I divoratori/Libro primo/XII
Questo testo è completo. |
◄ | Libro primo - XI | Libro primo - XIII | ► |
XII.
Così Valeria vide esaudito il suo voto. Sua figlia era un genio. E un genio riconosciuto e glorificato come solo i paesi latini glorificano e riconoscono i proprii grandi. Nancy passò dal soave crepuscolo della puerizia all'abbagliante clamore della celebrità. Gli inesperti suoi passi tremarono sulle vette. E il giovane capo le fu cinto di splendori. Fu intervistata e citata, imitata e tradotta, invidiata e adorata. Aveva più innamorati che una prima ballerina, e più nemici che un primo ministro.
Al ben ordinato appartamento in via Durini, non veniva più la gente mitemente frivola che alla zia Carlotta piaceva. No. La casa era sempre piena di poeti. Poeti che restavano a pranzo, che suonavano il pianoforte, che parlavano sempre di sè stessi ad altissima voce e che trattavano lo zio Giacomo come se fosse il portinaio.
Sedevano intorno a Nancy e le leggevano i loro versi. E le critiche dei loro versi. E le loro risposte alle critiche dei loro versi. V'erano dei tempestosi poeti con barbe in punta; dei fortunati poeti coi baffi all'insù; dei cupi poeti non stampati; e dei poeti negligenti che si lavavano poco.
Vi fu anche un poeta che portò via un soprabito dall'anticamera. La zia Carlotta disse che era il Probabilista, quello dai capelli lunghi, autore della «Melica Cantata Essenziale».
Ma Adele sosteneva che era il Futurista, cantore del «Verbo della Magnifica Sterilità».
In breve giunse una lettera da Roma, collo stemma della Real Casa.
La dama d'onore di Sua Maestà la Regina era incaricata di invitare Giovanna Desiderata a leggere i suoi poemi al Quirinale, alle quattro e mezzo del venerdì seguente.
Subito la casa fu sossopra; dapertutto e ad ogni istante, mentre si facevano i bauli e perfino durante i pasti, la zia Carlotta, Adele, Valeria e Nancy si esercitavano a far delle profonde riverenze e dei baciamani — chiedendosi esterrefatte se si doveva dire «Vostra Maestà» ogni volta che si parlava, o solo casualmente, di quando in quando.
Partirono subito per Roma. Ordinarono per Nancy una veste sontuosa e un grande cappello piumato. E, giunto il fausto giorno, Nancy, con una veletta bianca calata per la prima volta sul viso infantile, in guanti troppo stretti, e tenendo il volumetto de’ suoi versi serrato al cuore trepidante, si recò al Quirinale, accompagnata da Carlotta, Adele e Valeria, tutte in grandi boa di piume bianche.
Una dama d’onore, dalla veste semplice e dalla voce dolce, le ricevette; e, sorridendo un poco, spiegò che soltanto Nancy era attesa e poteva essere ricevuta. Disse poi a Nancy di alzare il velo e di togliersi il guanto della mano destra. Carlotta, Adele e Valeria abbracciarono Nancy come se partisse per un lungo viaggio, e le fecero il segno della croce sulla fronte, e molte raccomandazioni. Quindi la dama di Corte la condusse per una fila di sale gialle, di sale azzurre, di sale rosse — fino alla sala bianca ed oro dove la Regina l’avrebbe ricevuta.
Quasi subito la porta si aprì e la Sovrana entrò. Aveva la veste ancora più semplice e la voce ancora più dolce della sua dama d’onore, e mosse sorridendo incontro alla figurina, timida, sotto l’immenso cappello piumato. Allora Nancy dimenticò la riverenza imparata e il saluto tante volte ripetuto. Fissando gli occhi timorosi e infantili sulla bionda e clemente visione, con un piccolo singhiozzo, afferrò e strinse al cuore la mano bianca che si porgeva a lei.
La Regina d’un tratto si chinò verso di lei e la baciò.
