I naufragatori dell'Oregon/21. Il supplizio di Aier-Raja
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CAPITOLO XXI.
Il supplizio di Aier-raja
Il villaggio dayaco era situato sulla riva di una vasta palude, la quale irrigava un vasto tratto di terreni coltivati a risaie. Era una specie d’immensa piattaforma sostenuta da migliaia di pali piantati in acqua, sorreggente numerose capanne di bambù e di foglie di banani ed alcuni recinti destinati ai polli, ai piccoli babirussi addomesticati, ad un grande numero di scimmie e ad accogliere i prodotti della terra, riso, frutta e patate dolci chiamate ubis.
In mezzo sorgeva il soppo, ossia la capanna del capo, che era più grande e più bella di tutte, poi un grosso palo destinato alle vittime cadute vive nelle mani di quei bellicosi selvaggi, quindi un recinto che conteneva la raccolta dei crani della tribù.
Dalla parte della palude lo difendevano numerose palizzate, presso le quali si vedevano parecchie imbarcazioni lunghe trenta e più metri, scavate nel tronco di alberi colle scuri e coi parangs; dalla parte di terra lo proteggevano delle fitte piantagioni di bambù spinosi e numerosi alberi pure cinti di spine, ostacoli insormontabili per nemici che sono quasi interamente nudi.
Vedendo entrare il capo, l’intera popolazione, composta di tre o quattrocento individui, uscì dalle capanne, gettando urla acute, ma tacque subito scorgendo Amely e gli uomini bianchi.
Vi erano fra quegli abitanti anche parecchie donne, belle assai, con occhi grandi e neri, la pelle giallo-chiara, col capo coperto da fazzoletti variopinti, le anche avvolte in un corto bidang, specie di sottanino, ed i fianchi stretti da cinture di anelli d’ottone. Si vedeva pure qualche ragazza albina di belle forme, bianca e rossa come una tedesca, coi capelli biondi, gli occhi azzurri, la faccia piena, ma il corpo coperto da lentiggini.
Il capo condusse i suoi ospiti in una delle più belle capanne, facendoli però prima passare davanti al recinto ove stavano raccolte le teste dei nemici. Ve n’erano almeno cento appartenenti a Malesi, a Bughisi, a Kajou, a Biagiassi, a orang-outang, accuratamente affumicate per conservarle in ottimo stato e prive degli occhi e del cervello.
Appena si furono accomodati nella capanna, Sulinari fece recare a loro del siri, delle patate dolci, del riso cotto in acqua, del babirussa arrostito e tre noci di cocco ripiene di rakas, liquore assai forte che ottengono col riso fermentato e col succo di arenga saccarifera.
– Tuoni!... – esclamò il soldato. – L’avventura è bella se non si muta in una tragedia.
– Non temete, Lando – disse Held. – M’ha regalato il gallo e questo è un segno di grande amicizia presso questi popoli.
– Vi raccomando di non torcere il collo al volatile.
– Anzi, possiamo farlo cucinare.
– Voi adunque avete molta fiducia in Sulinari?
– Ora sì, Lando.
– E non potremmo trar partito dall’amicizia di questo capo?
– Cosa volete dire?
– Se cercassimo di ottenere da lui una scorta per giungere al Koti?...
– L’idea è buona – disse Amely.
– Si può fargli la proposta – rispose Held.
– Ho nella mia borsa tre mesi di paga – disse il soldato. – Gliela offrirei volentieri.
– Ne ho anch’io dei denari – disse l’olandese sorridendo – ma so che questi selvaggi fanno poco conto dell’oro e che sono disinteressatissimi. Quando intraprendono con dei malesi delle spedizioni, lasciano a quegli avidi predoni le ricchezze e si accontentano delle teste dei nemici.
– Si può offrire qualche fucile – disse Amely.
– Questo lo preferirebbe a tutto... toh!... Chi entra?... Ah! Sei tu, amico Sulinari?...
– Il malese è legato al palo e fra pochi minuti morrà – disse il capo, entrando. – Il mio popolo è ansioso di cominciare la danza guerresca.
– Signor Held – disse Amely – non potremmo salvare quel disgraziato?... Forse è meno colpevole del suo padrone.
– Lasciate che lo scortichino quel furfante, signorina – disse il siciliano.
– D’altronde le nostre preghiere sarebbero affatto inutili – disse Held. – Ha ucciso un Dayaco e deve morire.
– Io non assisterò alla sua morte, signor Held.
– Sulinari non ti costringerà, Amely. Questi selvaggi sono cavallereschi verso le donne e le rispettano forse più di certi europei. Dik ti farà compagnia.
