I naufragatori dell'Oregon/14. I serbatoi d'acqua aerei
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | 13. Tra le foreste del Borneo | 15. Il mias pappan | ► |
CAPITOLO XIV.
I serbatoi d’acqua aerei.
Fra gli alberi era comparso uno strano animale, il quale s’avanzava con precauzione, volgendo la testa a destra ed a sinistra, come se temesse di venire improvvisamente assalito.
Era lungo circa due metri, dalla punta del muso alla radice della coda, alto, col capo assai grosso, che terminava in una specie di proboscide che accorciava ed allungava rapidamente, cogli occhi piccoli e neri, le orecchie accartocciate, il collo lungo e le gambe robuste e terminanti in quattro dita munite di piccoli zoccoli.
La sua pelle, che pareva assai grossa, era di colore bruno cupo, ma a mezzo corpo era invece bianca e coperta di peli corti fitti. Si avrebbe detto che portava una fascia di tela candida, mentre anche le parti posteriori erano di colore oscuro.
– Un animale feroce? – chiese Dik, che si preparava a puntare il fucile.
– No, è un tapiro – rispose Held. – Un essere affatto inoffensivo.
– Buono a mangiarsi? – chiese il soldato.
– Ha una carne così coriacea che quella della tigre, in confronto, è quasi migliore.
– Ma è a portata di fucile, signor Held – disse Dik.
– Lascialo andare per la sua strada, fanciullo mio. Una detonazione potrebbe attirare l’attenzione dei pirati.
– È vero – disse Amely. – E poi per ora non abbiamo bisogno di viveri.
– Piuttosto d’acqua – aggiunse il soldato.
– Si potrebbe trovarne seguendo quell’animale – disse Held. – Sono certo che si dirige verso qualche palude, ma forse è assai lontana e ci farà perdere molto tempo.
– Sono anfibi quei tapiri?
– No, Amely, ma amano l’acqua e le piante acquatiche, le cui radici costituiscono il loro principale alimento.
– Si trovano solamente qui, quegli animali?
– Ve ne sono anche a Sumatra e nell’America del Sud, ma questi ultimi non portano la fascia bianca e sono anche più grandi. Gli uni però non valgono più degli altri e si cacciano solo per avere la pelle, la quale, essendo molto resistente, dagli indiani viene impiegata nella fabbricazione degli scudi e dagli europei pei mantici delle carrozze. In marcia, amici miei: siamo ancora troppo vicini alla costa.
– E cerchiamo dell’acqua, signor Held – disse Lando. – Il succo dell’arenga era delizioso, ma non mi ha interamente dissetato.
– Ne troveremo, giovanotto. Conosco certe piante che hanno dei veri serbatoi.
– Ancora delle piante?
– Sì, i nepenthes: avanti!...
Si rimisero animosamente in marcia attraverso all’infinita foresta, la quale ora diventava così fitta da rendere il passaggio assai malagevole ed ora si diradava permettendo al sole di giungere fino a terra.
Alcune scimmie scherzavano sulle cime più alte degli alberi, saccheggiando le frutta più deliziose. Erano per lo più le cosidette nasi-lunghi (nasalis larvatus), specie grossa che s’incontra solamente nel Borneo, dalla fisionomia ridicola, col naso lungo, grosso, a punta rigonfia e rossa, come quello dei discepoli di Bacco, ed il pelame oscuro. Le femmine però hanno il naso più corto.
Vedendo passare i viaggiatori, facevano smorfie ridicole e scagliavano dietro a loro frutta e rami d’albero ridendo poi a crepapelle.
Dik avrebbe voluto spaventarle con un colpo di fucile, ma Held non acconsentiva, temendo sempre di attirare l’attenzione dei pirati, i quali forse stavano allora cercandoli.
Si vedevano pure di quelle scimmie chiamate dai malesi bigit (semnopithecus maurus), assai agili, col mantello nero, la coda assai lunga, e dei macachi, scimmie arditissime, insolenti, col muso rigonfio, le orecchie piccole, il pelame oscuro, gli occhi vivaci ed intelligenti.
– Ecco delle scimmie che ho vedute anche in India – disse il siciliano – ed a migliaia.