... Era tardi, quasi buio, quando Nancy, pallidetta e trasognata, tornò dove l’aspettavano sua madre, sua zia e sua cugina. Queste terminavano appunto un nervoso rinfresco di dolci e vini, con un gentiluomo in divisa in piedi presso a loro, e due lacchè incipriati che le servivano. Tutte e tre si alzarono quando Nancy apparve, mettendosi affrettatamente i boa; e se ne andarono, scortate e riverite dal gentiluomo in uniforme, che — disse la zia Carlotta — «era probabilmente il Duca d’Aosta». Un altro lacchè incipriato le condusse sino alla carrozza reale, che aspettava per ricondurle all’albergo.
Durante il tragitto Nancy parlò poco, e la zia Carlotta e Adele la interrogarono invano. Seduta nell’ombra della carrozza, con gli occhi chiusi, teneva stretta la mano di sua madre e non sapeva dire alla zia Carlotta neppure che cosa le avessero offerto da mangiare! «Del thè?» Sì, del thè. «E delle paste?» Sì, delle paste. «Ma che genere di paste? e che cosa d’altro?».
Nancy non si ricordava.
«E come era vestita la Regina? Di bianco?» No, non di bianco. «Era vestita di seta? O di pizzo nero?» Nancy non lo sapeva. Non aveva visto.
«E che gioielli aveva?» Nancy non se ne poteva ricordare. «E l’aveva poi chiamata «Maestà» o «Signora»?» Nancy non sapeva. Le pareva di non aver detto nè l’uno nè l’altro.
Allora sua madre le chiese timidamente:
— E le tue poesie, le sono piaciute?
E Nancy strinse forte la mano di sua madre e disse:
— Sì.
Carlotta e Adele rimasero convinte che la visita di Nancy era stata un fiasco. Certo aveva fatto delle gaffes!... Si era dimenticata di fare riverenze e non aveva mai detto «Maestà». Tuttavia all’albergo parlarono molto e con tutti del pomeriggio passato al Quirinale; e finsero di non essere sorprese quando all’indomani il portiere portò a ciascuna di loro una busta, con dentro il ritratto firmato della Regina, e per Nancy uno scrigno con monogramma e corona contenente una spilla di smalto azzurro con le iniziali reali in brillanti.
Nancy comperò un diario — un piccolo libro celeste e oro — e scrisse sulla prima pagina la data e un nome. Il nome di un fiore — il nome della Regina.
Tornarono a Milano come in un sogno. Una folla di amici le aspettava alla stazione, e, primo fra loro, lo zio Giacomo, raggiante, con al fianco il Figliol prodigo, Nino, che da otto anni non si era fatto vivo a Milano. Alla sua vista Adele si fece rossa come una brage e Valeria bianca come un lino. E Nino ben se n’accorse; e sorrise, e si arricciò i baffi; e nell’aiutarle a scendere dal vagone, le baciò tutte e due, forte su ambo le guancie. Nancy non si ricordava affatto di lui. Lo guardò con occhi gravi mentre egli le descriveva un certo grembiulino rosa che ella portava da piccina in Inghilterra, e cercava di farle ricordare un teatrino di marionette, di cui a quell’epoca una Fräulein Meyer o Müller era direttrice di scena. Le chiese anche conto di una fossetta, come quella di sua mamma, che da bambina possedeva nella guancia sinistra — e Nancy rise, e subito la fossetta riapparve, incavandosi come una piccola coppa rosea nella tonda guancia giovanile. Valeria sorrideva colle lacrime agli occhi, e Nino, ciò vedendo, la baciò. Poi si permise di baciare anche Nancy. E infine baciò anche Adele che pareva aspettarselo. Allora lo zio Giacomo, molto impazientito, li fece correre fuori dall’affollata stazione, e li spinse nelle due vetture che aspettavano. Nino, all’ultimo momento, salì nella carrozza con Valeria, Nancy e la zia Carlotta, dove si stava pigiati e stretti.
