I naufragatori dell'Oregon/3. L'Oregon

3. L'Oregon

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2. I naufragatori 4. Una eredità colossale

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CAPITOLO III.

L’“Oregon”.


Manilla, la capitale delle isole Filippine, è senza dubbio una delle più opulente e delle più popolose città delle colonie spagnuole dell’Estremo Oriente.

Situata sulle coste occidentali della grande isola di Luzon, di fronte contemporaneamente alla China, al Tonchino ed all’An-Nam, quasi alla foce del fiume Passig, le cui acque sboccano in mare fra due lunghi moli paralleli, si divide in due città perfettamente [p. 22 modifica] distinte: quella spagnuola e quella indigena. La prima, che è fabbricata sulla sponda sinistra, comprende la cittadella, le caserme, i palazzi governativi, le grandi abitazioni dei ricchi, i collegi, le chiese, i monasteri e le fortificazioni.

Coi suoi grandiosi edifizi che hanno un’architettura cupa ed austera, veramente spagnuola, coi suoi immensi fabbricati anneriti dal tempo, colle sue strade erbose, colle sue mura e coi suoi bastioni circondati da profondi fossati, col forte di San Giovanni che ha un non so che di tetro minaccioso, ha l’aspetto malinconico e poco attraente, malgrado le lussureggianti campagne che la circondano.

Le sue case basse, ad un solo piano, per meglio resistere ai tremendi terremoti che di quando in quando scuotono quell’isola, sembrano sempre deserte, poichè sono chiuse per la maggior parte della giornata.

Non è che verso sera che la città dà segno di vita, quando i ricchi spagnuoli, comodamente sdraiati in bellissime vetture a due e perfino a quattro cavalli, escono dalle loro dimore per recarsi a respirare un po’ di brezza marina.

La seconda città, che porta il nome di Bidondo, è più gaia, più allegra, più rumorosa, e quantunque sia lontana dalla prima poche centinaia di passi, ha altra popolazione, altri costumi, altre usanze e manca assolutamente, nella fisionomia, di quella grave austerità propria delle antiche città spagnuole.

È là che abitano i tagali, i veri indigeni delle Filippine, i chinesi, i benestanti che non si possono adattare a rinchiudersi fra i bastioni dell’altra città, i grossi e i piccoli mercanti, gl’industriali e gli artieri d’ogni specie.

Colà poche chiese, pochissimi grandiosi fabbricati; la sola fabbrica di famosi sigari, nella quale lavorano migliaia di operai, torreggia. Invece una moltitudine di magazzini, di case basse coi tetti arcati coperti di tegole di porcellana screziate di giallo o d’azzurro di proprietà dei chinesi, di capanne e di tuguri, abitati dai tagali, d’alberghi, di trattorie e una fiumana incessante di persone, d’europei, d’americani e di asiatici d’ogni paese, di tipi e di colori diversi, di costumi svariati.

Si può ben dire che dei centosessantamila abitanti che popolano Manilla, i due terzi si affollano a Bidondo.

Nel 1872, cioè nell’epoca in cui comincia la nostra istoria, la capi[p. 23 modifica]tale dell’arcipelago, domate tutte le insurrezioni, sottomesse tutte o quasi le belligere tribù dell’interno, era al colmo della prosperità e la si considerava – come anche oggi – la più opulenta e la più industriosa città dell’Oceania occidentale.

Il signor Wan-Baer e l’irlandese, attraversato il ponte di pietra, erano discesi lungo il molo che costeggia il Passig. Sempre a braccetto e sempre chiacchierando, erano giunti quasi all’estremità, presso il piccolo fortino, quando s’arrestarono entrambi, esclamando:

– Eccolo!...

Una bella nave a vapore di circa mille tonnellate, attrezzata a brigantino, dipinta di nero, con un’alta fascia rossa sopra i bordi, stava imboccando la foce del Passig, inoltrandosi a piccolo vapore.