Uscirono seguendo il capo e scorsero subito, solidamente legato al palo dei prigionieri, il servo di O’Paddy. Pareva ormai rassegnato alla sua sorte e guardava con alterigia i Dayachi che gli giravano intorno, facendo balenare dinanzi ai suoi occhi i pesanti parangs ed i kriss.
Il soldato appena lo vide gli si precipitò addosso col pugno alzato, gridando:
– Canaglia!...
– Adesso te ne sei accorto? – rispose il malese con un sorriso.
– Dov’è quell’infame di tuo padrone, pirata?
Aier-Raja alzò le spalle.
– Parla, sciagurato – disse Held.
– Bah!... È lontano ormai e non potrete raggiungerlo.
– Ma non eri rimasto coi pirati tu?...
– No, vi ho seguìti dopo il vostro incontro col padrone.
– Ma quale infame tradimento ordivate?
– Lo sa il padrone.
– Ma a quale scopo?...
– Che ne so io?...
– Tu lo sai.
– È probabile.
– Parla adunque.
– Se anche parlassi, i Dayachi non mi lascerebbero vivo – rispose il malese.
– E se cercassi di strapparti alla morte?...
– I Dayachi non acconsentirebbero. Io conosco questi uomini e non ignoro l’odio che nutrono verso la mia razza... E poi – aggiunse con calma e una noncuranza strabilianti – ho ucciso e devo subire la pena del taglione.
– Che audacia!... – esclamò il siciliano stupito. – Questi furfanti sono coraggiosi.
– O meglio, sono fatalisti – rispose Held. – Si rassegnano alle avversità del destino e senza nulla tentare per combatterle.
– Come i maomettani.
– Sono anche loro seguaci del Corano. Orsù, è inutile tentarlo: non parlerà.
Poi volgendosi verso Sulinari:
– Puoi concedermi la vita di quest’uomo?...
– È impossibile – rispose il capo. – La mia tribù reclama la sua testa ed i parenti dell’uomo che ha ucciso hanno già preparato le armi.
– Se ti offrissi una delle mie canne che lanciano fuoco e fumo, me lo cederesti?
Gli occhi di Sulinari ebbero un lampo d’ardente bramosia, ma subito si spense.
– Chiedimi tutto quello che vuoi ed io te lo darò, pur di avere una di quelle armi così potenti, ma non la vita di quell’uomo. Ormai è votato alla morte e Giaruwang, il dio della nostra tribù, potrebbe vendicarsi su di noi e distruggerci i raccolti.
– Saresti però contento di possedere una delle nostre canne che mandano fuoco?
– Ti darei tutti i crani dei nemici da me uccisi, le mie armi, le mie vesti, il mio canotto e le mie mangiala (reti) pur di possederne una. Diverrei invincibile e farei un’immensa raccolta di crani.
– Io, invece di una, te ne darò dieci, ma se tu ci aiuti a ritornare al nostro paese.
– Cosa devo fare?...
– Condurci sulle sponde del Koti e farci imbarcare su un praho.
– È lontano il tuo paese?...
– In trenta giorni di navigazione potrei giungervi.
– E tu mi darai dieci canne che mandano il tuono?... – chiese Sulinari cogli occhi ardenti.
– Sì.
– Io posso farti condurre al tuo paese, ma ad una condizione.
– Quale?
– Se tu mi uccidi, colle tue potenti armi, una tigre che minaccia il mio kampong e che noi non possiamo abbattere perchè è protetta da Antu e Buan.
– Chi sono questi Antu e Buan?
– I cattivi geni della foresta.
– La uccideremo.
Urla spaventevoli interruppero il loro dialogo. I guerrieri uscivano dalle loro capanne, seguìti dalle donne e dai fanciulli, che percuotevano furiosamente alcuni gong sospesi a delle aste di bambù.
Tutti quei selvaggi abbigliati da festa, coi capi coperti di penne variopinte, erano armati di parangs-ilang e di kriss. Quest’arma è la più caratteristica di quelle usate dalla popolazione del vasto arcipelago della Sonda ed è la più pericolosa di tutte. Pare che sia stata inventata nel XV secolo dal giavanese Inokarta Pati, re del Giangala.
Come abbiamo già detto, è lunga un piede giusto, ossia trentatrè centimetri, di metallo bianco (pamur) che si ricava solamente nelle miniere del Borneo o delle Celebes o dell’isola di Biliton, di tempra eccezionale, ben lavorata, damaschinata ed intarsiata d’oro.
