I Robinson Italiani/Capitolo XXII
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Capitolo XXII
Il «tia-kau-ting»
Trovandosi così ampiamente provvisti e temendo che le tettoie costruite non fossero sufficienti a difendere dalle violenti piogge le copiose ricchezze che le ingombravano e soprattutto le fecole di sagù e i biscotti che si alterano facilmente coll’umidità, un giorno i naufraghi pensarono di utilizzare la caverna per trasformarla in un magazzino.
Riparata come era e perfettamente asciutta, era certo da preferirsi alle tettoie, che erano coperte solamente da foglie. Essendo essa poi lontana appena un miglio, le piogge non avrebbero impedito ai naufraghi di recarsi fino alla grande rupe per provvedersi, di quando in quando, di ciò che avevano bisogno.
Per preservare i loro biscotti e le loro fecole dagli insetti che potevano cercare rifugio nella caverna durante le piogge, costruirono dapprima dei recipienti circolari, somiglianti alle botti, servendosi ancora dei grossi fusti dei bambù selvaggi che poi impeciavano perfettamente, con una specie di gomma estratta dalla isonandra gutta, pianta che produce il cauciù.
Riempiti moltissimi recipienti, un mattino attaccarono il babirussa alla loro carretta già ben carica e si misero in cammino per la costa orientale, fiancheggiando il margine della foresta.
Mezz’ora dopo giungevano dinanzi alla caverna, la cui entrata era stata ormai interamente coperta dalle piante arrampicanti.
Procedendo con precauzione, per timore di trovare qualche altro cobra-capello, spostarono la cortina vegetale e s’inoltrarono nel corridoio con una candela accesa. Giunti nella prima caverna, il mozzo che li precedeva, s’arrestò bruscamente esclamando:
— Mille bombarde!... Degli scorpioni!... Alziamo i tacchi!
— Al diavolo le bestie velenose!... — urlò il marinaio, girando velocemente sui talloni. —
Il signor Albani aveva fatto qualche passo indietro, temendo di trovarsi dinanzi a dei veri scorpioni velenosi, ma abbassata la candela che portava, vide invece un centinaio di animaletti neri, assai più piccoli degli scorpioni ma che pure si raddrizzavano agitando minacciosamente le loro zampette anteriori.
— Ehi!... Marinaio!... Piccolo Tonno! — gridò.
— Fuggite, signore, — risposero Enrico ed il mozzo, che si trovavano già fuori.
— Ma no, amici miei, non sono scorpioni e non vi è alcun pericolo. —
I due marinai, sapendo per prova che Albani non s’ingannava mai, rientrarono, ma con una certa prudenza.
— Non sono adunque scorpioni? — chiese Enrico, arrestandosi all’estremità della galleria.
— No, amico mio. Sono insetti inoffensivi, somiglianti agli stafilini delle nostre campagne.
— Ma ho veduto che si alzavano, assumendo le forme paurose degli scorpioni.
— È il loro modo per spaventare.
— Ma che siano proprio così furbi gl’insetti, signore? — chiese il marinaio, stupito.
— Tutti hanno le loro furberie per difendersi.
— Io non l’avrei mai creduto.
— Mancando per lo più di armi difensive, ricorrono sempre a mille astuzie e talvolta assai curiosissime. Vi è per esempio un ragno, il migalodonte che è comune anche da noi, il quale, per sfuggire i nemici più forti di lui, si scava una celletta chiudendola con una specie di turacciolo. Nascosto dietro a quella porticina spia le prede e le assale quando è certo di vincerle, ma se si trova dinanzi ad un insetto più robusto di lui, corre a rintanarsi e si aggrappa al turaccioletto perchè non venga levato.
— Oh!... È strana!...
— Ma altri sono più furbi, — continuò l’istruito veneziano, mentre il mozzo, formata una scopa con delle larghe foglie, cacciava fuori gl’insetti. — Vi sono delle semplici larve che per proteggere il loro debole corpo, si rivestono d’una corazza formata di fili tenuissimi che sottraggono al loro corpo e che poi coprono di granelli di terra. Altre invece, si avvoltolano nel fango il quale disseccandosi basta a proteggerle.
— Ma voi mi narrate delle cose da sbalordire!... — esclamò il marinaio. — Io non avrei mai creduto che quei piccoli esseri fossero così astuti!...