– Sono molto comuni in quella grande penisola – rispose Held – ed anche molto più rispettate che qui. I Dayaki, quando possono prenderle, non si fanno scrupolo veruno a metterle arrosto, ma gl’indiani si guardano bene di molestarle.
– E perchè, signor Held? – chiese Dik.
– Perchè gli indiani scioccamente credono che nel loro corpo si celi l’anima degli uomini morti. Per questo non osano toccarle e guai anche all’Europeo che si permettesse di ucciderne una; lo farebbero a pezzi.
– E non abusano della protezione che godono? – chiese Amely.
– Fin troppo, fanciulla mia. Quasi sapessero che sono ritenuti come animali sacri, i macachi si permettono ogni specie di birbonate. Entrano nelle botteghe a drappelli e saccheggiano il meglio ed il buono che trovano; si cacciano nelle case e mettono tutto sottosopra e rompono quanto credono.
– E gl’indiani non li scacciano?
– Sì, colle buone maniere li mettono alla porta, ma quei bricconi sono ostinati e appena i padroni escono, tornano al saccheggio.
– E non potrebbero portarli nelle foreste?...
– Una volta dei negozianti bengalesi, arcistucchi di vedersi saccheggiati, ebbero l’idea di sbarazzare le loro borgate da quei ladroni. Ne catturarono parecchi e fattili salire in parecchi carri...
– Nei carri!... – esclamò il soldato, scoppiando in una risata. – Potevano metterli nelle carrozze o pagare a loro un biglietto ferroviario.
– Non avrebbero ottenuto miglior successo, poichè quei macachi, quando furono fatti scendere in mezzo ad un bosco lontano trenta chilometri, si misero a correre dietro ai carri e rientrarono tranquillamente nella borgata.
– Se li avessero presi a bastonate non sarebbero più mai ritornati. Oh!... Oh!... Ecco una boscaglia che ci farà sudare. Mi pare di entrare in un labirinto di reti.
– Avremo da lavorare gagliardamente di scure, Lando!
Entravano allora in una foresta di rotang (calamus). Quella specie di liane che appartengono alla famiglia delle palme, che vengono adoperate come cordami e che sono poste in commercio sotto il nome di canne d’India, s’intrecciano in tutti i modi, legando albero con albero con mille lacci e formando una vera rete gigantesca. Strisciano per terra, salgono fino sulle cime più alte degli alberi, discendono in spirali, descrivono curve capricciose, serpentine, circoli. Hanno un diametro di pochi centimetri, ma in lunghezza superano tutte le piante conosciute, poichè raggiungono perfino i trecento metri!... Fu però in mezzo a quell’ammasso di legami che Held trovò le sue piante che dovevano dissetarli.
– I nepenthes!... – esclamò. – Finalmente possiamo bere a sazietà.
– Ma dov’è quell’acqua? – chiese il soldato. – Io non vedo alcun stagno.
– Gli stagni o meglio i serbatoi stanno sopra le nostre teste – rispose l’olandese. – Guardate in aria!...
Il soldato, Amely e Dik, assai sorpresi, alzarono la testa e scorsero, intrecciati ai rotang, degli arbusti semiarrampicanti, le cui foglie avevano delle forme assai bizzarre. Parevano delle urne, verdi al di fuori, ma cogli orli d’una splendida tinta azzurrognola, semichiuse da una specie di coperchio.
Ve n’erano delle centinaia di quei vasi, alcuni posti molto in alto e ancora ritti, ma altri, che erano esposti ai raggi del sole, più bassi e semirovesciati.
– Cosa sono? – chiesero il soldato e Amely stupiti.
– Serbatoi della nepenthes distilatoria – rispose Held.
S’alzò sulla punta dei piedi e staccò delicatamente uno di quei vasi, porgendolo ad Amely.
– Alza il coperchio – diss’egli sorridendo.
La giovanetta cercò di piegare quella foglia che lo chiudeva, ma questa resistette.
– Rompilo – disse Held. – Il sole l’ha fatto abbassare e bisogna strapparlo.
Amely lo ruppe ed a suoi sguardi stupiti s’offrì, nell’interno di quella coppa, un liquido limpido, circa un mezzo litro.
– Puoi bere – disse Held. – È acqua: sarà un po’ calda a quest’ora, ma eccellente.
La giovinetta l’accostò alle labbra e bevette parecchi sorsi.
