I naufragatori dell'Oregon/18. Il ritorno di O'Paddy

18. Il ritorno di O'Paddy

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17. Una corsa sul dorso d'un rinoceronte 19. I traditori si svelano


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CAPITOLO XVIII.

Il ritorno di O’Paddy


Se il soldato era rimasto stupito nel ritrovare in mezzo alla foresta l’irlandese, Held, Amely ed il piccolo Dik non lo furono meno, vedendolo ritornare assieme al loro compagno così miracolosamente sfuggito a quel tremendo pericolo.

La loro commozione fu tale, che, dimenticando i loro sospetti e le loro inquietudini per la condotta misteriosa e poco rassicurante di quell’uomo, gli stesero francamente le mani, accogliendolo come un vero salvatore.

O’Paddy non pareva meno lieto di loro per quell’incontro e sfoggiò tale arte e tali parole da dissipare nella mente dei suoi compagni gli ultimi resti di dubbio a suo riguardo. Ripetè più volte ciò che aveva già narrato al marinaio, lagnandosi aspramente dell’infame tradimento del malese e vantando la sua abilità nello sfuggire ad una probabile schiavitù e conchiuse, dicendo con voce che pareva veramente commossa:

– Disponete interamente di me e della conoscenza che ho di quest’isola: sarò ben felice, signorina Amely e signor Held, di potervi condurre in salvo a Semmeridan, dove spero di ottenere da quel rajah un praho che ci conduca a Timor e qualche amico che ci soccorra in queste difficile circostanze.

Tengo ancora nella mia cintola una decina di mille risdalleri e li metto a vostra disposizione.

– Grazie, signor O’Paddy – disse Amely. – Quando saremo giunti a Timor, non mi scorderò della vostra generosa condotta a nostro riguardo. [p. 149 modifica]

– Fulmini di Giove!... Noi, gente di mare, siamo fatti così, signorina: le nostre braccia e la nostra borsa sono sempre a disposizione di chi ne ha bisogno. È vero, ex-marinaio?

– Sì, capitano – rispose il siciliano. – Cerchiamo di essere più onesti e più generosi degli altri.

– Una parola, signor O’Paddy – disse l’olandese.

– Parlate, signor Held.

– Credete che i pirati v’inseguano?

– Lo temo, e perciò vi consiglierei di affrettare la marcia per giungere presto a Semmeridan.

– Sapete condurci per qualche via?

– Una via qui, in mezzo a queste selve? Uhm! Bisognerà scendere al sud colle bussole in mano e aprendoci il passo colle scuri. Fortunatamente non vi sono che duecento miglia da percorrere ed in dieci giorni potremo giungere a quella città.

– Siamo pronti a seguirvi.

– Avete nulla da portare?

– Null’altro che pochi biscotti. Siamo già a corto di viveri.

– Queste foreste pullulano di selvaggina e la fame non la soffriremo. Se la signorina Amely crede e se il piccolo Dik non è stanco, rimettiamoci in marcia.

– Non sono stanco – disse Dik. – Calcolatemi come un uomo.

– Allora avanti! – disse O’Paddy. – Io ed il soldato apriremo la via.

Abbandonarono il sentiero aperto dal rinoceronte che si dirigeva verso l’est e si misero a lavorar colle scuri, per aprirsi un nuovo passaggio attraverso all’interminabile foresta.

Alle sei di sera, stanchi, trafelati, s’arrestarono sotto un colossale albero della canfora. Avevano percorso almeno sei miglia, sempre lottando contro quei vegetali che li stringevano da ogni parte e non ne potevano più.

Prima che l’oscurità fosse completa, O’Paddy si incaricò di cercare qualche cosa per la cena. Aiutato dal soldato, s’inerpicò su di un cavolo palmista e gettò a terra la cima di quell’albero. Era una gemma di dimensioni non comuni, perchè raggiungeva quasi un metro d’altezza e una grossezza non inferiore alla coscia d’un uomo.

Era coperta d’un ciuffo di foglie, ma sotto celava una specie di [p. 150 modifica] pignolo bianco, liscio, racchiuso da cortecce concentriche e che aveva il sapore delle mandorle.

Ma non si limitò a quello. Scuotendo gli alberi, fece cadere dei succolenti manghi, dei banani, delle arance grosse come la testa d’un bambino e anche alcune frutta d’ortocarpo integrifoglia, chiamate dai malesi buâ mangha, le più voluminose che si vedono nelle isole dell’arcipelago della Sonda, così pesanti che spesso sono necessari due uomini per portarne uno solo, assai nutrienti e largamente usate da tutti i popoli di quelle regioni.

Cenarono in fretta, accesero un gran fuoco per tener lontane le fiere e si stesero su alcuni mucchi di fresche foglie. O’Paddy si era offerto di vegliare il primo e l’ultimo quarto di guardia, avendo dichiarato che aveva l’abitudine di dormire assai poco.