Durante il tragitto egli non s’informò nè di Roma nè del Quirinale, e neppure parlò della propria lunga e misteriosa assenza. Citò dei versi di Baudelaire e di Mallarmé, senza nesso nè coerenza, ma con voce commossa e vibrante che faceva senso.
— I tuoi versi, cuginetta, — disse a Nancy, — non li cito. Sono sacrosanti. — E aggiunse piano: — Le mie labbra sono indegne.
Poi, distrattamente, prese a recitare Richepin:
Voici mon sang et ma chair, |
E lo disse, guardando fisso Valeria che gli sedeva rimpetto. Ella si fece di nuovo pallidissima; ma gli occhi che la fissavano non vedevano lei.
Nino e lo zio Giacomo restarono a pranzo dalla zia Carlotta, e alla sera, due dei soliti poeti — un probabilista, ed uno di quelli poco lavati — vennero a ossequiare la poetessa.
Nancy sedeva ritta e sottile, in poltrona, e i poeti le urlavano d’intorno.
— Che cosa pensi di D’Annunzio? — le chiese Nino, profittando, per farsi udire, di un istante in cui i due poeti prendevano fiato.
— Non l’ho letto, — disse Nancy. — Non ho letto nulla, nè nessuno.
— Brava! così si fa, — gridò Muggi, l’illavato, annuendo colla testa scarmigliata. Non legga nulla e conservi la propria individualità!
— Legga tutto, legga tutto, e coltivi la forma, — gridò il probabilista Raffaelli.
Durante la discussione che seguì, le voci dei due poeti formarono un muro di strepito intorno a Nino e a Nancy, che li isolava permettendo loro di discorrere insieme.
— Quanti anni hai? — chiese Nino, guardandole la fronte blanda su cui le sopracciglia si stendevano come ali tranquille sopra gli occhi ridenti.
— Ho sedici anni, — disse Nancy, e la fossetta s’incavò.
Ma Nino non sorrise.
— Sedici anni! — mormorò.
E perchè i suoi occhi erano avvezzi alle tristi linee di un volto appassito, alla tragica amarezza di una bocca stanca, il suo cuore cadde vinto e conquiso ai piedi della dolce e calma giovinezza di Nancy. Era inevitabile.
— Sedici anni! — ripetè, guardandola con grande meraviglia. — Ma chi più al mondo ha sedici anni? — E la sua anima si prosternò, non davanti all’ispirata autrice dei poemi che tutt’Italia adorava, ma davanti alla bambina di cui gli occhi erano così limpidi sotto al volo tranquillo delle sopracciglia.
E fu la fredda manina della vergine, non il polso del poeta, che liberò il suo cuore dalla stretta di quelle altre mani di donna — oh, le bianche e ben ricordate mani! — dove le vene azzurre e un po’ turgide segnavano il corso più lento del sangue: quelle tristi vene azzurre che suscitavano la sua pietà, e strangolavano il suo desiderio.
— Posso chiamarti col tuo vero nome? — domandò.
Nancy rise.
— Chiamami come vuoi.
— «Desiderata!», — diss’egli lentamente, e il colore abbandonò il suo viso mentre profferiva quel nome.
Quella sera Nancy scrisse sulla seconda pagina del suo diario una data e un nome. Poi li cancellò. E la Regina rimase sola nel librino celeste e oro.
Dalla visita al Quirinale in poi, ogni mattina alle otto, il cioccolatte e le lettere di Nancy le venivano portate da Adele stessa, che considerava un ufficio d’onore il poter servire la piccola Saffo d’Italia.
Entrava piano, in pantofole e vestaglia, colla lunga treccia nera pendente, e poneva il vassoio accanto al letto di Nancy; poi apriva le imposte e veniva a sedere presso la cuginetta. Mentre Nancy, come una principessina indolente, sorbiva col dito mignolo in aria, il suo cioccolatte, Adele apriva la corrispondenza. Leggeva ad alta voce anzitutto i ritagli di giornale che parlavano di Nancy; poi le domande di autografi, che venivano accuratamente messe da parte. Di queste s’incaricava Adele, che, secondo lei, scriveva l’autografo di Nancy meglio di Nancy stessa.
