I naufragatori dell'Oregon/19. I traditori si svelano
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CAPITOLO XIX.
I traditori si svelano.
Nei giorni seguenti il piccolo drappello continuò a marciare attraverso a quelle grandi boscaglie aprendosi faticosamente il passo fra quei giganteschi macchioni di banani, di mangostani, di arenghe saccarifere, di cavoli caraibi, di artocarpi, di sagù, di manghi, di tek, di cedri, di bambù, di nipa, di piper betel, di arecche, di liane e di bambù di ogni specie, abbattendo qualche uccello o qualche piccolo mammifero, o qualche babirussa per la cena o per la colazione.
Avevano già attraversati parecchi fiumicelli pullulanti di enormi serpenti d’acqua e di orridi coccodrilli chiamati laggiù gaviali ed anche il Tananduriam, ragguardevole corso d’acqua, che dopo un giro tortuosissimo si versa nella profonda baia di Papan-Durian.
Non dovevano distare che tre o quattro giornate da Semmeridan, la città tanto sospirata da tutti, ma per ben diversi motivi, quando, l’ottavo giorno, un avvenimento inatteso minacciò di far naufragare le speranze dell’irlandese e dei suoi compagni.
Si erano assisi ai piedi di un’altura, ultimo contrafforte dei monti Kaniungan, in mezzo ad una fitta foresta popolata da numerose truppe di scimmie verdi, quadrumani che nel viso somigliano all’uomo, che vivono in bande grosse e che amano la vicinanza delle acque, quando giunsero ai loro orecchi delle grida lontane.
Sapendo di essere ancora lontani dalle rive del Koti, le cui acque bagnano Semmeridan e non ignorando che le foreste di quell’isola sono popolate da tribù ferocissime, si erano alzati come un solo uomo, colle armi in pugno.
– Che ci siano dei Dayaki in questi dintorni? – chiese Held, con viva inquietudine a O’Paddy, che era diventato leggermente pallido.
– O dei Biagiassi?... – rispose questi. – Gli uni non sono migliori degli altri e vi raccomando di non fare uso delle armi se non ci assalgono. Nascondiamoci in mezzo a queste macchie di bambù e lasciamoli passare, se vengono da queste parti.
S’affrettarono a nascondersi fra le canne giganti, dopo d’aver fatto scomparire, con grande cura, le tracce della loro fermata.
Le grida andavano avvicinandosi rapidamente, come se quegli uomini corressero attraverso la grande foresta. Di tratto in tratto si udivano a urlare:
– Batang’orang!... Batang’orang!...
– Sono Dayaki!... – esclamò O’Paddy, con accento furioso. – Che il diavolo se li porti via quei tagliatori di teste.
– Come lo sapete? – chiese Held.
– Conosco un po’ la loro lingua.
– Cosa significa questo batang-orang?
– Schiavo.
– Che inseguano qualche schiavo?
– Tacete!... Udite!...
– Amok!... Amok!... – urlavano allora quelle voci, che erano già assai vicine.
– Comprendo – disse O’Paddy. – Inseguono uno schiavo che si è ubbriacato d’oppio per compiere qualche vendetta.
– Eccoli!... – esclamò il soldato. – Tuoni!... Cosa succede?...
Un uomo era uscito dalla foresta e s’era slanciato attraverso alla radura che si estendeva dinanzi al macchione di bambù.
Era un individuo di statura alta, svelto, colla pelle foschissima, i lineamenti fini, regolari, rassomiglianti a quelli degli indù, e coperto da un sottanino semistracciato. Aveva i capelli in disordine, gli occhi strambuzzati, i lineamenti sconvolti, la bocca coperta da una spuma sanguigna e nella destra stringeva una di quelle pesanti sciabole intarsiate con pezzi d’ottone, strette alla base, larghe ed in forma di doccia verso la punta e col manico di corno fantasticamente intagliato, chiamate dai dayaki parangs-ilang.
Con quell’arma doveva aver ucciso qualcuno, poichè l’acciaio era lordo di sangue.
Quasi subito comparvero dieci o dodici uomini, ma erano di diversa statura e di diverso colore. Erano veri Dayaki, gli uomini più belli della razza indo-malese, bene conformati, di statura alta e robustissima, di carnagione giallo-chiara che li avvicina più alla razza mongolica che a quella malesiaca, colle labbra sottili, gli occhi grandi, il viso pieno, i capelli lunghi e neri.
Avevano le membra adorne di anelli d’ottone, il collo di file di denti umani e di perle di Venezia, il ciawat, specie di gonnellino di cotone azzurro, attorno ai fianchi, ed il capo coperto o da fazzoletti o da cortecce d’albero intagliate come piume.
