I naufragatori dell'Oregon/15. Il mias pappan

15. Il mias pappan

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CAPITOLO XV.

Il “mias pappan„.


Stabilito l’accampamento ai piedi di quel colosso, che sorgeva in una piccola radura sgombra di vegetali, della superficie di un centinaio di metri quadrati, i naufraghi s’affrettarono a fare raccolta di rami secchi per accendere un grande fuoco, unico mezzo per tener lontane le belve feroci, le quali non dovevano mancare in quella sterminata foresta.

Avendo percorso più di dodici miglia attraverso a quel caos di vegetali, ormai erano certi di non poter più attirare l’attenzione dei pirati, i quali forse non avevano osato scostarsi dalla spiaggia.

Cenarono colle provviste che avevano portate con loro unendovi le frutta raccolte durante la marcia attraverso le foreste, improvvisarono dei freschi giacigli con delle grandi foglie d’arecche, e l’olandese, Amely e Dik si stesero, mentre il soldato montava il primo quarto di guardia.

– Se udite qualche rumore sospetto, chiamatemi senza indugio – disse l’olandese. – In quest’isola vi sono degli animali pericolosi e dei selvaggi più feroci delle fiere.

– Non dubitate – rispose il siciliano.

– Aprite bene gli occhi.

– Nessuno si avvicinerà senza il mio permesso. Buona notte a tutti.

Il soldato, accesa la sua pipa per meglio resistere al sonno che poteva sorprenderlo, dopo una giornata così faticosa, riattizzò il fuoco che mandava bagliori sanguigni sulle piante circostanti e si appoggiò contro il tronco dell’albero, tenendo il fucile fra le ginocchia e gli occhi bene aperti.

Un silenzio profondo regnava nella foresta, appena rotto dal lieve stormire delle più alte fronde scosse da un lieve venticello che soffiava dalla costa. Pareva che quella parte della foresta fosse stata abbandonata da tutti gli animali. [p. 124 modifica]

Il siciliano però, niente affatto rassicurato da quella calma, non cessava dal girare gli occhi da tutte le parti, scrutando il cupo fogliame dei vicini alberi, anzi di tratto in tratto si alzava facendo il giro attorno all’albero gigante.

Ad un tratto un urlo rauco, potente, echeggiò sotto le piante, ad una grande distanza. Parve che quello fosse il segnale di un concerto, poichè poco dopo echeggiarono in tutte le direzioni grida strane, fischi, sibili, guaiti, muggiti, come se là sotto quei vegetali fosse stato collocato un serraglio di belve.

Si udivano a muoversi le foglie, spezzarsi i rami, un correre precipitato che si perdeva in lontananza, poi dei tonfi come se dei grossi animali s’immergessero entro degli stagni.

Nessuna fiera, appariva però entro il cerchio luminoso proiettato dal fuoco che ardeva accanto all’albero.

– Per le centomila corna di cervo!... – esclamava il bravo siciliano. – Preferirei trovarmi in mare con un uragano addosso, piuttosto che in mezzo a questa boscaglia. Meglio i tuoni ed i muggiti delle onde che questo concerto diabolico che fa venire la pelle d’oca.

Stava per riattizzare il fuoco, quando un oggetto grosso, pesante, irto di lunghe spine, cadde dinanzi a lui.

– Ohe!... Grandina!... – esclamò.

Alzò gli occhi verso l’albero gigante, ma era tanto alto da non poter distinguere il fogliame. Si abbassò per vedere cos’era quell’oggetto e cercò di afferrarlo, ma le spine erano così acute che gli entrarono nelle carni.

– Ci vorrebbe una tenaglia per prenderlo – mormorò. – Che sia un frutto di quel colosso?... Ma se mi piombava addosso mi fracassava il cranio. Ah!... Lo conosco: un durion. Ecco un delizioso boccone per chi sa vincere l’odore ripugnante che esala. Domani lo regalerò alla signorina Amely.

Si rialzò per avvicinarsi al fuoco, ma arretrò subito vedendo precipitare al suolo un secondo frutto.

– Diavolo!... – esclamò. – Come va questa faccenda! Queste frutta non sono ancora ben mature, a giudicarle dallo stato della corteccia che non è screpolata e cadono di già?...

Tornò a guardare sull’albero, ma, come si disse, la luce del falò non giungeva sino alla massa del fogliame. Gli sembrò però di udire lassù come un soffio rauco, che nulla aveva d’umano. [p. 125 modifica]

– Che vi sia lassù qualche grosso uccello? – si chiese il siciliano, che cominciava a diventare inquieto. – Se il signor Held non dormisse così tranquillamente, lo sveglierei per sapere qualche cosa.

Un terzo frutto cadde a terra; ma con tanta forza da rimbalzare alto e da spaccarsi.

– Tuoni di Palermo!... – esclamò il soldato. – Cosa succede lassù?... Che vi...

Non potè finire: la frase gli si gelò sulle labbra e rimase immobile, come pietrificato, cogli occhi sbarrati.