— Trovo che assomiglia di più alla tua firma quando la scrivo io, che quando la scrivi tu, — diceva Adele.
Indi le poesie e le lettere d’amore venivano lette e commentate con squillanti risa; e infine le lettere di affari si mettevano via e nessuno le leggeva.
Era tanta la gente che veniva a parlare a Nancy di ciò che essa aveva scritto, che non le restava più il tempo di scrivere cose nuove.
Ma la sua alacre fantasia era stimolata da tutti i modernisti e simbolisti, i futuristi ed ultraisti che le recitavano le loro opere. E nelle lunghe sere sotto il chiarore della lampada famigliare, mentre la zia Carlotta e lo zio Giacomo giocavano a briscola, Nino, appoggiati i gomiti alla tavola, leggeva le «Rime Nuove» di Carducci alle tre donne ascoltanti — Valeria, Adele e Nancy — che sedute nelle grandi poltrone, con le palpebre abbassate e le mani in grembo, parevano un trittico delle Stagioni d’Amore.
Valeria sedeva sempre un po’ in disparte, nell’ombra; e se qualcuno le parlava, essa rispondeva piano, con breve dolcezza, e col sorriso spento. Le sue fossette si erano nascoste in due piccole linee che le solcavano le guancie. Valeria non era più Valeria. Era la madre di Nancy. Essa si era ritratta nell’ombra dove seggono le madri, dagli occhi miti che nessuno guarda, dalle bocche dolci che nessuno bacia, dalle mani bianche che benedicono e rinunziano.
Era la sua creaturina, era il «béby» che l’aveva spinta colà. Inesorabilmente, col primo gesto delle minuscole mani, col primo tocco delle fragili dita premute sul seno materno, la bambina aveva discacciato la madre dal suo posto al sole: l’aveva dolcemente, inesorabilmente, sospinta fuori dalla gioia, fuori dall’amore, fuori dalla vita — verso l’ombra dove seggono le madri con miti occhi di cui nessuno conta le lagrime, con dolci bocche di cui nessuno chiede i baci. Nancy prima d’altri aveva preso il suo posto al sole; che, se quasi sempre i figli, simili ai pettirossi, sono gli inconsci e istintivi carnefici dei loro vecchi, il giovane Genio è un’aquila, che balza inatteso dal nido d’una colomba; e, sbattendo le ali noncuranti e devastatrici, per vivere distrugge, per nutrirsi divora, per creare annienta.
— Nancy! — esclamò Adele, irrompendo un giorno nella camera della cugina, — c’è qui un inglese che vuol vederti. Vieni presto. Io non capisco una parola di quello che dice.
— Oh! mandagli la mamma, — rispose Nancy. — Io ho dimenticato tutto il mio inglese. E poi voglio leggere fino in fondo questo pernicioso Gabriele.
— Tua madre è uscita. Vieni, suvvia!
E Adele le accomodò con un colpetto e una tiratina i capelli, e poi la spinse nel salotto, dove l’inglese aspettava.
Questi si alzò — era un uomo alto, tutto sbarbato; e gli occhi erano buoni e ingenui nella sua faccia dura.
Nancy stese la mano dicendogli in italiano:
— Buon giorno.
Egli rispose in inglese:
— How do you do? — E continuò: — Il mio italiano è molto deficiente. Posso parlare inglese?
Nancy sorrise.
— Lei può parlarlo, ma io posso non comprenderlo.
Però lo comprese assai bene.
Egli le disse che slava scrivendo per la «Fortnightly Review» un saggio critico sulle poesie di Nancy, con una traduzione in prosa di alcune delle liriche; e desiderava di chiudere l’articolo con un «aperçu» delle sue mire e dei suoi intenti... Che cosa scriveva adesso?
