che mi aveva diseredato per certe questioni sorte fra me e lui. Scomparsi i documenti e le persone, vado a Timor, mi presento come legittimo erede, vendo le immense proprietà del defunto e me ne vado... chissà, in America, in Australia, molto lontano insomma. Quando i cugini ritorneranno, se lo potranno, non rimarrà a loro un palmo di terra, nè una capanna a Timor.
– Ma... signor Wan-Baer, non mi avete consegnato che centomila lire e non vorrei che nella fretta di fuggire vi dimenticaste di darmi le altre novecentomila.
– Non abbiate questo timore, signor O’Paddy – disse l’olandese sorridendo. – Io sono un uomo onesto e per darvene una prova, ecco questo libretto col vostro nome e cognome: le vostre novecentomila lire sono state depositate alla Banca di Spagna.
– Siete un vero galantuomo, signor Wan-Baer – rispose l’irlandese, intascando sollecitamente il libretto. – Una parola ancora.
– Dite pure.
– Mi autorizzate a ricorrere alla violenza, se i vostri cugini non mi obbedissero?
– Vi concedo carta bianca, purchè non me li uccidiate. Non voglio lordarmi le mani col sangue dei miei parenti.
– E quel signor Held?...
– Di quello non mi occupo: pensateci voi.
– Se cerca di mandare a male i miei progetti, lo farò sopprimere.
L’olandese provò un brivido, ma non disse verbo.
– Ho fatto il mio piano – continuò O’Paddy. – Se riesco a condurre la loro scialuppa a Borneo, li farò cadere nelle mani del Sultano di Semmeridam, il quale sarà ben contento di avere un paio di schiavi bianchi. Il mio malese ha delle conoscenze fra i Bughiesi del Koti e se il diavolo non ci mette la coda, spero di condurre ogni cosa a buon fine.
– Basta... partite e buona fortuna.
O’Paddy strinse la mano che il complice gli porgeva, poi salì sul Wangenep mettendosi alla ribolla del timone.
– Aier-Raja – disse, rivolgendosi al malese. – Abbiamo la pressione necessaria?
– Sì, padrone.
– Fa’ ritirare le gomene.
– Dove andremo ad aspettare l’Oregon?
– Sulle coste del Borneo, presso le isole Sulù.
– Passerà di là?
– Sì, e potremo vederlo per tempo.
L’equipaggio mindanese, al comando dato, ritirò le gomene che erano state legate attorno a dei vecchi cannoni mezzi sepolti sulla gettata, e le ruote cominciarono a mordere le acque con cupo fragore, sollevando nembi di spuma.
– Addio, signor Wan-Baer – disse un’ultima volta l’irlandese. – Custodite per bene il mio capitale.
L’armatore, che era rimasto sul molo, colle braccia strettamente incrociate ed il capo chino sul petto, come se fosse immerso in tetri pensieri, fece un legger saluto colla mano.
Il battello lanciò un fischio acuto e si mise a scendere il Passig, con una velocità notevole, passando davanti alle navi ancorate a Bidondo.
Le tenebre erano calate sul fiume, ma il quartiere popolare scintillava di migliaia di lumi, i quali si rispecchiavano nelle cupe acque con leggieri tremolìi. Anche le giunche chinesi, quei barocchi bastimenti, pesanti, tozzi, avevano acceso sulle cime degli alberi le monumentali lanterne di carta oliata e variopinta.
Il battello, lasciata la foce del fiume e oltrepassato il faro, la cui luce di quando in quando mandava dei lampi per non confonderla, ad una certa distanza, con una stella, si lanciò a tutto vapore attraverso la baia ed uscì in mare scomparendo fra le tenebre.
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Quattro giorni dopo, come O’Paddy aveva promesso, il Wangenep speronava l’Oregon all’entrata del mare delle Celebes.