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156 | emilio salgari |
dormono in quella strana posizione, ma si dubita che ciò possa essere vero.
Essendo già sorto il sole, tutti rinunciarono a dormire l’ultimo quarto, per preparare quella colazione che prometteva un arrosto appetitoso.
Il soldato e O’Paddy, servendosi dei loro coltelli, scuoiarono l’animale, scelsero uno dei migliori pezzi e lo misero ad arrostire infilzato nella bacchetta d’una carabina, che era d’acciaio.
Non avendo che pochi biscotti, si misero subito in cerca del pane. Vi erano molti alberi sagù, che nel loro interno contengono una specie di farina non inferiore a quella che si ricava dal grano, ma richiedendo quell’estrazione un tempo molto lungo e degli arnesi che non possedevano, si rivolsero agli artocarpus incisa, chiamati anche alberi del pane e dai malesi támul, piante maestose che producono delle frutta grosse come una testa di bambino, rugose esternamente, ma piene d’una polpa giallognola, che si taglia a fette e che si mette ad arrostire sui carboni e che ha il sapore di certe specie di zucche, ma anche del fondo dei carciofi.
Mancava l’acqua, non avendo trovato uno stagno, nè un ruscello in quella parte della foresta, nè una nepenthes distillatoria, ma O’Paddy non si trovò per questo imbarazzato.
Aveva notata una specie di liana ramosissima, che produceva delle frutta grosse poco più delle noci. Era l’aier, pianta molto comune nelle isole della Sonda orientale, specialmente nelle Molucche. Fece su quei rami molte incisioni e si vide tosto colare un vero zampillo d’acqua limpida e fresca.
– A colazione – disse allora l’irlandese. – Non ci manca più nulla.
Pochi minuti dopo si sedevano dinanzi all’arrosto che esalava un profumo squisito.