— Nulla, — fece Nancy con un lieve gesto delle mani, un gesto di inerzia latina che egli trovò grazioso. — Non faccio nulla.
— Peccato! — disse l’inglese. — Intendo questa vostra dolce parola italiana in ambo i suoi significati, di rammarico e di colpa.
Nancy abbassò il capo con aria triste.
— Perchè non lavorate? — domandò severamente lo straniero.
Nancy ripetè il suo piccolo gesto sconfortato.
— Non lo so, — disse. E soggiunse con un sorriso: — Noi italiani parliamo tanto che sperdiamo, dicendole, tutte le belle cose che potremmo scrivere.
Adele, presso la finestra, alzò il capo.
— Che sia perciò, — disse ridendo, — che la nostra letteratura è così noiosa e i nostri Caffè così divertenti?
Nancy rise. E l’inglese, rivolto a lei, disse:
— Ma è possibile che i vostri pensieri, una volta detti, non esistano più?
— Oh, più, più! — disse Nancy. — Volano via, come... oh! come quei fiori diafani e tondi, quasi di piuma, nei prati... Sapete pure! quelli che a soffiarli vi dicono l’ora? Io sempre sapevo l’ora così, quando ero bambina in Inghilterra. Come si chiamano quei fiori?...
— «Dandelions», — disse l’inglese. E gli parve che quella infantile reminiscenza la ravvicinasse assai al suo cuore; e subito le parlò della sua casa nella contea di Kent, dove il suo vedovo padre Sir Frederick Kingsley e la sua unica sorellina, vivevano circondati da un vasto parco antico, tutto ombre e silenzi verdi.
— Mi fate venir la nostalgia, — disse Nancy.
Il signor Kingsley parve contento.
— Voi dunque ricordate l’Inghilterra?
— Oh no! — disse Nancy. — Io ho sempre la nostalgia di cose che non ricordo, o di cose che non ho conosciuto mai.
Sorrise; ma nei suoi occhi oscillava la tristezza solitaria dell’anima del sognatore.
L’inglese tossì, perchè gli argomenti astratti lo imbarazzavano.
Poi, con fare tranquillo e metodico, disse:
— Spero che lavorerete molto e che farete delle grandi cose.
Nancy decise che così farebbe. Si alzò per tempo l’indomani, e scrisse nel suo diario: «Incipit vita nova». Poi fece un elaborato orario per l’impiego di tutte le sue giornate, e una lista delle cose che voleva scrivere: concetti e idee che da mesi le turbinavano nella mente, ma che sempre erano disperse da frivole visite e futili conversazioni.
Si sentì impaziente, e felice, e smaniosa di cominciare! Il grande foglio di carta bianca le stava davanti come una meravigliosa terra inesplorata, piena di splendide promesse e d’infinite possibilità. Tremante e lieta, Nancy vi tracciò sopra coll’indice reverente il segno della croce.
Poi qualcuno bussò alla porta.
Era Clarissa Della Rocca, la sorella maritata di Nino, lunga, linda e liscia in vesti attillate.
— Mes amours! — esclamò abbracciando Nancy, e premendole in fretta il mento sull’una e l’altra guancia. — Metti il cappello e vieni giù con me. C’è Aldo che è arrivato dall’America. Figùrati. Aldo! Ma come? non l’hai mai visto? mio cognato? il fratello minore di Carlo? Bello come un accordo in re minore! (L’ha detto lui, parlando di sè). Ma vieni, vieni a vederlo. Siamo giù col tilbury: proviamo i due nuovi sauri di mio marito. Ho voluto esserci anch’io, ma adesso ho paura; quei cavalli sono indemoniati! E ho bisogno d’attaccarmi a qualcuno!
— Attaccati ad Aldo, — disse Nancy ridendo.
— Impossibile! è lui che guida. E poi, ha un caratteraccio! Vieni, vieni. Sarà più amabile se ci sei tu.
— Ma se non mi conosce, — fece Nancy colla penna ancora in mano, e guardando il foglio di carta ancora bianco.
