I Nibelunghi (1889)/Avventura Trentaseesima
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Avventura Trentaseesima
In che modo la regina fece incendiar la sala
Or vi sciogliete le celate, disse
Hàgene cavalier. Cura di voi
Sì mi darò col mio compagno.1 E allora
Che anche voglian tentar d’Ètzel le genti
5Novello assalto, li signori miei,
Nella guisa più pronta, io farò accorti.
Così la fronte si scoprìan parecchi
Cavalieri gagliardi. Egli sedeano
Sovra i feriti, quali, a lor dinanzi
10Entro al sangue caduti, eran discesi
Per lor mani a morir. Mala custodia
Si fea frattanto a quegli ospiti illustri.
Ma il re, ma la regina anche, di questo
Avean pensier che gli Unni cavalieri
15Pria del vespro tentassero la pugna
Novellamente. E d’essi altri vedea
Starsi là innanzi ventimila eroi,
Quali dovean discendere a l’assalto.
Contro agli ospiti allor fiera levossi
20Una tempesta, e Dancwarto, fratello
D’Hàgen, l’ardito cavaliere assai,
Da presso a’ prenci suoi verso la porta
Contro a’ nemici si slanciò. Credeasi
Che morto ei fosse, e ritornò là innanzi
25Incolume. E durò l’orrida pugna
Fin che la notte la troncò. In tal guisa,
Per quanto è lungo un giorno estivo, innanzi
D’Ètzel ai prodi gli ospiti a sè stessi
Curâr difesa, come ancor s’addice
30A buoni cavalieri. Oh! quanti eroi
Ardimentosi da’ lor piedi innanzi
Caddero, a morte già devoti! Avvenne
Ad un solstizio il grave scempio, e intanto
Donna Kriemhilde vendicò del suo
35Core l’affanno sui congiunti suoi
Prossimi, ancor su molti prodi; gioia
Da quel dì più non ebbe Ètzel signore.
Già caduto era il giorno e grave cura
Agli ospiti incogliea. Pensavan elli
40Che la morte avacciar cosa migliore
Era per essi, che crucciarsi a lungo
In dolor senza fine. Ora desìo
Avean di pace i cavalieri illustri
D’anima altera; onde pregâr che alcuno
45Lor conducesse de la terra il sire,
E tosto i prodi di lor sangue tinti,
Con lividor di maglie, essi, i tre prenci
Illustri, uscîr da quell’ostello. Il grave
Dolor presso a chi mai dovea per essi
50Piangersi, non sapeano. Ambo venièno
Ed Ètzel e Kriemhilde. Era di questi
La contrada, e però grande si fea
Lor drappello dattorno. Or disse il prence
A quegli ospiti suoi: Ditemi intanto
55Che volete da me. Pace per voi
Credete aver, ma con fatica assai
Cotesto esser potrà. Pel grave danno
Che feste a me (davver! che di tal cosa,
Fin ch’io mi viva, non avrete frutto!),
60Perchè morto m’avete il figlio mio
Con tanti miei congiunti, a voi niegate
Sempre e sempre saranno e pace e ammenda.2
Gunthero rispondea: Grave ci astrinse
Necessità. Giacean li miei famigli
65Tutti scannati per gli alberghi attorno
Da’ tuoi gagliardi. Oh! come ciò potea
Io meritar? Qui venni a te in tua fede,
E credea che leal tu mi saresti.
Disse quei di Borgogna, Giselhero
70Il giovinetto, allor: D’Ètzel guerrieri,
Che vivi siete ancor, quale, o valenti,
Avete cosa a raffacciarmi? O quale
Cosa vi feci io mai? ch’io qui men venni
Amicamente cavalcando a questa
75Vostra contrada! — E quei dicean: Davver!
Che per vostra bontà di pianti e omèi
Pieno è il castello e la contrada è piena!
Gradito avremmo assai che d’oltre il Reno,
Da Worms, a noi tu non venissi mai,
80Chè disertaste voi la terra, tu
E que’ fratelli tuoi. — Con disdegnosa
Anima favellò Gunthèr gagliardo:
L’odio rubesto se, concilïando,
Depor vorrete a noi che siam stranieri,
85Per le due parti buon consiglio fia.
Senza ragione egli è ciò che ne fece
Ètzel signore. — E dell’ostello il sire
Disse agli ospiti suoi: Di me dolore,
Dolor di voi, diversi sono. In questo
90Alto travaglio di rovina, in questo
Danno ch’io qui toccai, niuno di voi
Partirassi di qui vivente ancora.