Accesa la pipa, si sedette presso il fuoco e parve immergersi in profondi pensieri. Fumava ancora la prima carica di tabacco, che già Held ed i suoi compagni dormivano profondamente, vinti da quella faticosa marcia.

Era già trascorsa mezz’ora, quando l’irlandese si scosse. Girò lentamente gli sguardi verso il tronco dell’albero come se temesse di venire sorpreso, fissando attentamente l’olandese che dormiva fra Dik ed il soldato. Una profonda ruga gli si disegnò sulla fronte.

– È impossibile – mormorò. – Bisognerebbe spogliarlo per levargli quei dannati documenti che deve tenere nascosti sotto la sua camicia. Decisamente sono nato sotto una cattiva stella, ma a Semmeridan... la vedremo!...

S’alzò avvicinandosi presso l’albero e col piede urtò il soldato, ma questi continuò a russare. Si curvò sopra l’olandese, poi sopra Amely, quindi su Dik, ma tutti dormivano profondamente.

– Se li uccidessi?... – mormorò, mentre un lampo cupo gli balenava negli sguardi. – La foresta conserverebbe il segreto ed io potrei diventare ricco... No!... Non sarò mai un furfante di tale conio!... E poi Wan-Baer potrebbe più tardi giuocarmi un brutto tiro e denunciarmi per rubarmi il resto del milione o tenermi sotto una continua minaccia... S’incaricherà il rajah d’impedire a loro di più mai ritornare.

S’allontanò di due o trecento passi, inoltrandosi sul sentiero che avevano aperto per giungere fino là ed emise un leggero sibilo che ripetè tre volte. [p. 151 modifica]

Poco dopo, in mezzo alla tenebrosa foresta, si udì un sibilo eguale, quindi le foglie ed i rami si mossero ed un uomo apparve, avanzandosi con precauzione.

– Sei tu, Aier-Raja? – chiese O’Paddy, alzando il fucile.

– Sì, padrone – rispose il malese, raggiungendolo.

– Hai potuto seguirci senza difficoltà?

– Sì, e ti ho veduto passare a venti passi da me assieme all’olandese ed a quel soldato. Ti hanno accolto bene?...

– Sì, e non diffidano di me.

– Hanno creduto a quanto hai raccontato?...

– Sì, e bada di non farti vedere se non vuoi ricevere una palla nelle reni. Quell’Held ed il soldato non sono uomini da scherzare.

– Vi seguirò tenendomi lontano. Dormono?

– Tutti.

– Ed i documenti non si possono togliergli?

– Se gli ha nascosti sotto la camicia è impossibile rubarli.

– Avresti potuto risparmiare i diecimila risdalleri che hai fatto promettere al rajah.

– Li pagherà Wan-Baer, se vorrà i documenti. Credi che sia già partito il tuo amico pirata?...

– Per guadagnare i mille risdalleri che gli hai promessi, ucciderebbe dieci persone. A quest’ora sarà giunto alla foce del Koti e domani sera approderà a Semmeridan...

– Hai raccomandato di tendere bene l’imboscata?... Non voglio che si uccidano.

– Nemmeno il soldato?...

– Bah!... Di quello non mi occupo.

– Lascia fare a me. Quando sarete presso Semmeridan vi passerò innanzi e organizzerò io l’imboscata.

– Ah! Se quel tuo vecchio pirata si fosse deciso prima, avremmo potuto sorprenderli ancora a bordo dell’Oregon e risparmiare tante fatiche.

– Temeva un agguato ed una difesa disperata a colpi di cannone. Tu sai che sull’Oregon ve n’era uno già carico a mitraglia.

– Non importa; accomoderemo egualmente ogni cosa. Hai consegnato al tuo pirata la lettera per Wan-Baer?

– Sì, padrone.

– Allora fra quattro o cinque giorni la riceverà e s’imbarcherà [p. 152 modifica] per Timor. Lo troveremo laggiù, forse già nella casa di suo zio, ma per Bacco!... Per avere i documenti bisognerà che ci sborsi un altro milioncino! Ne resteranno sempre troppi al birbone.

– Era suo zio il defunto dei cinquanta milioni?

– Sì, Aier-Raja.

– Ma da dove vengono quei ragazzi?...

– Da Macao, dove pare che vivessero molto magramente. Se quell’Held, vecchio compagno d’armi del loro defunto padre, non li avesse sempre soccorsi...

– Zitto, padrone!

– Cos’hai udito?

– La voce del soldato.

Infatti si udiva il siciliano a chiamare:

– Capitano O’Paddy!...

– Vattene – disse l’irlandese ad Aier-Raja. – Ci ritroveremo a Semmeridan.

Poi tornò rapidamente indietro, col fucile in mano, come se avesse voluto servirsene e s’appressò all’albero, dicendo a mezza voce:

– Non gridare così forte.

– Cosa succede? – chiese il siciliano, che s’era già alzato.

– Cercavo di guadagnare la colazione – rispose l’irlandese. – Avevo udito un babirussa grugnire sotto quelle macchie.

– È fuggito?...

