I naufragatori dell'Oregon/16. Gli elefanti selvaggi
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CAPITOLO XVI.
Gli elefanti selvaggi.
La foresta non cambiava. Era sempre egualmente fitta, era un caos di vegetali d’ogni forma e dimensioni, gli uni addossati agli altri, amalgamati confusamente, di ammassi di foglie giganti, le une piumate, le altre lunghissime, dritte e larghe, di arrampicanti che correvano in tutte le direzioni, di rami che s’intrecciavano in mille guise, in alto e abbasso e di canne di dimensioni enormi che crescevano ritte od oblique a seconda dello spazio libero che trovavano.
I grandissimi tek, alti cinquanta e perfino settanta metri, dal legno duro come il ferro, che mai imputridisce anche immerso nell’acqua, crescevano accanto ai preziosi alberi della canfora; le piante di noci moscate dall’acuto profumo s’alzavano a fianco degli alberi che dànno la gomma stirace; quelle del pepe, che ormai mostravano i loro grappoli contenenti gli aromatici granelli, s’arrampicavano attorno agli alberi che producono i chiodi di garofano, i cui fiori, disposti a mazzetti, esalavano già deliziosi profumi; i preziosissimi belzoini intrecciavano i loro rami cogli alberi che producono la polvere di sandalo, così ricercata pel suo soave odore; gli arecche colle foglie immense dei banani, o dei betel, o dei cavoli palmisti, o dei cedri, o dei tamarindi, o degli artocarpi, o dei rotangs, o dei manghi, o dei pamplemussi, o dei melogranati carichi di frutta enormi.
I naufraghi avevano molto da fare per abbattere una parte di quegli ostacoli che li rinserravano da tutte le parti e dovevano faticare non molto a mantenere la direzione del sud. Dik non doveva staccare gli occhi un solo istante dalla bussoletta che gli era stata affidata.
Fortunatamente di tratto in tratto trovavano dei sentieri aperti dai grossi animali, dai brutali rinoceronti e dagli elefanti, oppure dai tapiri, i quali, avendo l’abitudine di percorrere sempre la medesima via per recarsi dalle loro tane alla palude più vicina, finiscono coll’aprire delle vere stradicciuole.
Di quando in quando si incontravano anche dei fiumicelli e degli stagni, ma tutti o quasi avevano le acque nere come se fossero d’inchiostro. Questi corsi e questi bacini di aspetto lugubre sono numerosi nella grande isola del Borneo, e quantunque siano stati studiati, non si è mai potuto sapere con certezza la vera causa di quella tinta delle acque. È probabile però che si deva a certa specie di foglie che vi marciscono dentro in grande quantità.
Verso le dieci del mattino, dopo aver percorso una mezza dozzina di chilometri, giungevano in una piccola radura dove crescevano dei fiori di dimensioni così enormi, da strappare grida di meraviglia ad Amely ed al piccolo Dik.
Erano le rafflesie, chiamate dai malesi crubul, ossia grandi fiori. Sono i più grandi che si conoscano, avendo una circonferenza di tre metri ed un peso di sette od otto chilogrammi.
Queste piante, scoperte per la prima volta dall’italiano Odoardo Beccari nel 1778, sulle falde del vulcano Singaleg, nella provincia di Padang, a Sumatra, producono una foglia sola, gigantesca, alta oltre dieci metri e larga due o tre, poi dal centro sorge lo smisurato fiore di tinta rossastra, ma punteggiato in bianco.
Non hanno profumo delizioso quei fiori, anzi tutt’altro, poichè tramandano un odore sgradevole come quello che esalano i pesci putrefatti.
– Ci vorrebbero dei giganti per portare all’occhiello simili colossi – disse il soldato.
– Ecco dei fiori che i giardinieri europei pagherebbero ben cari, se potessero coltivarli – disse Held.
– Non si potrebbero acclimatizzare, signor Held? – chiese Amely.
– Non nascono che qui, ragazza mia.
– Guardate, signor Held – disse Dik. – Ne vedo anche uno che è tutto nero.
– Una rarità – rispose l’olandese. – Se i nostri compatrioti lo potessero trasportare a Giava od a Sumatra, sarebbero capaci di rinnovare le pazzie del famoso tulipano nero.
– Che tulipano nero? – chiesero il soldato e Dik.
– Quello del calzolaio.
– Ne sappiamo meno di prima – disse Amely.