— Figurati che vi sono dei coleotteri che appena si accorgono di essere osservati, contraggono le gambe, si lasciano cadere su un fianco e fingono di essere morti. Altri invece cercano d’ingannare cambiando forma. L’altro giorno io ho osservato una bella farfalla di colore scuro, che si era posata in mezzo ad un cespuglio. Desiderando di prenderla, la cercai a lungo e finalmente la scoprii, ma per sfuggirmi aveva ripiegato le ali così bene, che sembrava una vera foglia secca.
— La volpona!...
— Signore, — disse in quell’istante il mozzo, — la caverna è pulita.
— Non ancora, — disse il marinaio. — Vi è un morto da seppellire.
— Lave del Vesuvio!... Un morto! — esclamò Piccolo Tonno, girando intorno due occhi stralunati.
— Una specie di mummia egiziana che dorme forse da vent’anni. Non essere schizzinoso, ragazzo mio, e andiamo a seppellirlo. —
Entrati nella seconda caverna, portarono via la mummia e la seppellirono ai piedi d’un albero, poi si misero a scaricare la carretta facendo rotolare i recipienti nel magazzino.
— Staranno al fresco, — disse Enrico.
— È una bella grotta, — disse il mozzo. — Non vale quella azzurra del mio golfo, ma è comoda e l’abiterei volentieri se ci si vedesse.
— Allargheremo quel piccolo buco e apriremo una finestra, mio Piccolo Tonno. Un po’ d’aria conserverà meglio i nostri viveri. —
Avendo portato con loro la scure, demolirono un pezzo di parete senza molta fatica, essendo la rupe di tufo assai friabile e aprirono una finestra tanto larga da permettere di sporgere il capo.
Quell’apertura si trovava a circa venti piedi da una scogliera che si estendeva dinanzi alla rupe e le onde, rompendosi contro quegli ostacoli, talvolta la spruzzavano di spuma.
Di là si dominava un bel tratto di costa e di mare, e si potevano scorgere perfino i vivai, formando l’isola, in quel luogo occupato dalla caverna, una specie di angolo assai acuto.
Una nave che avesse cercato di approdare in vicinanza della capanna aerea, sarebbe stata facilmente scorta.
Guardando verso l’est, Albani vide una lunga fila di frangenti che finiva ai piedi d’un isolotto lontano venti o venticinque miglia e che pareva piuttosto vasto.
Durante la giornata, i Robinson fecero parecchi viaggi trasportando nella caverna gran parte delle loro provviste. Alla sera chiusero l’entrata della galleria con dei massi grossissimi, per impedire agli animali della foresta di penetrare nei magazzini e fecero ritorno alla capanna aerea.
Le tenebre erano già calate da un’ora, quando vi giunsero. Cenarono in fretta, essendo assai stanchi, poi si coricarono, ma il mozzo, prima d’imitarli andò sulla piattaforma a ritirare, come faceva sempre, le pertiche che servivano da scale.
Stava per rientrare nella capanna, quando volgendo gli sguardi sul mare, verso il nord-est, vide scintillare un punto luminoso, il quale spiccava nettamente sulla superficie cupa dell’acqua.
— Un fanale?... — mormorò, con stupore.
Comprendendo quanta importanza poteva avere quella scoperta, si precipitò nella capanna, gridando:
— Accorrete, signor Albani!... Ho veduto il fanale d’una nave! —
Il veneziano e il genovese balzarono in piedi e uscirono sulla piattaforma, chiedendo ansiosamente:
— Dov’è?...
— Guardate laggiù, verso il nord-est, — rispose il mozzo.
— Terremoto di Genova!... — esclamò il marinaio. — È proprio un fanale!...
— Sì, — confermò il signor Albani, che pareva commosso.
— Che una nave s’avvicini alla nostra isola?...
— Lo credo, Enrico.
— Una nave europea, forse?...
— No, poichè avrebbe due fanali, uno rosso e uno verde, mentre quello è bianco e mi sembra che proietti molta più luce di quelli usati dalle nostre navi.
— Bisogna fare dei segnali, signore; accendere dei fuochi sulla spiaggia.
— No, — disse Albani, dopo alcuni istanti di silenzio.