— Appunto per ciò! Aldo è sempre amabile con le persone che non conosce. Vieni presto, ma chérie! ti dico che Aldo è un incanto!... Decorativo come un gobelin! E poi, figurati che è stato in America, in un selvaggio e solitario «ranch» del Texas! Parla inglese e tedesco, e canta come un angelo. Fatti bella, mon chou aimé!
Nancy indossò rapida una lunga giacca chiara, e si appuntò il cappello senza guardarsi nello specchio.
Clarissa, che la osservava di sotto alle lunghe palpebre, disse:
— Mon Dieu! — Poi chiese subitanea: — Quanti anni hai?
— Quasi diciassette, — rispose Nancy cercando i guanti.
— Quelle veine! — sospirò Clarissa. — Sei pronta?
Sì, Nancy era pronta.
— E non badarci, — disse Clarissa, — se ti dò dei pizzicotti! Il cavallo di destra s’impenna.
Scesero le scale correndo, e davanti alla porta nel tilbury, videro Aldo Della Rocca, che teneva, con redini tese, i sauri impazienti. Colla punta della frusta solleticava le loro orecchie, perchè s’inalberassero, col collo curvo e la bocca schiumante.
Egli era davvero «un incanto». Il suo profilo, come Nancy lo vedeva spiccare sul chiaro cielo di giugno, era simile a quello dell’Hermes di Prassìtele. Ed ella notò i lucidi capelli ondulati splendenti di un nero quasi azzurro, quando, salutandola, egli sollevò il cappello — con un largo gesto, un poco affettato, che la fece sorridere.
Salirono leste, e sedettero dietro a lui; gli impetuosi cavalli staccarono il trotto, e balzarono giù per il corso e fuori verso i bastioni con passo velocissimo.
Di quando in quando Clarissa dava un piccolo grido spaurito, ma poichè Aldo pareva non accorgersene, ella presto cessò.
— Ebbene? Cosa t’ho detto? Vedi come è seraficamente bello? — disse, accennando con dito estatico la schiena rigida e snella del cognato. — Sempre dico a Carlo: Ah, perchè, perchè il destino non ha voluto ch’io incontrassi prima di te l’apollineo tuo fratello?
Nancy sorrise:
— Ma mi pare molto giovane questo signore.
— Ha ventiquattro anni, viperetta che sei! — disse Clarissa, — del resto, è stato tanto viziato dalle donne di Napoli, che potrebbe avere mille anni, per tutto quello che sa!
— Bah! che orrore! — fece Nancy guardando sdegnosamente le inconscie spalle davanti a lei, e il colletto alto, e i lucidi capelli neri, e infine l’irreprensibile cappello, correttamente piantato in cima a tutto ciò.
— Oh, sì! Aldo è un orrore! Ma quanto è visualmente dilettevole! — E Clarissa rise piano, giù nella gola, come una tortora innamorata.
Aldo volse verso di loro il mirabile profilo.
— Vi condurrò sulla strada di Monza, — disse.
— Oh Dio! No! — fece Clarissa, — non su quella brutta stradaccia noiosa dove nessuno ci vede.
— Oggi conduco a passeggio i cavalli, non le tue «toilettes», — replicò suo cognato, e si volse, prendendo a rapido trotto per la via di Monza.
— Il est si spirituel! — disse ridendo Clarissa, che ad ogni più piccola emozione traboccava nel francese.
La lunga via polverosa fiancheggiata di platani, si stendeva davanti a loro; ed i sauri andavano come il vento.
A un tratto, vicino alle prime case di Sesto, sentirono che Aldo frenava subitamente, e si sporsero per vederne la ragione. A pochi metri davanti a loro, in mezzo alla via, due donne e un uomo si dibattevano, avvinghiati, ansanti, mentre un gruppo di bambini li guardava spaventati da una porta. Il nodo umano si contorceva in sinistro silenzio. L’uomo di cui, anche da lontano, Nancy vedeva i capelli scompigliati e la faccia paonazza, era riuscito a liberare un braccio dalla stretta convulsa delle donne, ed ora, con rapido moto, strappò dalla tasca qualche cosa su cui il sole balenò.
