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i naufragatori dell'«oregon» 125


– Che vi sia lassù qualche grosso uccello? – si chiese il siciliano, che cominciava a diventare inquieto. – Se il signor Held non dormisse così tranquillamente, lo sveglierei per sapere qualche cosa.

Un terzo frutto cadde a terra; ma con tanta forza da rimbalzare alto e da spaccarsi.

– Tuoni di Palermo!... – esclamò il soldato. – Cosa succede lassù?... Che vi...

Non potè finire: la frase gli si gelò sulle labbra e rimase immobile, come pietrificato, cogli occhi sbarrati.

Un essere mostruoso, spaventevole, scendeva lungo il tronco dell’albero, girandovi attorno con sorprendente agilità e curvando il capo per meglio osservare il soldato, il quale pareva paralizzato da un terrore impossibile a descriversi. Non era un serpente, nè un volatile, nè un leopardo, ma un scimmione alto quanto un uomo di media statura, col corpo tozzo, il petto enormemente sviluppato, le spalle potenti e larghissime, il dorso muscoloso, le braccia e le gambe grosse e nodose come tronchi d’albero, le une molto più lunghe delle altre, ma queste e quelle armate di unghie corte e ricurve.

La testa di quell’animale era grossa, la sua faccia dilatata, cogli zigomi rientranti, coperta di rughe profonde; la sua bocca era grande, armata di lunghi denti candidissimi e contratta ad un sogghigno che faceva gelare il sangue. Quel viso aveva, in tutto l’insieme, un’espressione d’orribile ferocia. Il suo corpo, che doveva possedere una forza formidabile, erculea, era coperto da un pelame lungo, disordinato e rossastro.

Quel mostro, che forse aveva il suo covo fra i rami di quell’albero immenso, continuava a scendere lungo il tronco, girando sempre intorno, servendosi delle robuste mani e dei suoi piedi, che avevano dimensioni straordinarie.

I suoi occhi neri, vivaci, che mandavano cupi bagliori, non fissavano più il marinaio: guardavano ostinatamente la giovane Amely, che dormiva placidamente ai piedi del durion, ed il giovane Dik.

Il siciliano, terrorizzato, sapendo con quale terribile avversario aveva da fare, lo guardava con occhi smarriti, senza osare alzar il fucile. Aveva riconosciuto in quel scimmione il mias pappan, l’essere più formidabile che vive nella grande isola del Borneo, più pericoloso delle tigri e dei coccodrilli, più robusto dei serpenti pitoni, più brutale dei rinoceronti.