I naufragatori dell'Oregon/22. Il mangiatore d'uomini

22. Il mangiatore d'uomini

../21. Il supplizio di Aier-Raja ../23. I dayaki-laut di Kara-Olo IncludiIntestazione 2 agosto 2021 100% Da definire

21. Il supplizio di Aier-Raja 23. I dayaki-laut di Kara-Olo


[p. 187 modifica]

CAPITOLO XXII.

Il mangiatore d’uomini


Due ore dopo l’olandese, il siciliano e Sulinari lasciavano il kampong per cacciare la tigre, che i superstiziosi Dayachi dicevano essere invincibile perchè protetta da Antu e da Buan, i due cattivi geni delle foreste.

I due uomini bianchi erano armati di carabina e di scure ed il dayaco d’un pesante parang-ilang e d’una cerbottana, una specie di canna di legno duro, trapanata con grande precisione con un ferro del diametro di un centimetro, lunga un metro e quaranta centimetri, rivestita di fibre di rotang e munita all’estremità d’un ferro di lancia.

Queste armi, chiamate sumpitan, sono formidabili poichè soffiandovi dentro, i Dayachi mandano, a quaranta ed anche a cinquanta metri di distanza, una freccia lunga quindici o venti centimetri, colla punta avvelenata nel succo dell’upas e con una infallibilità meravigliosa. Oltre le armi, Sulinari si tirava dietro, con una corda, un piccolo babirussa, che doveva servire d’esca alla feroce abitatrice delle selve.

Il sole era già tramontato, ma dietro ai grandi alberi cominciava a far capolino la luna, la quale s’alzava rosseggiante come un disco di metallo infuocato.

Gli uccelli tacevano, ma si udiva ancora qualche grido isolato emesso da qualche semiaang (hylobatas synalactylus), quadrumane notturno, che per lo più vive in truppe numerose, le quali al tramonto si radunano per devastare le terre coltivate.

I tre cacciatori costeggiarono per qualche tempo la riva destra della palude, poi, giunti presso l’estremità del bacino, Sulinari s’arrestò, tendendo gli orecchi con grande cura. [p. 188 modifica]

– Nulla – disse poi – è ancora troppo presto e avremo il tempo necessario per scegliere un bel posto.

– Dove andiamo? – chiese Held.

– In quella foresta.

– È là che la tigre si nasconde?

– Sì, l’ho veduta parecchie volte.

– Andiamo.

– Non ci balzerà addosso improvvisamente, signor Held? – chiese il siciliano, che si sentiva un po’ sconcertato.

– L’odore di selvatico che tramanda ci avviserà del suo avvicinarsi.

– Avete cacciato ancora le tigri?

– Sì, a Giava ed anche a Sumatra.

– Ed io mai e vi confesso che il cuore mi batte forte.

– Vi credo: simili animali producono un certo effetto e la prima volta che ho dovuto affrontarli, anche il mio cuore non era tranquillo, ve lo accerto.

– Si dice che sono così feroci.

– È vero, ma vi dirò che non sempre assalgono l’uomo bianco.

– Forse che ci credono, come questi Dayachi ed in generale tutti i popoli selvaggi, di razza superiore?

– No, ma perchè sanno per prova che gli uomini bianchi hanno armi più potenti. Anche in India e nella Cocincina non assalgono quasi mai gli europei, mentre fanno stragi d’indigeni.

– Sono furbe le signore tigri.

– Lo sono diventate dopo la caccia spietata degli uomini bianchi.

– Silenzio – disse in quel momento Sulinari.

– Hai udito qualche rumore?

– No, ma la tigre può essere vicina.

Erano allora entrati in una fitta foresta, interrotta qua e là da macchioni di bambù che crescevano su terreni umidissimi. Era lì che la tigre doveva trovarsi, poichè questi feroci carnivori preferiscono le terre umide e le grandi macchie, ove possono celarsi e strisciare a loro piacimento e lanciarsi di colpo sulle prede che passano presso i loro covi.

