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i divoratori 89


Era la sua creaturina, era il «béby» che l’aveva spinta colà. Inesorabilmente, col primo gesto delle minuscole mani, col primo tocco delle fragili dita premute sul seno materno, la bambina aveva discacciato la madre dal suo posto al sole: l’aveva dolcemente, inesorabilmente, sospinta fuori dalla gioia, fuori dall’amore, fuori dalla vita — verso l’ombra dove seggono le madri con miti occhi di cui nessuno conta le lagrime, con dolci bocche di cui nessuno chiede i baci. Nancy prima d’altri aveva preso il suo posto al sole; che, se quasi sempre i figli, simili ai pettirossi, sono gli inconsci e istintivi carnefici dei loro vecchi, il giovane Genio è un’aquila, che balza inatteso dal nido d’una colomba; e, sbattendo le ali noncuranti e devastatrici, per vivere distrugge, per nutrirsi divora, per creare annienta.


— Nancy! — esclamò Adele, irrompendo un giorno nella camera della cugina, — c’è qui un inglese che vuol vederti. Vieni presto. Io non capisco una parola di quello che dice.

— Oh! mandagli la mamma, — rispose Nancy. — Io ho dimenticato tutto il mio inglese. E poi voglio leggere fino in fondo questo pernicioso Gabriele.

— Tua madre è uscita. Vieni, suvvia!

E Adele le accomodò con un colpetto e una tiratina i capelli, e poi la spinse nel salotto, dove l’inglese aspettava.

Questi si alzò — era un uomo alto, tutto sbarbato; e gli occhi erano buoni e ingenui nella sua faccia dura.

Nancy stese la mano dicendogli in italiano:

— Buon giorno.

Egli rispose in inglese:

How do you do? — E continuò: — Il mio italiano è molto deficiente. Posso parlare inglese?