– Deliziosa! – esclamò il soldato, che aveva staccata una seconda coppa e che l’aveva vuotata avidamente. – Ci sono degli insetti che si sono affogati dentro, ma non bisogna essere troppo schifiltosi.
– Ma come si produce quest’acqua? – chiese Dik, che aveva già vuotato il suo vaso.
– Questa pianta, amici miei – disse Held – si può chiamare la vera provvidenza dei viaggiatori. Come vedete, cresce in piena foresta, accontentandosi d’un terreno grasso e lievemente umido.
Le sue foglie, che esteriormente sono ricoperte da una membrana liscia ed impermeabile, al calar del sole si raddrizzano, chiudono il coperchio e succhiando l’umido del suolo, riempionsi a poco a poco d’acqua. Si era creduto che quell’acqua provenisse dalla rugiada, ma invece deriva da una vera secrezione della foglia stessa.
Allo spuntare del sole tutti questi vasi, sotto il peso del liquido, si abbassano verso terra, si socchiudono e si sbarazzano d’una parte del loro contenuto, lasciandolo cadere o evaporare.
Appena però tramontato l’astro, ricominciano ad alzarsi, i coperchi cominciano a contrarsi, a poco a poco si rinchiudono e riprendono il misterioso assorbimento notturno.
Solamente le piante di quest’isola riescono a raccogliere, in una notte, perfino mezzo litro d’acqua, ma i nepenthes che crescono in India, nella Cocincina e nelle altre isole del mare della Sonda, ne contengono molto meno. È una pianta preziosissima, che è molto venerata, perchè anche quando infierisce la siccità, raccoglie sempre una certa quantità di liquido.
– Io non avevo mai creduto, signore, che vi fossero delle piante che fanno l’ufficio di fontane – disse il soldato. – Quale disgrazia non poter portare con noi alcuni di questi vasi!
– Si appassirebbero in poco tempo. Rimettiamoci in cammino e cerchiamo di trovare un ricovero per questa sera. Temo che dovremo passare una brutta notte, in mezzo a questa foresta.
Ripresero le mosse attraverso ai rotang, lavorando di scure a destra ed a manca per recidere quelle reti interminabili, inoltrandosi sempre più nella foresta.
Servendosi di una piccola bussola che il soldato teneva appesa alla catena dell’orologio, avevano già piegato verso il sud, sapendo che solamente in quella direzione avrebbero potuto trovare il Koti, il quale solca la grande isola dalla catena dei monti Cristallini, alle sponde orientali.
Verso le quattro anche quel bosco di rotang veniva attraversato, ma senza migliore fortuna, poichè si trovarono imprigionati fra un caos di altri vegetali. Vi erano milioni di splendide felci, delle specie chiamate dipteris horsfildii e matonia pectinata, dai fusti sottilissimi, ma alti dai sette agli otto metri e sostenenti delle immense foglie piumate; gruppi enormi di palme pinang, cariche di noci riunite in grappoli; di piper betel, erbacei arrampicanti che invadono tutti i terreni; di sunda matune, ossia alberi tristi, così chiamati dagli indigeni perchè i loro fiori non si aprono che di notte, e di arecche dalle foglie immense.
Numerosi erano pure gli alberi da frutta: qua e là sorgevano gruppi di manghi chiamati dai malesi bua-momplam, che dànno delle frutta grosse e succose, ma impregnate di un acuto sapore di resina; di buà-blaciang, che producono frutta puzzolenti, pure resinose, ma pregiate dai popoli indo-malesi; di pombo, che dànno delle arance di grossezza straordinaria, grandi come la testa di un bambino; di nepelium lapaceum, che portano delle frutta contenenti una polpa bianca, semitrasparente, succosa, dolce, ma un po’ acidula, rinchiusa in una buccia rossastra difesa da spine, e di banani squisitissimi, della miglior specie, i così detti pesang mas o banani d’oro.
Il soldato e l’olandese, pur cercando dei passaggi, non mancavano di raccogliere qua e là le frutta migliori, che mettevano in serbo pel pasto della sera.
Verso le sette, stanchi da quella lunga e faticosa marcia che durava dall’alba, i naufraghi s’arrestavano ai piedi d'un albero immenso, dal tronco grosso assai, sostenente un ammasso enorme di rami e foglie che torreggiava sopra tutte le altre piante.