– Alto – disse Held. – Mi pare che il luogo sia propizio all’imboscata. [p. 189 modifica]

– Dove ci metteremo? – chiese il soldato.

– Su quel tamarindo – disse l’olandese, additando un grosso albero che sorgeva quasi isolato, di fronte ad un macchione di bambù.

– Con un balzo non potrà giungere fino ai rami?

– È possibile, avendo quelle fiere uno slancio straordinario, ma non le lasceremo il tempo. Sulinari, lega il babirussa a quel cespuglio.

Il dayako obbedì, legando il povero animale ad una pianta che si trovava a trenta passi dal tamarindo.

– Ora arrampichiamoci – disse l’olandese.

– Ma il babirussa non grugnirà e non attirerà la belva – osservò il siciliano.

– Le tigri fiutano la preda a grandi distanze e la nostra non tarderà a venire. Presto, saliamo.

S’aggrapparono ai rami bassi ed aiutandosi l’un l’altro, in pochi istanti si trovarono nascosti in mezzo al folto fogliame del tamarindo. I due europei armarono le carabine ed il dayaco introdusse una freccia avvelenata nella cerbottana.

Il babirussa, come se avesse compreso a quale sorte era destinato, non osava muoversi. Solo di quando in quando emetteva un sordo grugnito.

La foresta era diventata silenziosa: non s’udivano nè grida d’uccelli, nè grida d’animali. Solamente le alte cime dei bambù, scosse da un soffio d’aria tiepida, susurravano leggiermente.

Passò un’ora senza che nulla avvenisse. La luna rischiarava come in pieno giorno il macchione, lasciando invece all’oscuro la foresta sul cui margine s’alzava il tamarindo.

Ad un tratto un grande volatile, un pipistrello gigante od un gatto volante, s’alzò fra i bambù emettendo un grido di spavento, attraversò lo spazio pesantemente e andò a nascondersi fra le foglie d’un arecche.

– Avete veduto, signor Held? – chiese il soldato, con certa apprensione.

– Sì – rispose l’olandese.

– Qualcuno deve aver spaventato quell’uccello o quel kubung.

– Così la penso anch’io.

– Che sia stata la tigre?

– Può essere stato un babirussa, od un serpente o qualche mias. [p. 190 modifica]

Proprio in quell’istante si udì a echeggiare, quasi all’opposta estremità del macchione, una nota breve, stridente, gutturale, una di quelle urla che non si dimenticano più quando si sono udite una sola volta.

– Tuoni!... – mormorò il soldato che provò un brivido.

– La tigre – disse l’olandese.

– È vero – confermò il dayaco, battendo i denti.

– Che sia sola o accompagnata? – chiese il siciliano.

– È stata veduta sempre sola – disse Sulinari.

– Deve essere una di quelle tigri che i bengalesi chiamano admi wala kanah – disse Held.

– Ossia?... – chiese Lando.

– Tigri solitarie.

– Sono più o meno pericolose?

– Le più formidabili, poichè sono prudentissime, conoscono i luoghi e le persone, assalgono le donne e i fanciulli di preferenza e sfuggono i cacciatori.

– Quelle che abitano quest’isola sono eguali a quelle indiane?

– Hanno le gambe più corte, sono più tozze e meno eleganti, hanno le basette meno sviluppate ed il pelo del ventre e delle cosce meno abbondante, ma invece più fitto e più lungo sul dorso. Hanno il muso più feroce, l’espressione degli occhi falsa, la lingua quasi sempre pendente e la coda sempre bassa. Forse sono più sanguinarie e più audaci di quelle che s’incontrano nelle Sunderbunds del Gange.

– Fortunatamente siamo alti, signor Held.

– Ma non tanto da essere al coperto da un salto. Io poi...

Un’altra nota più rauca, più stridente dell’altra, si fece udire, ma più lontana.

– La tigre se ne va – disse il soldato. – Che ci abbia fiutati?

– Ritornerà, ne sono certo – disse Held. – Prima batterà il bosco in cerca di selvaggina e se non ne trova, vedrete che cercherà d’avvicinarsi al nostro babirussa.

– E se non venisse?