Non avevano armi, ma tenevano invece in mano certe forche di bambù, i cui branchi erano coperti internamente da rami di dieri, un arbusto spinoso che produce terribili ferite e così dolorose che nessun uomo vi può resistere.
Quei dieci o dodici uomini in quattro slanci furono addosso al fuggitivo, circondandolo e urlando a piena voce:
– Amok!... Amok!...
L’uomo ubriaco d’oppio si scagliò come un forsennato contro quegli assalitori, abbattendo col suo formidabile sciabolone due o tre di quelle forche, ma una gli piombò addosso per di dietro, fra il collo e le spalle, con grande violenza.
Lo sciagurato, sentendosi lacerare il collo da quelle terribili punte, s’arrestò di colpo, emettendo un urlo straziante e lasciò cadere l’arma. Lo spasimo che provava doveva essere tremendo, poichè i suoi occhi esprimevano un’angoscia inesprimibile ed il suo furore si era calmato d’un solo tratto.
I dayaki, vistolo impotente, lo legarono solidamente, poi tagliarono i branchi, lo liberarono dalle spine, che gli avevano inondato il collo di sangue e lo trascinarono via, senza dubbio verso il loro villaggio.
– Ma cosa aveva fatto quell’uomo? – chiese Amely rabbrividendo. – Era impazzito?...
– Poco meno, signorina – disse O’Paddy. – Si tratta dell’amok.
– Non vi comprendo.
– Vi dirò allora che in tutte le isole della Sonda, quando si vuole vendicare di qualcuno o commettere un delitto, l’assassino ricorre all’oppio. Con pochi grani di quella pericolosa materia si esalta, diventa quasi pazzo, ed allora viene preso da un desiderio irrefrenabile di uccidere.
«La prima vittima è l’offensore, ma non si arresta a quella. Versato il primo sangue, ne esige dell’altro, e allora si scaglia contro tutte le persone che trova sul suo passaggio. Uccide uomini, donne, bambini, e continua la strage finchè non viene preso.
Quando in una via si ode a risuonare il grido di Amok!... Amok!... tutti fuggono. Solamente quelli che hanno la bandhill, ossia quella forca spinosa, scendono nella via per inseguire l’assassino.
La bandhill è un arnese che serve ottimamente, poichè quei furiosi non possono resistere alle centinaia di punte che straziano le loro carni e diventano docili come cagnolini. Voi l’avete veduto poco fa.
– Ma chi sarà quel disgraziato che hanno preso?
– Suppongo che sia uno schiavo di quei dayaki. A giudicarlo dalla sua pelle fuligginosa, lo crederei un biagiasso od un alfurasso, popoli che vivono in questa regione. Probabilmente, dopo di essersi ubbriacato d’oppio, avrà sgozzato il suo padrone.
– Lo uccideranno?...
– Lo decapiteranno e poi lo mangeranno.
– I Dayaki?...
– Sì, signorina; sono antropofagi.
– Allora corriamo il pericolo di andare a tenere compagnia a quel povero schiavo?
– Sì, ma... fulmini di Giove!...
– Che c’è? – chiese Held.
– Ancora le grida.
– Che lo schiavo sia fuggito?...
– Non lo credo, ma stiamo in guardia. I Dayaki hanno delle frecce intinte nel succo velenosissimo dell’upas, e voi saprete che non si guarisce quando si è toccati.
Le grida si avvicinavano ancora, ma pareva che le persone che le emettevano avessero preso una direzione nuova, poichè echeggiavano dietro al macchione.
– Che diano la caccia a qualcuno? – si chiese O’Paddy, che da qualche istante pareva in preda ad una vera ansietà.
– Ma a chi? – chiesero Held e il marinaio.
– Non lo so, ma... Aspettatemi qui; vado a vedere.
– Vi accompagno – disse il siciliano.
– È inutile.
– Sono un buon tiratore, capitano.
– Preferisco andare solo.
Ad un tratto impallidì ed una sorda imprecazione gli irruppe dalle labbra. Pareva smarrito, spaventato.
– Ma cosa avete?... – chiese l’olandese. – Siamo armati e decisi a tutto.
– Temo che ci piombino addosso – disse O’Paddy, con imbarazzo. – Rimanete... vado a vedere.
Poi, senza attendere risposta, si slanciò attraverso ai bambù, mormorando con voce strozzata:
– È il suo grido!... Mille fulmini!... Lo decapiteranno come un babirussa e manderanno all’aria il mio milione!...
– Che la paura lo abbia fatto impazzire?... – disse il soldato, vedendolo allontanarsi a rompicollo.