Un essere mostruoso, spaventevole, scendeva lungo il tronco dell’albero, girandovi attorno con sorprendente agilità e curvando il capo per meglio osservare il soldato, il quale pareva paralizzato da un terrore impossibile a descriversi. Non era un serpente, nè un volatile, nè un leopardo, ma un scimmione alto quanto un uomo di media statura, col corpo tozzo, il petto enormemente sviluppato, le spalle potenti e larghissime, il dorso muscoloso, le braccia e le gambe grosse e nodose come tronchi d’albero, le une molto più lunghe delle altre, ma queste e quelle armate di unghie corte e ricurve.

La testa di quell’animale era grossa, la sua faccia dilatata, cogli zigomi rientranti, coperta di rughe profonde; la sua bocca era grande, armata di lunghi denti candidissimi e contratta ad un sogghigno che faceva gelare il sangue. Quel viso aveva, in tutto l’insieme, un’espressione d’orribile ferocia. Il suo corpo, che doveva possedere una forza formidabile, erculea, era coperto da un pelame lungo, disordinato e rossastro.

Quel mostro, che forse aveva il suo covo fra i rami di quell’albero immenso, continuava a scendere lungo il tronco, girando sempre intorno, servendosi delle robuste mani e dei suoi piedi, che avevano dimensioni straordinarie.

I suoi occhi neri, vivaci, che mandavano cupi bagliori, non fissavano più il marinaio: guardavano ostinatamente la giovane Amely, che dormiva placidamente ai piedi del durion, ed il giovane Dik.

Il siciliano, terrorizzato, sapendo con quale terribile avversario aveva da fare, lo guardava con occhi smarriti, senza osare alzar il fucile. Aveva riconosciuto in quel scimmione il mias pappan, l’essere più formidabile che vive nella grande isola del Borneo, più pericoloso delle tigri e dei coccodrilli, più robusto dei serpenti pitoni, più brutale dei rinoceronti. [p. 126 modifica]

Il mias, vistosi presso terra, guardò giù un’ultima volta emettendo un rauco brontolìo, poi si lasciò cadere e s’avvicinò al giaciglio occupato da Amely e Dik, allungando le villose braccia.

Un momento ancora e l’uno e l’altra erano perduti, ma il soldato dinanzi al supremo pericolo aveva riacquistata la sua audacia. Balzò rapidamente innanzi urlando:

– Signor Held!...

Il mias udendo quel grido s’arrestò, dardeggiando sul soldato due occhi iniettati di sangue, poi a sua volta fece un passo verso quell’avversario rizzandosi quanto era lungo e mostrando le potenti mani e gli acuti denti.

Il siciliano non esitò più: puntò rapidamente il fucile e fece fuoco a tre soli passi di distanza.

L’uomo dei boschi, quantunque colpito in pieno petto ed a bruciapelo, non cadde. Emise un rauco urlo, che aveva qualche cosa d’umano, i suoi occhi si dilatarono spaventevolmente e si precipitò addosso all’avversario tentando di afferrarlo.

Questi, più pronto del lampo, spinse innanzi la carabina come per farlo retrocedere, cacciandogliela fra le mascelle aperte. Sembrò che avesse introdotta una pagliuzza: quei denti, più solidi dell’acciaio meglio temperato, rinchiusi con una potenza incalcolabile, schiacciarono la canna come se fosse stata di piombo.

Landò emise un grido disperato: si vedeva ormai perduto, avendo lasciato la scure presso l’albero.

A quel secondo grido ne rispose un altro:

– Eccomi Lando!...

Held era balzato in piedi e si precipitava in suo soccorso, mentre Amely metteva grida d’orrore.

Con un salto si gettò fra il siciliano ed il mias e scaricò la sua arma.

Questa volta l’uomo dei boschi cadde, ma sollevatosi con uno sforzo disperato, si mise a fuggire, galoppando come un quadrupede, salutato da altri due colpi di fucile sparatogli dietro da Amely e dal piccolo Dik.

Per alcuni istanti lo si udì rompere furiosamente i rami dei cespugli ed i rotang, poi il rumore cessò.

– È caduto – disse Dik, accorrendo coll’arma ancor fumante.

– Non fidiamoci – disse Held. – Quegli animali hanno un [p. 127 modifica] vigore prodigioso e resistono a parecchie palle. Forse si sarà nascosto su qualche albero.

– Ah!... Signor Held!... – esclamò il soldato. – Vi assicuro che non ho mai provato un’emozione così terribile, come quando mi sono trovato faccia a faccia con quel bestione!...

– Vi credo, poichè i mias sono in realtà gli esseri più formidabili della creazione, più da temersi delle tigri, quando si difendono.

– Ma sono robusti quegli scimmioni? – chiese Amely, che tremava ancora.

– La loro forza è tale che osano sfidare i coccodrilli e perfino i serpenti pitoni. Ordinariamente sono esseri malinconici e non cercano brighe cogli uomini, nè cogli animali.