– Andremo a scovarla noi. Ormai sappiamo che ha il covo in questo macchione.

– Tuoni!... È un’impresa che fa venire la pelle d’oca, signor Held. [p. 191 modifica]

– Ma che ci frutterà una scorta ed i mezzi per raggiungere il mare. Zitto e apriamo per bene gli occhi.

Dopo quelle due urla, più nulla si era udito. Senza dubbio la tigre si era allontanata per cercare di sorprendere qualche babirussa o qualche banda di scimmie, o si era diretta verso la palude per attendere gli animali che si recavano ad abbeverarsi.

Passarono parecchie ore di continua ansietà pei due europei e pel dayaco. Già l’alba non doveva essere lontana e già cominciavano a perdere la speranza di veder ritornare il feroce carnivoro, quando in mezzo alla macchia udirono un leggero strofinìo e videro alcune cime di bambù a muoversi. Non soffiando più il venticello di prima, il dayaco ed i due europei sospettarono la presenza della fiera o di qualche altro animale.

– Attenzione – disse Held.

– Bisogna mettere un freno ai muscoli – mormorò il siciliano. – Tremo come se avessi la febbre.

I bambù continuavano ad agitarsi, ma lentamente, come se l’animale procedesse con infinite precauzioni per non attirare l’attenzione della futura vittima. In quell’istante il piccolo babirussa si mise a russare fortemente; certo aveva sentito l’avvicinarsi del formidabile nemico.

I due europei avevano alzate le carabine e Sulinari aveva accostata la cerbottana alla bocca, pronto a lanciare la freccia mortale, quantunque non avesse alcuna fiducia nel suo dardo, credendolo inefficace contro quella belva che egli credeva protetta dai geni della foresta. Nessuno fiatava: concentravano i loro sguardi sui bambù con viva ansietà. L’olandese, non nuovo a quelle pericolosissime cacce, conservava una calma ammirabile; il siciliano sentivasi il cuore battere precipitosamente e provava un vago malessere; il dayaco tremava, malgrado il suo provato coraggio.

– Eccola!... – esclamò ad un tratto Held.

La tigre era comparsa sull’orlo della grande macchia, mostrando dapprima la sola testa, poi l’intero corpo e finalmente la coda. La luna la illuminava perfettamente ed i cacciatori poterono scorgerla senza fatica. Era una grande tigre, poichè doveva misurare per lo meno due metri e mezzo dalla punta del naso all’estremità della coda. I suoi occhi, contratti in forma d’un i, mandavano dei cupi lampi [p. 192 modifica] e si fissavano con inquietudine sotto l’ombra proiettata dai grandi alberi della foresta.

Stette alcuni istanti immobile, come fosse poco rassicurata da quel silenzio o sorpresa di non udire più il grugnito della preda, poi si mise ad avanzarsi con quella grazia noncurante che hanno le donne civettuole.

Si raddrizzava, volgeva la testa ad ogni passo che faceva, agitava la coda, balzava, si leccava e si stirava come un gatto domestico annoiato.

D’improvviso s’arrestò, poi s’abbassò bruscamente: il babirussa aveva mandato un grugnito di spavento.

– Tenetevi pronti – mormorò l’olandese.

La tigre si era messa a strisciare silenziosamente, tenendosi nascosta dietro ai cespugli. S’avanzava in direzione del cespuglio ove trovavasi legato il povero babirussa. Era giunta a venti passi dalla vittima, quando tornò ad arrestarsi e s’alzò di colpo girando degli sguardi inquieti. Si era accorta della presenza dei cacciatori? Era probabile, poichè alzò la testa verso il tamarindo, emettendo un sordo brontolìo.

– Fuoco!... – gridò Held.

Due spari rintronarono formando quasi una sola detonazione. La tigre fece un balzo immenso, lanciando la sua formidabile nota rauca, poi fece un brusco voltafaccia e scomparve nel suo macchione, prima ancora che la freccia mortale di Sulinari potesse toccarla.

– Tuoni!... – urlò il soldato. – L’abbiamo sbagliata!...