— Vi comprendo, — disse Enrico. — Voi temete che noi c’imbarchiamo e che abbandoniamo quest’isola. Ebbene, signore, v’ingannate: io non partirò da questa terra sulla quale mi trovo tanto bene da non desiderarne nessun’altra.
— E nemmeno io, signore, — aggiunse Piccolo Tonno.
— Non è questo il motivo, amici miei, — rispose Albani. — È la prudenza che mi consiglia di non attirare per ora l’attenzione di quei naviganti.
— Ma che cosa temete?... — chiesero i due marinai.
— Che quella nave sia montata da persone, che starebbero bene appiccate ai pennoni di contra-pappafico. Non dimentichiamo che noi ci troviamo in una regione corseggiata dai più sanguinari pirati dell’arcipelago Chino-Malese, quelli delle Sulu.
— Credete proprio che sia equipaggiata da quei ladroni?
— Potrebbe anche essere una onesta giunca chinese in rotta per le Molucche, usando quelle navi portare un solo fanale, una lanterna monumentale sospesa all’albero di trinchetto; ma potremmo anche ingannarci. Se però lo volete, amici miei, accendete pure i fuochi.
— Ah! no, signore! — esclamarono Enrico e Piccolo Tonno.
— Allora aspetteremo l’alba. Sul mare regna una calma perfetta e quella nave non andrà lontana.
— Ditemi, signor Albani, — disse il marinaio. — Credete che i pirati delle Sulu conoscano l’esistenza di quest’isola?...
— È probabile, Enrico, frequentando essi questo mare.
— Che possano sbarcare qui?...
— Non saprei veramente che cosa potrebbe attirarli.
— Forse per cercare dell’acqua o per procurarsi del legname?
— Si può ammetterlo.
— In tal caso bisognerebbe lasciare la capanna e salvarci nelle foreste.
— O nella caverna, — disse Piccolo Tonno.
— Di certo, — rispose il veneziano. — Se quegli uomini ci sorprendono, ammesso che siano pirati, non esiterebbero a farci prigionieri e poi a trarci in schiavitù.
— Ma non ci faremo agguantare, signore. Abbiamo le frecce avvelenate e ci difenderemo. Per mio conto, questa notte non dormirò.
— Basterà che vegli uno per turno.
— Allora a me il primo quarto, — disse il mozzo.
— Bada di tenere bene aperti gli occhi veh! — disse Enrico. — Al primo indizio di pericolo, svegliami con un buon calcio, se vuoi.
— Non temere, marinaio. Non perderò di vista il fanale. —
Il veneziano e il genovese, sapendo che potevano dormire sicuri finchè il mozzo vegliava, approfittarono per andarsi a coricare. Una guardia in tre era affatto inutile, e poi essi cadevano per la stanchezza.
Piccolo Tonno, sedutosi all’estremità della piattaforma, accanto allo Sciancatello, non chiuse gli occhi un solo minuto. Per essere più certo di rimanere sveglio e per allontanare il sonno, di quando in quando si pizzicava le braccia con molto vigore.
Il fanale di quella nave rimaneva intanto sempre immobile, a circa sei miglia dall’isola. Continuando a regnare sul mare una calma assoluta, quel veliero si trovava nella impossibilità di superare l’isola o di accostarsi.
Il marinaio surrogò il mozzo poco prima della mezzanotte, poi questi fu surrogato dal veneziano verso le tre del mattino. I due primi però, divorati dall’impazienza, non tardarono a tenergli compagnia, essendo l’alba vicina.
Osservando bene il fanale, s’accorsero che si era sensibilmente avvicinato all’isola. Forse l’alta marea o qualche corrente avevano trascinata la nave.
Verso le quattro, il sole, dopo un’aurora di pochi minuti spuntò sull’orizzonte, rischiarando bruscamente il mare e la nave, la quale ormai non distava che tre o quattro miglia.
Un solo sguardo bastò al veneziano per sapere con quale naviglio aveva da fare. Non era una vera nave, ma una di quelle barche velocissime, con due alberi sostenenti vele di grandi dimensioni, collo scafo assai basso, chiamate tia-kau-ting, usate dai pirati e dai contrabbandieri del mar chinese meridionale e del mare di Sulu.
— Lo avevo sospettato, — mormorò, aggrottando la fronte.
— Un legno corsaro? — chiese il marinaio, che aveva pure riconosciuto in quella barca un tia-kau-ting.