La lama è o dritta o serpeggiante, a doppio taglio, scannellata sulla superficie, tinta del velenosissimo succo dell’upas o succo di limone.
L’impugnatura è di legno, sovente anche d’oro, tempestata di rubini o di diamanti o lavorata e raffigurante le vecchie tradizioni hindostane o giavanesi.
Trenta guerrieri, i più valorosi della tribù, circondarono il palo fatale a cui era stato pure legato il disgraziato schiavo, vittima dell’amok. I volti di quei selvaggi manifestavano ad un tempo la gioia e la crudeltà; perfino Sulinari aveva assunto un’espressione così truce, che l’olandese ne fu inquieto.
Ad un cenno del capo i guerrieri cominciarono la danza dei parangs, ballo ritenuto necessario prima di decapitare le vittime. Deposero a terra le loro pesanti sciabole, formando attorno al palo tante croci e si misero ad eseguire dei passi di fantasia, avanzando, retrocedendo, allungando le mani verso le armi e poi ritirandole con gesti di paura.
Ad un tratto le impugnarono e, mentre i gongs echeggiavano con fracasso indiavolato, si misero a volteggiare attorno alle vittime, le quali, rese forti dal pensiero che una morte coraggiosa è l’atto più glorioso di un guerriero, assistevano sdegnose a quella scena.
Quella danza scapigliata o meglio quella corsa precipitosa attorno al palo durò pochi minuti; poi ad un segnale del capo, tutti quegli uomini si scagliarono come tigri sui due prigionieri colle armi alzate.
Fra quei clamori assordanti si udirono due grida strozzate, poi due teste volarono ai piedi di Sulinari. L’olandese, nauseato ed inorridito, stava per ritirarsi nella capanna, quando vide avanzarsi un guerriero ed offrire al capo, su di una stuoia, le cartilagini degli orecchi, le palme delle mani ed il fegato dei due decapitati.1
Il capo prese la stuoia e la presentò all’olandese ed al soldato, dicendo col più amabile sorriso:
– Sono i pezzi d’onore.
– Tuoni! – urlò il siciliano inorridito. – Mangiali tu, abbominevole antropofago!...
E si slanciò dietro a Held, che si dirigeva verso la capanna.
Sulinari fece atto di seguirli per indurli ad accettare il regalo, ma indovinando forse l’orrore che a loro ispirava quell’offerta, o immaginandosi che gli uomini d’oltremare non osassero mangiare i loro nemici, addentò rabbiosamente quei tristi avanzi, mentre i suoi guerrieri si disputavano le carni ancora palpitanti delle vittime.
– Che vi colga la lebbra!... – gridò il siciliano che si era arrestato sulla soglia della capanna. – E noi dovremo chiamare, questi mangiatori di carne umana, amici nostri?... Tuoni!... Che razza di furfanti!...
– Questione di abitudini, Lando – disse Held. – Da secoli i loro padri usano mangiare i prigionieri ed essi fanno altrettanto.
– Sono ghiotti della carne umana, adunque?...
– Non la mangiano come una leccornia, ma per uno scopo, fino ad un certo punto perdonabile, per dei selvaggi.
– E quale, signor Held?...
– Perchè credono di appropriarsi il coraggio dell’uomo mangiato.
– Lo dite sul serio?...
– Ve lo dico con tutta serietà. Non crediate d’altronde, che i soli Dayachi abbiano questa strana convinzione; anche i Maori della Nuova Zelanda mangiavano i prigionieri, certi di appropriarsi la virtù del nemico messo alla graticola e ci tenevano soprattutto a mangiare l’occhio sinistro come quello che vede nell’anima. Alcune tribù della Guaiana di America e dei fiumi Amazzone e Orenoco riducono i cadaveri in ceneri e bevono queste sciolte nei liquori.
– Strane usanze, signor Held. Se la cosa fosse vera, ben poco di buono erediterebbero da quel furfante di malese. Toh!... Eccoli che tornano da noi!... Vengono a offrirci qualche cosa d’altro?...
I Dayachi, terminato il lugubre pasto, si erano radunati coi gongos alla testa e, seguìti da un lungo codazzo di donne e di bambini, s’avvicinavano alla capanna.
Due uomini portavano un grande vaso di porcellana, uno di quei vasi chinesi importati nell’isola in tempi antichissimi e che i Dayachi conservano gelosamente.
Sulinari si fece innanzi e dopo di aver salutato con molta galanteria Amely, che era uscita dalla capanna, ed i suoi compagni, disse:
– Vengo a reclamare l’adempimento della promessa fattami. Il momento è propizio per seminare il nostro riso, ora che Giuwata, il nostro essere supremo, ha avuto la sua offerta e che è ridiventato buono.