Si tengono celati nelle più folte foreste, in cima agli alberi, vivendo di frutta, di canne da zucchero selvatiche e qualche volta di radici, passando d’albero in albero con grande agilità. Qualche volta ne escono per saccheggiare le piantagioni e allora sono ridicoli a vederli camminare, non avendo l’abitudine di tenersi diritti.

Corrono come i quadrupedi, ma colla superficie del corpo ripiegata a circa quarantacinque gradi, avendo le braccia più lunghe delle gambe e colle dita ricurve indietro invece di adoperare le palme. Ma è un galoppo strano, quasi obliquo, muovendo contemporaneamente il braccio e la gamba destra o sinistra.

– E voi dite che non assalgono gli uomini?...

– No: se ne incontrano, s’accontentano di guardarli con una certa curiosità e se non sono molestati proseguono la loro strada. Certi solitari però sono d’umore intrattabile e qualche volta assalgono anche gli uomini.

– Sono assai temuti dagli indigeni questi mias?

– Basta parlare a loro dei mias pappan o utang o mias kassà, avendo questi scimmioni parecchi nomi, per vederli impallidire. Sono così robusti, che quando sono assaliti, con un colpo solo degli enormi loro piedi armati d’unghie corte ma ricurve, sventrano un uomo.

Quando i coccodrilli cercano di assalirli montano sul loro dorso e puntando un ginocchio sul collo, strappano di colpo la mascella a quei terribili sauriani.

Nemmeno i boa constrictor, che fra le loro spire possono soffocare un bue, riescono a vincere i mias, poichè questi con una stretta li schiacciano e quindi coi denti li fanno a brani.» [p. 128 modifica]

– È vero, signor Held, che sanno costruirsi delle capanne? – chiese il soldato.

– No, ma i Dayaki affermano che durante la stagione piovosa si costituiscono dei ripari con delle foglie d’arecche o di felci.

– E non si possono addomesticare?

– Sì, quando vengono presi giovani e dànno prova d’una rara intelligenza e s’abituano facilmente alla loro prigionia.

– Che fosse un solitario, quello che ci ha assaliti? – chiese Amely.

– È probabile – rispose Held – ed avrà cercato di rapire qualcuno di voi. Non è la prima volta che i mias rubano delle donne e anche dei fanciulli.

Basta, riprendete il vostro sonno: io terrò compagnia a Lando, quantunque ormai non vi sia più alcun pericolo. L’uomo dei boschi, se non è morto, avrà da fare a curare le sue ferite.

– Terminate il vostro quarto di riposo, signor Held – disse il soldato. – Datemi un altro fucile, poichè quel mias ha schiacciato la canna del mio come se fosse stata un bocchino da pipa, e dormite tranquillo. L’emozione è passata e non ho paura.

– Come volete, tanto più che domani conto di farvi fare una lunga marcia.

L’olandese, Amely e Dik tornarono a sdraiarsi sui loro giacigli ed il siciliano riprese il suo posto accanto al fuoco con un altro fucile.

Null’altro accadde durante il suo quarto di guardia. Gli parve di udire più volte il soffio potente ed il grugnito del feroce scimmione, ma non lo vide più ricomparire. A mezzanotte l’olandese lo surrogò e alle quattro Dik e Amely, che non volevano essere da meno degli uomini, fecero l’ultimo quarto che fu più tranquillo degli altri, avendo le fiere l’abitudine di rintanarsi all’appressarsi dell’alba.

Alle sei i naufraghi si radunarono a colazione: alcuni biscotti e le frutta del durion formarono la minuta.

Amely e Dik, non abituati a vincere lo sgradevole odore che tramandano quelle frutta, dapprima esitarono a lungo, ma si dichiararono ben soddisfatti quando se le misero in bocca.

Indubbiamente non vi sono frutta più squisite di quelle prodotte da quegli alberi giganti. Sono grosse come la testa d’un uomo, di forma sferica, od oblunga, colla buccia verde-gialliccia, reticolata, difesa da acutissime spine, che colle mani non si possono [p. 129 modifica] [p. 131 modifica] impunemente affrontare. Internamente sono divise in cinque segmenti, ognuno dei quali contiene dei grossi semi, avviluppati in una polpa bianca coperta da una pellicola.

Quella polpa esala un acuto odore d’aglio e di formaggio marcio e così sgradevole, che non sempre gli europei possono vincerlo; ma appena in bocca, si fonde come se fosse un gelato e riunisce i gusti delle frutta più deliziose, dei mangostani e perfino degli ananassi.

È una sostanza animale più che vegetale, e perfino i cani la ricercano avidamente. I malesi poi ne sono ghiottissimi, ma tali frutta non si possono conservare e si guastano presto.

Anche i semi sono eccellenti e arrostiti hanno il sapore delle castagne.

Alle sette, dopo di aver spenta la sete coll’acqua di alcune nepenthes, i naufraghi riprendevano la marcia attraverso all’interminabile foresta.