— Questa non è una regione per esercitare il contrabbando, — disse Albani. — Amici miei, scendiamo e cerchiamo di porre in salvo le nostre ricchezze. Quei furfanti, scorgendo la nostra capanna, non mancheranno di fare una visita a questa costa. —
In meno che lo si dica furono a terra. Non erano rimaste molte provviste sotto la tettoia e anche perdendole poco danno ne avrebbero risentito, avendo riempita quasi la caverna della mummia, ma premeva a loro porre in salvo gli animali ed i volatili del recinto che si erano procurati con tante fatiche.
Attaccarono la carretta al babirussa, vi gettarono dentro i loro pochi arnesi, le stoviglie, i pochi pezzi di tela che ancora possedevano e quante provviste vi potevano stare, poi legarono i volatili che erano ormai una ventina e fuggirono verso la caverna seguiti dalle due scimmie che conducevano i due piccoli babirussa e dallo Sciancatello che trascinava i due orsi.
Un quarto d’ora dopo giungevano nei loro vasti magazzini sotterranei. Albani ed il marinaio incaricarono il mozzo di mettere ogni cosa a posto, poi armati delle cerbottane e di due fasci di frecce avvelenate, fecero ritorno alla costa settentrionale, per sorvegliare le mosse di quel tia-kau-ting sospetto.
Quando giunsero sul margine della piantagione di bambù, il legno, spinto da una leggiera brezza che soffiava dal nord-est, navigava lentamente verso l’isola, colla prora volta verso il luogo ove sorgeva la capanna aerea. Ormai non vi era alcun dubbio: l’equipaggio stava per approdare.
— Mille terremoti! — esclamò il marinaio, aggrottando la fronte. — Quelle canaglie hanno scorto la nostra capanna e vengono di certo a distruggerla.
— Noi non sappiamo ancora quali siano le loro intenzioni, Enrico, — disse Albani. — Forse vengono a cercare dell’acqua od a raccogliere del legname per riparare qualche guasto.
— Scorgete quel gruppo di persone a prora?
— Sì, lo vedo.
— Non vi sembrano uomini di colore?
— E per di più dei sulani o dei bughisi, poichè non iscorgo i larghi cappelli di rotang che usano i marinai cinesi.
— Allora sono pirati.
— Aspettiamo, per giudicarli, Enrico.
— Guardate, signore!...
— Che cosa vedi ancora?...
— Due grosse spingarde sul castello e due piccoli cannoni sul cassero. —
Albani aggrottò la fronte.
— Brutto segno, — mormorò. — Un tia-kau-ting armato non può essere montato che dai pirati. —
Il piccolo veliero intanto continuava ad avanzarsi, dritto la piccola cala fiancheggiante la caverna marina, correndo bordate. A prua si vedevano parecchi uomini semi-nudi, dalla tinta oscura, armati di certi moschettoni che dovevano essere di fabbricazione antica, a miccia od a pietra.
A poppa se ne vedevano altri raggruppati dietro ai due piccoli pezzi d’artiglieria, come se non attendessero che un comando per farli tuonare contro la capanna aerea. Giunto a trecento metri dalla spiaggia, il tia-kau-ting si mise in panna. Una scialuppa venne calata in acqua, e dieci uomini armati di moschetti vi presero posto ed arrancarono verso la piccola cala, procedendo però con precauzione, come se temessero qualche insidia o qualche scarica improvvisa.
Quegli individui erano tutti di statura alta, bene conformati, di carnagione rossastra, col viso un po’ piatto, ma colle ossa delle gote assai sporgenti, il naso diritto e cogli occhi nerissimi come i loro capelli, ma un po’ obliqui.
Le loro vesti consistevano in una semplice camicia che scendeva fino alle ginocchia ed in una larga cintura sostenente certi sciaboloni colla punta a doccia, somiglianti ai parangs dei bornesi.
In pochi minuti la scialuppa approdò ed otto uomini sbarcarono, dirigendosi silenziosamente verso la capanna aerea.
Il marinaio ed il signor Albani, nascosti fra i folti bambù, non li perdevano d’occhio. Entrambi però parevano in preda a una viva commozione, temendo di veder distruggere la loro casa alla quale ormai si erano tanto affezionati.
— Se me la guastano, guai a loro, — disse Enrico, cacciando risolutamente una freccia avvelenata nella cerbottana.