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i naufragatori dell'«oregon» | 189 |
– Dove ci metteremo? – chiese il soldato.
– Su quel tamarindo – disse l’olandese, additando un grosso albero che sorgeva quasi isolato, di fronte ad un macchione di bambù.
– Con un balzo non potrà giungere fino ai rami?
– È possibile, avendo quelle fiere uno slancio straordinario, ma non le lasceremo il tempo. Sulinari, lega il babirussa a quel cespuglio.
Il dayako obbedì, legando il povero animale ad una pianta che si trovava a trenta passi dal tamarindo.
– Ora arrampichiamoci – disse l’olandese.
– Ma il babirussa non grugnirà e non attirerà la belva – osservò il siciliano.
– Le tigri fiutano la preda a grandi distanze e la nostra non tarderà a venire. Presto, saliamo.
S’aggrapparono ai rami bassi ed aiutandosi l’un l’altro, in pochi istanti si trovarono nascosti in mezzo al folto fogliame del tamarindo. I due europei armarono le carabine ed il dayaco introdusse una freccia avvelenata nella cerbottana.
Il babirussa, come se avesse compreso a quale sorte era destinato, non osava muoversi. Solo di quando in quando emetteva un sordo grugnito.
La foresta era diventata silenziosa: non s’udivano nè grida d’uccelli, nè grida d’animali. Solamente le alte cime dei bambù, scosse da un soffio d’aria tiepida, susurravano leggiermente.
Passò un’ora senza che nulla avvenisse. La luna rischiarava come in pieno giorno il macchione, lasciando invece all’oscuro la foresta sul cui margine s’alzava il tamarindo.
Ad un tratto un grande volatile, un pipistrello gigante od un gatto volante, s’alzò fra i bambù emettendo un grido di spavento, attraversò lo spazio pesantemente e andò a nascondersi fra le foglie d’un arecche.
– Avete veduto, signor Held? – chiese il soldato, con certa apprensione.
– Sì – rispose l’olandese.
– Qualcuno deve aver spaventato quell’uccello o quel kubung.
– Così la penso anch’io.
– Che sia stata la tigre?
– Può essere stato un babirussa, od un serpente o qualche mias.