– Allora vi racconterò la storia di quel fiore, finchè riposiamo un po’. Avrete già udito raccontare che un tempo gli olandesi ebbero una vera frenesia pei tulipani, frenesia che perdura un po’ anche oggidì. Cercavano di ottenere i colori più disparati e consumavano dei veri patrimoni nella coltivazione di quei fiori.
Giunsero al punto che nel secolo XVII i tulipani si quotavano alla borsa d’Haerlem! Certi bulbi salivano a prezzi favolosi: il tulipano chiamato ammiraglio liesheus si pagava 4000 fiorini; il semper augustus 2000. Per uno di questi ultimi si offrirono perfino, al fortunato possessore, 4600 fiorini, più una carrozza e due cavalli, e per un altro dodici iugeri di terra!...
– Che pazzie!... – esclamò il soldato. – Avevano perduto il senno?
– Un’altra collezione, in una vendita pubblica, si pagò 9000 fiorini, ed un francese di Lilla per un tulipano cedette una birreria in attività, che era stata stimata 30.000 lire, e quel fiore fu chiamato, a ricordo di quello strano contratto, tulipano birreria.
– Avrebbe fatto meglio, quel tale, a bere le sue botti di birra.
– Un giorno – continuò il signor Held – alcuni coltivatori di tulipani scoprirono che un ciabattino di Haerlem possedeva un tulipano nero. Gli offrirono 200 fiorini, poi 400, poi 1000, poi 1500.
«Il ciabattino, stupito, attonito, vedendosi piovere addosso tanta fortuna, lo cedette. Indovinate quale fu la sua sorpresa vedendo quegli uomini prendere il bulbo, tagliarlo a pezzetti e poi schiacciarli.
Quei tulipanimani si erano riuniti in società ed avendo anche loro un tulipano nero, avevano distrutto quello del calzolaio per possederlo loro soli.
Quando poi seppe che glielo avrebbero pagato anche 10.000 fiorini, il povero uomo si accorò tanto che morì di crepacuore pochi giorni dopo.
– Sono vere pazzie, signor Held – disse Landò. – Tuoni!... Se questo fiore non pesasse tanto e fosse un po’ più piccolo, lo porterei ai vostri compatrioti di Pontianak.
– Si appassirebbe presto, amico mio.
– Lo credo e farei una fatica inutile. In marcia, signori: Semmeridan sarà ancora lontana, ma..., non sentite questo odore di selvatico, signor Held?...
– Sì – rispose l’olandese, dopo d’aver fiutata l’aria. – Brutto segno.
– Perchè, signor Held? – chiese Amely.
– Ciò indica che per di qui è passata una tigre.
– Tuoni! – esclamò il soldato, girando attorno un rapido sguardo. – Che pericoloso vicino!...
– Armate i fucili e procediamo con precauzione. Amely e Dik, tenetevi in mezzo a noi.
– Il mio fucile è pronto – disse Dik.
Il soldato, armata la carabina, si mise alla testa del drappello muovendo i rami con precauzione e guardandosi attentamente intorno, e l’olandese in coda, sorvegliando i cespugli e le macchie di bambù.
Avevano percorso trecento passi, quando il siciliano si arrestò bruscamente. Erano giunti sul margine d’una piantagione di bambù, di quelli chiamati hauer-tgiutgiuk, non molti alti, muniti di foglie strette, ma armate di spine ricurve, e mescolati a macchioni di bambù tulda, canne immense queste, grosse trenta o quaranta centimetri ed alte perfino diciotto metri. Crescono con tale rapidità che in un solo mese raggiungono quelle incredibili altezze.
– Signor Held! – aveva esclamato il soldato. – Stiamo in guardia!...
– Cosa avete veduto? – chiese l’olandese, con inquietudine.
– Quel macchione di canne enormi nasconde degli animali. Ho veduto le cime a muoversi.
– Che la tigre sia imboscata là in mezzo?... Fermiamoci presso questi alberi.
– Signor Held! – gridò Dik. – Guardate cosa si alza fra quelle canne!...
L’olandese alzò lo sguardo verso la direzione indicata e vide sorgere, fra i bambù tulda, una specie di braccio lungo e grosso, d’un colore grigio oscuro.
– Una proboscide! – esclamò.
– D’elefante? – chiese Amely.
– Sì, là in mezzo vi sono degli elefanti selvatici che pascolano.
– Oh, come sarei contento di vederli!... – esclamò il piccolo Dik.
– Ed io niente affatto, ragazzo mio.
– Sono pericolosi, signor Held?
– Talvolta sì.
D’improvviso, a breve distanza da loro, risuonò un fischio potente come un niff!... niff!... assai rumoroso. L’olandese trasalì, poi impallidì.