La barca del pilota l’aveva già raggiunta, ma il capitano aveva fatto cenno che non era necessario e dall’alto della passerella comandava la manovra, mentre una parte dell’equipaggio stava preparando le àncore di posta e le imbarcazioni.

L’armatore si era spinto bruscamente fino sull’orlo del molo e di là aguzzava i suoi sguardi, come se cercasse di discernere, fra la folla dei passeggeri che si stipava alle murate, le persone che attendeva.

– Le scorgete? – chiese O’Paddy, dopo qualche istante.

– L’Oregon è zeppo di viaggiatori – rispose Wan-Baer, facendo un gesto di stizza.

– Temete che quelle persone non discendano?

– Spero che verranno a trovarmi.

– Sono vostre conoscenze?

– Qualche cosa di più.

– Vostri parenti, forse?

– Sì, O’Paddy.

– Diavolo!... Che bell’idea, signor Wan-Baer.

– Cosa volete dire?

– Ospitate quei vostri parenti in vostra casa e... con un colpo di mano si potrebbe bene alleggerirli dei famosi documenti.

– Un furto in casa mia?... Eh via!... Sono l’onesto Wan-Baer e poi non so se accetterebbero.

– Non c’è buon sangue fra voi?

– Non dico questo, ma dovendo io essere l’erede...

– Ah!... Si tratta d’una eredità che spettava a voi?...

– Cosa ne sapete voi?... [p. 24 modifica]

– Fulmini di Giove!...

– Lasciate andare i vostri fulmini e seguitemi. Comincia lo sbarco dei passeggieri.

L’Oregon si era di già ormeggiato dinanzi al molo ed i passeggieri si affollavano sul pontile. Vi erano europei che ritornavano dalla China, per lo più olandesi, inglesi e spagnuoli e numerosi figli del Celeste impero indossanti i loro bizzarri costumi a colori smaglianti e adorni d’arabeschi curiosissimi, di lune sorridenti e di draghi rampanti e colle teste coperte da grandi cappelli conici di feltro o di fibre di rotang. Si urtavano, si spingevano, vociando, strillando, mentre l’equipaggio s’affannava a far calare nelle scialuppe enormi sacchi da viaggio.

Tutto intorno al vascello si erano già radunate numerose imbarcazioni montate da tagali, i quali urlavano a pieni polmoni, disputandosi i passeggieri che dovevano attraversare il fiume per discendere a Bidondo.

Strani individui, quei tagali, che sono i veri indigeni delle Filippine, coi loro volti angolosi e giallastri, i loro occhi piccoli ma vivaci, colle loro camicie variopinte, ma che lasciano cadere fuori dai calzoni. Brave persone del resto, operose, disinvolte, industriose, robuste e coraggiose, ma un po’ vanitose e dissipatrici.

V’erano fra di loro anche delle donne che guidavano dei battelli con rara maestria, vivaci, amabili e graziose, colle loro sottanine a righe, di colori smaglianti, le loro camiciuole diafane e ricamate e le loro scarpine di velluto, di fabbrica chinese, adorne di fregi d’oro e d’argento.

Wan-Baer osservava con profonda attenzione e con viva impazienza i passeggieri che continuavano a discendere, affollandosi sul molo per attendere i loro sacchi da viaggio. Ad un tratto fece un gesto di collera ed emise una sorda esclamazione.

– Lui!...

– Cosa avete, signor Wan-Baer? – chiese O’Paddy.

– Guardate!... Scendono ora!...

L’irlandese alzò il capo. Tre persone, le ultime, stavano lasciando la tolda della nave: un uomo, una ragazza e un giovanetto.

Il primo era un individuo di circa quarant’anni, di statura piuttosto alta, colle spalle larghe, il petto ampio, indossante un vestito di tela bianca e col capo difeso da un grande cappello di paglia in forma [p. 25 modifica] [p. 27 modifica] di fungo. Aveva il viso abbronzato, gli occhi neri e vivaci, le labbra sottili, energiche, ed una barba nera, ricciuta, tagliata a due punte.