– O che succeda qualche cosa di grave che ci vuole nascondere? – disse l’olandese.
– E quale, signor Held? – chiese il soldato.
– Non lo so, ma quell’uomo mi pareva confuso.
– Che abbia paura dei dayaki? – domandò Amely.
– Lui!... Non è uomo da spaventarsi – rispose l’olandese.
– Signor Held – disse il siciliano. – Mi ritornano i sospetti ed io lo seguo. Sono curioso di sapere dove va e che cosa succede.
Armò risolutamente la carabina e si slanciò dietro le tracce dell’irlandese. Questi era già scomparso in mezzo ai bambù, ma aveva tracciato come un sentiero attraverso a quelle alte canne e poi il siciliano aveva le gambe lunghe.
Dopo pochi minuti s’accorse di averlo a breve distanza... Udiva le canne rompersi violentemente e vedeva le cime piegarsi a destra ed a sinistra sotto l’urto dell’irlandese.
– Non mi sfugge più – mormorò il bravo soldato. – Il cuore mi dice che sto per sorprendere qualche cosa di grave.
Rallentò la corsa e si abbassò per tema di venire scorto.
Le grida continuavano, appressandosi alla grande macchia. Pareva che molti uomini inseguissero qualcuno.
Ad un tratto echeggiò uno sparo seguìto da spaventevoli vociferazioni. Il soldato s’arrestò.
– Tuoni!... – esclamò. – Chi ha fatto fuoco?... O’Paddy?... Ma no, lo sparo ha echeggiato troppo lontano!... Che i dayaki inseguano qualche uomo della nostra razza?
Stava per riprendere la corsa, quando udì a gridare:
– Aier-Raja!... Da questa parte!...
– Tuoni!... – esclamò il soldato, impallidendo. – La voce di O’Paddy!... Aier-Raja!... Il malese traditore qui!... Cosa vuol dire ciò?... E O’Paddy lo chiama invece di lasciarlo accoppare come un rettile velenoso?... Ahi!... I miei sospetti!...
Si slanciò innanzi cogli occhi in fiamme, stringendo furiosamente l’arma. Aveva cominciato a capire il tradimento che O’Paddy ordiva!...
Per la seconda volta udì l’irlandese a gridare:
– Aier-Raja, per di qua!... Affrettati.
In dieci salti il soldato giunse presso il margine della macchia, a cinquanta passi da O’Paddy.
In mezzo ad un terreno scoperto, intersecato da parecchi torrentelli dalle acque nere e cinto tutto all’intorno da foreste, correva un uomo semi-nudo, inseguito da trenta o quaranta dayaki armati di parang, di kriss e di cerbottane, colle quali lanciavano di tratto in tratto delle frecce che dovevano essere tinte nel succo del velenosissimo upas.
Un solo sguardo bastò al soldato per riconoscere quel fuggitivo che era armato di un fucile.
– Il malese!... – esclamò coi denti stretti.
Alzò la carabina mirando il traditore, ma s’arrestò vedendo O’Paddy abbandonare precipitosamente i bambù e correre incontro al fuggiasco, dicendogli:
– Presto, nasconditi, o se Held ti vede, siamo perduti!...
Il siciliano emise un vero ruggito; ormai aveva compreso tutto, fin troppo.
O’Paddy aveva alzato il fucile e aveva fatto fuoco sui Dayaki, abbattendo il più vicino. Quasi nel medesimo istante echeggiò una seconda detonazione.
L’irlandese cadde, portandosi una mano al capo, ma si risollevò quasi subito, gridando:
– Traditore!...
Il soldato era comparso sull’orlo della macchia e teneva in mano la carabina ancora fumante.
Si slanciò innanzi per precipitarsi sul ferito e finirlo colla scure, ma l’irlandese, pur perdendo sangue dal viso, si era dato a precipitosa fuga, scomparendo sotto la vicina foresta. Il malese lo aveva seguito correndo come un cervo.
– Vi ucciderò più tardi!... – urlò il siciliano.
Poi rientrò nella macchia, dirigendosi verso il luogo ove si tenevano celati Held ed i suoi protetti.
– Preparate le armi – disse, quando fu presso a loro.
– Cosa è avvenuto? – chiese Held.
– I Dayachi c’inseguono.
– Ma dov’è O’Paddy?
– È fuggito! Maledizione! Ma l’ho ferito.
– Chi?... O’Paddy... – esclamarono l’olandese, Amely e Dik con vivo stupore.
– Sì! Egli ci tradiva! Aier-Raja lo aspettava! Ecco i Dayachi! Attenti alle frecce!