– No – disse Held. – L’abbiamo toccata, ma forse non mortalmente.

– Sì – confermò Sulinari. – La tigre è ferita: udite!...

La fiera, rintanatasi nella macchia, in mezzo alla quale doveva avere il suo covo, emetteva delle rauche urla.

– Morrà?... – chiese il soldato.

– Se non morrà andremo a finirla – disse l’olandese. – Ecco l’alba che spunta: possiamo scendere e andarla a scovare.

– Ci balzerà addosso, signor Held.

– Ma noi saremo più pronti a far fuoco. Forse l’abbiamo ferita gravemente e non potrà spiccare salti tanto lunghi. Ci accompagni, Sulinari? [p. 193 modifica] [p. 195 modifica]

– Io seguo gli uomini d’oltremare, quantunque le mie armi siano inefficaci. Avete veduto l’esito della mia ladgia (freccia).

– È una convinzione falsa la tua, Sulinari.

– No, è protetta da Antu e da Buan quella tigre.

– Non importa: la uccideremo noi.

Ricaricarono le armi con grande attenzione per essere certi dei loro colpi, poi si lasciarono scivolare a terra, decisi a farla finita con quel pericoloso avversario.

L’alba spuntava. Gli astri impallidivano rapidamente e una luce già rosea invadeva rapidamente l’orizzonte orientale. I pennuti abitanti della foresta, le grandi cacatoe nere, i tucani dal becco gigantesco, i pappagalli ed i fagiani cominciavano a cicalare sulle più alte cime degli alberi, salutando l’astro diurno, mentre le scimmie riprendevano i loro volteggi sulle liane dei calamus.

I tre cacciatori attraversarono in silenzio lo spazio libero, e s’arrestarono sul margine della macchia.

La tigre non brontolava più, ma non doveva avere abbandonato il suo covo, poichè di quando in quando si vedevano le alte cime di un gruppo di bambù tulda ad agitarsi.

– Ecco le tracce di sangue – disse Held, mostrando alcune canne macchiate di rosso. – Ero certo di averla ferita.

– Allora può essere moribonda – disse il siciliano.

– È probabile. Avanti ed il dito sul grilletto.

S’inoltrarono nella macchia con precauzione, l’un dietro all’altro, scostando i bambù colle canne dei fucili, poi, udendo dei mugolìi vicini, s’arrestarono.

– Landò mettetevi alla mia destra – disse l’olandese – e tu Sulinari, alla mia sinistra. Non temete: la tigre è nostra e non opporrà molta resistenza, ma cercate di mirare con calma.

– Tuoni!... – esclamò il soldato. – La volontà io l’ho, ma i miei nervi ballano la tarantella, signor Held.

Continuarono la marcia, sempre con precauzione, allontanando lentamente le canne e giunsero in uno spazio scoperto. Colà si vedevano, ammucchiati alla rinfusa, dei carcami di animali, delle ossa spezzate e imputridivano degli avanzi di babirussa e di scimmie spargendo all’intorno un odore nauseante.

Ebbero appena il tempo di gettare uno sguardo su quell’ossario. [p. 196 modifica] Un grido rauco, tremendo, da far gelare il sangue ai più audaci, echeggiò.

Dinanzi a loro, semicoricata sotto un gruppo di bambù tulda, stava la tigre. Vedendo i cacciatori s’alzò e si contrasse come si preparasse ad assalire.

Il soldato, più eccitato dell’olandese, puntò rapidamente il fucile e fece fuoco. Quasi nell’istesso istante la tigre scattava balzando contro di lui.

L’olandese aveva però già alzata la carabina. Echeggiò una detonazione e la fiera, colpita al volo, per modo di dire, ed in piena fronte, stramazzò pesantemente da un lato emettendo un ultimo mugolìo.

Era morta: la palla le era penetrata nel cervello.

– Sei soddisfatto? – chiese Held con voce tranquilla, rivolgendosi al dayako, che pareva stupito di quel colpo maestro.

– Sì – rispose questi. – Domani avrete la scorta, e Giuwata mi punisca se io mancherò alla mia parola.