– Non l’odo più. Si sarà accorto del mio avvicinarsi e si sarà affrettato a rintanarsi nel bosco.

– Mi aveva assai inquietato la vostra scomparsa.

– E perchè?

– Temevo che qualche tigre vi avesse portato via.

– Sono un boccone un po’ duro, indigesto anche per le tigri. Riprendi il sonno e non inquietarti.

– Tocca il mio quarto, capitano – disse il siciliano, levando di tasca un vecchio orologio e guardando l’ora.

– Allora buona guardia – rispose O’Paddy, sdraiandosi sul giaciglio abbandonato dal soldato. – Apri bene gli occhi e se succede qualche cosa, svegliami.

Il suo sonno non fu però interrotto. Il soldato non scorse nulla d’insolito ed anche il quarto di guardia di Held passò tranquillissimo. [p. 153 modifica] [p. 155 modifica]

Alle quattro l’irlandese riprese il posto accanto al fuoco. Vi era da pochi minuti, quando scorse un’ombra che usciva da una macchia, avvicinandosi con precauzione al fuoco, come se fosse curiosa di sapere cos’era quell’insolito chiarore.

– Toh!... – esclamò O’Paddy, alzandosi con precauzione. – Avevo detto che ero andato a cercare la colazione ed ecco che questa viene. Si vede che la fortuna comincia a sorridermi.

Puntò lentamente il fucile mirando con grande attenzione, poi lasciò partire il colpo. L’ombra cadde fulminata, schiantando col proprio peso un cespuglio.

Il soldato, Held ed i due ragazzi, udendo quella detonazione, balzarono precipitosamente in piedi.

– Contro chi avete fatto fuoco? – chiese l’olandese, armando precipitosamente la carabina.

– Sulla colazione – rispose l’irlandese con voce tranquilla. – Aiutami, soldato mio.

Poco dopo trascinavano presso il fuoco un animale che somigliava ad un grosso maiale, quantunque avesse le gambe più alte e sottili ed il collo più grosso.

– Un babirussa!... – esclamò il signor Held. – Ecco una colazione molto deliziosa.

L’olandese non si era ingannato. Era veramente un babirussa, che vuol dire porco-cervo in malese, ma che invece non ha nulla di comune coi cervi, appartenendo all’ordine dei pachidermi moltungulati, ma formando un genere particolare della famiglia dei porci.

Questi animali, che sono comunissimi in tutte le isola della Sonda e specialmente nel Borneo, hanno il grugno molto sporgente, gli occhi piccoli, le gambe alte, l’andatura molto svelta e sono rapidi corridori.

La loro pelle, che è grossa, è di colore cinereo-rossiccio, coperta da peli corti e lanosi. Dalla mascella superiore pendono due zanne che s’incurvano fino agli occhi, solide, acuminate e pericolose.

Si nutrono esclusivamente di vegetali e vivono in mezzo alle più folte foreste sfuggendo l’uomo, ma si possono facilmente addomesticare. Assaliti, si difendono con grande vigore, e non di rado sventrano qualche cacciatore.

Si dice dai Dayaki che, per sfuggire alle fiere, si appendono di notte ad un grosso ramo d’albero colle loro robuste zanne e che [p. 156 modifica] dormono in quella strana posizione, ma si dubita che ciò possa essere vero.

Essendo già sorto il sole, tutti rinunciarono a dormire l’ultimo quarto, per preparare quella colazione che prometteva un arrosto appetitoso.

Il soldato e O’Paddy, servendosi dei loro coltelli, scuoiarono l’animale, scelsero uno dei migliori pezzi e lo misero ad arrostire infilzato nella bacchetta d’una carabina, che era d’acciaio.

Non avendo che pochi biscotti, si misero subito in cerca del pane. Vi erano molti alberi sagù, che nel loro interno contengono una specie di farina non inferiore a quella che si ricava dal grano, ma richiedendo quell’estrazione un tempo molto lungo e degli arnesi che non possedevano, si rivolsero agli artocarpus incisa, chiamati anche alberi del pane e dai malesi támul, piante maestose che producono delle frutta grosse come una testa di bambino, rugose esternamente, ma piene d’una polpa giallognola, che si taglia a fette e che si mette ad arrostire sui carboni e che ha il sapore di certe specie di zucche, ma anche del fondo dei carciofi.

Mancava l’acqua, non avendo trovato uno stagno, nè un ruscello in quella parte della foresta, nè una nepenthes distillatoria, ma O’Paddy non si trovò per questo imbarazzato.

Aveva notata una specie di liana ramosissima, che produceva delle frutta grosse poco più delle noci. Era l’aier, pianta molto comune nelle isole della Sonda orientale, specialmente nelle Molucche. Fece su quei rami molte incisioni e si vide tosto colare un vero zampillo d’acqua limpida e fresca.

– A colazione – disse allora l’irlandese. – Non ci manca più nulla.

Pochi minuti dopo si sedevano dinanzi all’arrosto che esalava un profumo squisito.