— Dio! Ha un coltello o un revolver! — sussurrò Nancy.
Anche le donne avevano veduto, e urlavano, aggrappandosi a quel braccio levato, e invocando aiuto.
Rapida, Nancy sporse in avanti le piccole mani vigorose:
— Posso tenerli io i cavalli, — disse, e afferrò le redini.
Aldo si volse sorpreso:
— Ma cosa fa? ma perchè? — poi s’interruppe.
Ella gli lesse un dubbio in viso, ma lo fraintese.
— Ma sì, posso! posso! — gridò. — Vada presto! non tema per noi!
Egli fece una piccola smorfia curiosa, quasi un sorriso, poi saltando dalla vettura traversò la strada correndo e si slanciò sul gruppo selvaggio, che si dibatteva, piegando in qua e in là come sbattuto dai marosi. L’uomo ruggiva, sempre col braccio teso in aria. In un attimo Della Rocca gli fu addosso, e torcendogli la mano, gli strappò dalle dita la rivoltella.
Con rapido atto ne aprì la canna, scotendo per terra le cartucce. Poi gettò l’arma a un uomo che accorreva con altri da una vicina osteria. Indi in due salti fu di nuovo davanti al tilbury. Alzò i bellissimi occhi su Nancy, e sollevando il cappello con quel gesto largo e affettato che già prima l’aveva fatta sorridere, disse:
— Perdoni se l’ho fatta aspettare!
— Dio! Che poseur, — esclamò Clarissa, che fino allora aveva tenuto gli occhi chiusi e le orecchie turate per non vedere nè sentire.
Della Rocca sorrise, e, balzando in scerpa, prese le redini dalle mani protese e tremanti di Nancy. Essa si lasciò ricadere al suo posto, snervata e turbata. I cavalli diedero un balzo e ripresero la strada.
— Che sangue freddo! — disse Clarissa prendendo fra le sue una manina di Nancy.
— Sì, — disse la fanciulla guardando ora con approvazione le spalle rigide, i capelli neri e l’irreprensibile cappello davanti a lei. — Mi piacciono gli uomini coraggiosi.
Clarissa diede un piccolo strillo.
— Ih! Che dici? Non è mica Aldo che è coraggioso, sei tu! Aldo è prudente come una lepre. Ma essendo anche un incorreggibile posatore, non manca mai l’occasione di un effetto. — E Clarissa imitò il saluto di Della Rocca, sollevando con gesto di principesca grazia un immaginario cappello.
Nancy rise. Ma non credette una sillaba del discorso sulla lepre.
Quando la lasciarono alla porta di casa sua, ella rispose al profondo saluto di Aldo con un piccolo cenno della testa, serio e soave; poi corse su per le scale ed entrò nella sua camera.
Sul suo scrittoio giaceva una lettera, non aperta. Ma Nancy non si curò di guardarla. Già, era di Nino... Egli le scriveva ogni mattina e veniva a trovarla ogni sera.
Nancy corse subito sul balcone. Ma il tilbury aveva già svoltato l’angolo e non si vedeva più.
Nancy rientrò nella sua stanza e si tolse lentamente i guanti. Sentiva una grande e irragionevole gioia per il fatto che i polsi le dolevano ancora dallo sforzo fatto per tenere le redini, e che le sue delicate dita erano contuse e indolenzite. Dalla finestra aperta entrò il vento, e sparpagliò tutte le carte che erano sulla scrivania.
Sparpagliò la lista di ciò che Nancy doveva fare; e l’orario delle sue giornate; e la lettera di Nino; e portò via, svolazzante e vano, il grande foglio di carta — il bianco foglio, pieno di splendide possibilità, su cui Nancy aveva tracciato con indice riverente il segno della croce.