Aveva l’aspetto di un ex-militare, ma anche quello di un piantatore.

La giovinetta non dimostrava più di diciassette o diciott’anni. Era alta, slanciata, un po’ pallida, con due occhioni neri, con capelli pure neri, coi lineamenti regolari, con due labbra rosse come ciliege mature, le quali lasciavano vedere due file di denti ammirabili che scintillavano come perle. Aveva in tutto l’insieme un non so che di risoluto e d’energico che imponeva, quantunque fosse così giovane.

Indossava un semplice costume di percallina azzurra guernita di pizzo bianco e sul capo portava un cappellino di paglia adorno d’un sol fiore, d’una piccola peonia di China color vivo fuoco.

Il ragazzo era molto più giovane, forse di quattro anni, ma era già alto, bruno come l’uomo, con due occhi vivaci, vellutati, il profilo ardito e le membra già molto sviluppate.

Vestiva come un marinaio e portava a tracolla un piccolo fucile a due canne, con una cert’aria da far credere che quel piccolo uomo, in una occasione, non avrebbe esitato a servirsi di quell’arma.

– Sono le persone attese, signor Wan-Baer? – chiese l’irlandese.

– Sì, ma ve n’è una di più – rispose l’armatore, con mal celata stizza. – Ecco un uomo che vi darà molto da fare.

– Chi?...

– Quello che accompagna i due ragazzi.

– Chi è?...

– Un tempo era un ufficiale dell’esercito olandese, poi di quello chinese, più tardi divenne un piantatore e ora me lo trovo fra i piedi... State in guardia, O’Paddy. Quell’uomo è uno di quelli che non hanno paura e che sfidano, sorridendo, la morte.

– Fate bene a dirmelo. Dovrò far sparire anche quello?

– Se lo potrete... ma mi premono di più gli altri due.

– Il ragazzo e la ragazza?

– Sì, il fratello e la sorella.

– Ha!... Sono fratelli!

– Sì – rispose War-Baer, che si era messo a seguire quelle tre persone, le quali si dirigevano verso la città.

– Ma quell’uomo è un parente di quella ragazza e di quel giovanetto? [p. 28 modifica]

– No.

– E perchè si trova in loro compagnia?

– Per proteggerli durante il viaggio, ne sono certo... Era un amico del loro padre, ed essendo ricco ed amante dei viaggi, si sarà offerto di accompagnarli a Timor.

– Sono ricchi quei fratelli?...

– Il padre loro, che era un ufficiale olandese, non ha lasciato che una pensione, un migliaio di risdalleri all’anno o meno, ma ora...

– Continuate, signor Wan-Baer. Questi particolari m’interessano.

– Ora vanno a prendere possesso di una eredità di molti milioni.

– Lasciata a loro da chi?

– Da un loro zio morto a Kupang tre mesi or sono – disse l’armatore coi denti stretti.

– Diamine!... Si tratta di un’eredità di milioni!... Ditemi, signor Wan-Baer: spettavano a voi quei milioni?...

– Cosa importa a voi il saperlo? – rispose l’armatore, ruvidamente. – Incaricatevi di guadagnare il vostro milione.

– Fulmini di Giove!... Conto d’averlo già in tasca!...

– Separiamoci: andate ad arruolare i vostri furfanti. Questa sera vi metterete alla vela.

– Arrivederci, signor Wan-Baer.

L’irlandese si allontanò, e balzato in un battello guidato da un tagalo, si diresse verso Bidondo. L’armatore, rimasto solo, affrettò il passo, raggiunse i due fratelli e l’uomo che li accompagnava e battendo famigliarmente sulle spalle di quest’ultimo, disse con un sorriso mellifluo:

– Si dimenticano adunque i parenti?...