Poi, volgendosi verso i suoi guerrieri, fece deporre dinanzi agli uomini bianchi il grande vaso contenente il riso da seminare.
Amely ed i suoi compagni lasciarono cadere nel recipiente un po’ di saliva, mentre i gongs strepitavano furiosamente e tutta la popolazione emetteva grida di gioia, credendo, in buona fede, assicurato un raccolto prodigioso.
Il vaso fu deposto su di un grande palanchino costruito di rami d’albero, e tutta la popolazione si radunò dietro ai portatori che si dirigevano verso le risaie.
Sulinari però era rimasto. Egli invitò gli ospiti a sedersi, offrì a loro del rakas entro delle tazzine di terracotta, poi disse:
– Ora che avete adempiuta la vostra promessa, assicurando alla mia tribù il raccolto, sono pronto ad aiutarvi nel limite delle mie forze, onde possiate ritornare tranquillamente alle vostre case. Sulinari è un uomo leale e gli uomini d’oltremare non avranno a lagnarsi di lui.
– Odimi, Sulinari – disse l’olandese. – Ti dissi che noi abitiamo lontano da qui, al di là del mare, ma dove i prahos vi possono giungere. Hai udito parlare di un’isola che si chiama Timor?...
– Me ne ha parlato una volta mio fratello.
– È un capo tuo fratello?
– Sì, dei Dayachi-laut.
– Ossia dei Dayachi di mare?...
– Sì.
– Conosce il mare tuo fratello?...
– Lui sì; è un valente marinaio che comanda degli uomini risoluti e che ha visitato grande numero di altre terre che io non ho mai vedute, nè mai udite nominare.
– Dove ha il suo villaggio?
– Presso la foce del Koti, al di là delle terre dominate dal sultano dei Bughisi.
– Oltre Semmeridam?
– Sì.
– A quanti giorni di marcia da qui?...
– A cinque.
– Puoi farci condurre?...
– Posso insegnarti la strada.
– Non mi basta. Ascoltami: io darò a te dieci armi come le nostre e ti sbarazzeremo dalla tigre che minaccia la vita dei tuoi sudditi; io a tuo fratello darò una grossa somma di denaro colla quale potrà acquistare, nelle isole lontane, tutto ciò che vorrà, ma ad una condizione.
– Parla – disse Sulinari, che manifestava una gioia immensa.
– Che tu ci accordi una scorta armata che ci conduca da tuo fratello e che ci protegga da ogni pericolo.
– Qualcuno ti minaccia forse?...
– Sì, l’uomo bianco che fece fuoco contro i tuoi uomini.
– Ah!... Lui!... Ti darò dieci uomini scelti tra i più valorosi e se riuscirai ad ucciderlo, ti sarò riconoscente se mi manderai in regalo la sua testa.
– Di questo s’incaricheranno i tuoi guerrieri. A tuo fratello chiederò che ci conduca, con buona scorta armata, a Timor, dove ci seguirà uno dei tuoi uomini per ricevere le armi a te destinate. Acconsenti, Sulinari?...
– Sì – disse il capo. – La mia tribù ti è già riconoscente per averle assicurato il raccolto; te lo sarà di più liberandola dalla tigre protetta dai geni maligni della foresta, contro la quale le nostre armi nulla possono, ed il consiglio degli anziani nulla ti potrà rifiutare. Mio fratello poi, che mi ama, non indugerà ad armare i suoi prahos e condurti nella tua isola. Io rispondo per lui.
– Grazie, Sulinari: tu avrai le armi che mandano fuoco e fumo.
– E m’insegnerai ad adoperarle?...
– Cominciando da domani.
– E la tigre, quando la ucciderai?...
– Questa sera, se tu sai dirci dove si trova.
– Vi condurrò io dove potrete trovarla e vi terrò compagnia.
– È lontano il luogo?
– All’estremità della palude.
– Hai un giovane babirussa?...
– Anche dieci se vuoi.
– Mi basta uno per attirare la tigre. Il sole comincia già a nascondersi dietro le foreste; facciamo i nostri preparativi. Quando la luna sorgerà, ci troveremo a posto.
Note
- ↑ Anche al signor Wan-der-Busch, che nel 1878 visitò i Dayachi presso i confini della colonia olandese di Pontianak, venne fatta una simile offerta da parte di un capo. Già Leyden, Tromp, il dottor Reidel, residente olandese a Holontalo, Temmingh e la Pfeiffer avevano assistito più volte a simili scene di cannibalismo fra i Dayachi del centro.