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Un grido rauco, tremendo, da far gelare il sangue ai più audaci, echeggiò.

Dinanzi a loro, semicoricata sotto un gruppo di bambù tulda, stava la tigre. Vedendo i cacciatori s’alzò e si contrasse come si preparasse ad assalire.

Il soldato, più eccitato dell’olandese, puntò rapidamente il fucile e fece fuoco. Quasi nell’istesso istante la tigre scattava balzando contro di lui.

L’olandese aveva però già alzata la carabina. Echeggiò una detonazione e la fiera, colpita al volo, per modo di dire, ed in piena fronte, stramazzò pesantemente da un lato emettendo un ultimo mugolìo.

Era morta: la palla le era penetrata nel cervello.

– Sei soddisfatto? – chiese Held con voce tranquilla, rivolgendosi al dayako, che pareva stupito di quel colpo maestro.

– Sì – rispose questi. – Domani avrete la scorta, e Giuwata mi punisca se io mancherò alla mia parola.


CAPITOLO XXIII.

I Dayachi-laut di Kara-Olo


Sulinari mantenne lealmente la promessa fatta.

L’indomani i naufraghi dell’Oregon, ben provveduti di viveri, lasciarono il villaggio dayako per giungere al Koti, sulle cui sponde, presso la foce, dovevano trovare il fratello dell’ospitale capo.

Li seguivano dodici guerrieri scelti fra i più coraggiosi della tribù, armati di parangs-ilang, di cerbottane e d’una grossa provvista di frecce avvelenate e otto schiavi incaricati di trasportare Amely, per la quale era stata costruita una specie di amaca sostenuta da una pertica e che veniva portata da quattro robusti uomini.

Sulinari condusse i suoi ospiti fino all’estremità della palude, raccomandò un’ultima volta ai suoi guerrieri di difendere i suoi amici contro qualunque aggressione, poi, dopo gli addii, ritornò al suo villaggio vivamente commosso.