– Abbiamo un vicino più pericoloso degli elefanti – diss’egli. – Presto, mettiamoci fuori di portata del suo corno. Forse assisteremo fra breve ad un combattimento omerico.
Dietro di loro s’alzava un giovane albero della canfora, alto sette od otto metri, ma i primi rami erano bassi. L’olandese afferrò il piccolo Dik e lo alzò dicendogli:
– Presto, aggrappati ai rami e issati sul tronco.
Il ragazzo, che doveva essere famigliarizzato colla ginnastica, in quattro slanci si trovò al sicuro. Il soldato lo seguì, poi, allungando le robuste braccia, tirò su Amely; quindi, con un’agilità sorprendente per la sua età, salì l’olandese.
S’erano appena accomodati fra i rami, quando a trenta passi da loro videro uscire dalla foresta due animali di dimensioni enormi, i quali s’avanzavano con un’andatura brusca, ma contemporaneamente pesante.
Erano lunghi più di tre metri, alti uno e mezzo, di forme massicce. Avevano la pelle rugosa, irta di strane protuberanze, grossissima a giudicarla a colpo d’occhio, di colore oscuro e coperta di radi peli; la testa quadrangolare, col frontale arcuato e concavo, le orecchie poco dilatate, gli occhi piccoli, l’estremità del naso armata da due corna nere messe l’una dietro all’altra, la prima lunga oltre mezzo metro, aguzza, solida e la seconda breve, rudimentale.
Le loro gambe erano tozze, sprovviste d’artigli, rugose al pari del dorso e coperte d’uno strato di fango disseccato.
L’olandese li aveva subito riconosciuti. Erano due rinoceronti della specie che s’incontra nell’isola di Sumatra, animali formidabili, che popolano anche le foreste del Borneo, intrattabili, stupidi, feroci, che montano in furore appena scorgono un avversario qualunque. Senza dubbio s’erano accorti della presenza degli elefanti e muovevano verso quei colossi per dare battaglia, disputandosi, questi giganti, il regno delle selve.
Giunti sull’orlo della grande macchia di bambù, i due rinoceronti s’erano arrestati fiutando l’aria ed emettendo i loro potenti niff!... niff!...
Quasi subito si vide i bambù tulda aprirsi impetuosamente e tosto apparire una coppia d’elefanti, un vecchio maschio ed una femmina. Erano due merghee selvatici, animali che si trovano solamente nel continente asiatico, nelle isole di Ceylan, di Giava, di Sumatra, Borneo e Celebes.
Sono differenti da quelli africani, più grandi, più sviluppati; hanno gli orecchi però più piccoli di un buon terzo, le zanne meno grosse e meno pesanti e la fronte concava invece d’averla convessa. Differiscono anche nei piedi, poichè quelli africani contano tre zoccoli nelle gambe posteriori, mentre gli asiatici ne hanno invece quattro. Anche le femmine sono diverse, poichè quelle di razza merghee sono quasi sprovviste di zanne, o se le hanno, sono così piccole che appena si vedono.
Erano entrambi di taglia elevata, gigantesca, essendo più alti dei coomarehah, altra specie che vive nel continente asiatico, ma più robusta, più massiccia e più pregiata. Avevano però la proboscide meno grossa di questi ultimi, le gambe più alte, ma dovevano essere più agili e perciò meglio adatti a sostenere l’assalto dei rinoceronti, i quali sono vivacissimi malgrado le loro forme tozze e pesanti.
Il maschio, accortosi senza dubbio della presenza dei due nemici, con un colpo di proboscide invitò la compagna a rientrare nel macchione, ben comprendendo che non avrebbe potuto resistere all’attacco, essendo sprovvista di zanne, poi s’inoltrò maestosamente attraverso ai bambù, emettendo un barrito così potente, da far rintronare la vicina foresta e da far zittire di un colpo tutti i pappagalli che cicalavano sui rami degli alberi.
Udendo quel barrito, che suonava come una sfida, i due rinoceronti erano balzati rapidamente fra le canne, agitando convulsivamente le loro code larghe ma brevi, poi si divisero.
Il merghee, alto come era, doveva averli veduti. Con un potente colpo di tromba abbattè le canne che lo circondavano e che potevano nascondere i suoi nemici, poi si piantò sulle zampe, colla testa bassa, le lunghe zanne tese innanzi e lanciò un secondo e più formidabile barrito.
– Attenti – disse Held. – Assisteremo ad una lotta tremenda!...