E Gernòt fiero così disse al prence:
Dio vi disponga di tal guisa almeno
95Che benigni vi renda! E se v’è caro
Noi trucidar che qui vi siam stranieri,
Lasciate almen che discendiamo noi
Incontro a voi nel piano aperto. Onore
Cotesto vi sarà! Qual cosa mai
100Incoglierci potrìa, faccenda breve
Sarà davver, chè molti avete ancora
Intatti e sani, ed egli osano assai
Starci di contro, sì che noi incolumi
Non lascieranno, di pugnar già stanchi.
105E fino a quando in tal travaglio e cura
Noi cavalieri resterem? — Gli eroi
D’Ètzel, allora, fatto avrìan cotesto,
Perchè altri a quelli di uscir dal palagio
Vènia donasse. Ma ciò udìa Kriemhilde,
110E grave duol le fu cotesto; ratto
Agli stranieri sì niegò la tregua.
No, no! Di ciò che in mente vostra avete,
Unni guerrieri, qui vogl’io con tutta
Fede verace consigliar che nulla
115Per voi si faccia, che di questi rei
E sanguinari un solo uscir da questa
Aula si lascì. Chè dovrìano allora
Colpo mortale esti congiunti vostri
Toccar per essi. Se di voi alcuno
120Anche vivrà fuor di cotesti, d’Ute
Figli, di me fratelli incliti e grandi,
E se, venendo ove aura spira, alquanto
Rinfrescheranno loro usberghi, voi,
Sì tutti voi, perduti siete. Mai
125Non fûro al mondo più valenti prodi.
Disse Gislhero giovinetto allora:
Deh! suora mia molto leggiadra, assai
Trista cosa in cotesto e veggo e trovo,
Che tu di là dal Reno a questa terra
130Così m’inviti per sì gran distretta!
Di qual mai guisa meritata avrei
Appo gli Unni la morte? A te fui sempre
Fedele e niun dolor ti feci io mai,
E con tal patto a questa corte venni
135Io cavalcando, perchè tu, mia suora
Inclita assai, mi fossi e buona e dolce.
Pensiero amico volgi a noi, chè nulla,
Fuor di cotesto, esser potrìa. — Non certo
Amica a voi esser poss’io! Nemica
140Anima reco a voi. Grave dolore
Hàgene di Tronèga un dì mi fea,
E inespïato fia dolor per quanta
Stagione in vita resterò. Voi tutti
Ne darete la pena! — In questa guisa
145D’Ètzel la donna favellò. E soggiunse:
Che se volete voi Hàgene solo
Lasciarmi prigionier, non io davvero
Niegar vorrò ch’io sì vi lasci in vita,
Chè miei fratelli siete voi, figliuoli
150D’una madre, e però con questi eroi
Che son qui, favellar poss’io di tregua.
Iddio dal ciel non voglia mai cotesto!
Disse Gernòt allora. Anche se mille
Fossimo noi d’un vincolo di sangue
155A te congiunti, morti in pria qui tutti
Noi giacerem, che un solo a te de’ nostri
Dessimo prigionier. Da noi cotesto
Giammai non si farà. — D’uopo è che noi,
Gislhero disse, qui moriamo adunque.
160Da tenzonar di cavalieri niuno
Mai ci rattìene, e dove alcun combatta
Con nosco volentieri, ecco, siam noi
Tutti qui presti, chè nessun de’ miei
Alleati ed amici io di mia fede
165Non abbandono mai. — Dancwarto ardito,
Nè tacer gli era bello: Oh! non da solo,
Disse, qui resterà il fratello mio
Hàgene! A questi che ci niegan pace,
Cagion di doglia esser potrìa cotesto.
170Ciò ben chiaro farovvi, e ciò vi sia
Detto per vero. — E la regina disse:
Voi dunque, o prodi atti e valenti assai,
V’accostate a’ gradini e del mio duolo
Fate vendetta. A voi, sì come è il dritto,
175Sarò per tutto il tempo grazïosa,
Ch’io vo’ la sua mercè rendere a questa
Oltracotanza d’Hàgene. Deh! voi
Nullo soffrite ch’esca dalla casa!
Ciò sovra tutto! Ed io a’ quattro lati
180D’incendïar quest’aula farò cenno,
Ed ogni mio dolor fia vendicato!
Rapidamente furon presti allora
D’Ètzel i cavalieri. Essi con colpi
E con percosse dentro all’aula quelli
185De’ Burgundi spingean che n’eran fuori,
E grande assai ne fu tumulto. Eppure,
Separarsi non vollero que’ prenci
E lor consorti. Ei non potean l’un l’altro
Abbandonar per la lor fede. Intanto
190D’Ètzel la donna incendïar fe’ l’aula,
E a que’ gagliardi spasmo di persona
Così fu dato per le fiamme. Ratto,
D’un vento allo spirar, tutta la casa
Avvampò quivi, e sì cred’io che mai
195Non toccò stuol d’eroi doglia più grande.
Gridâr molti di dentro: Ahi! qual distretta!
Più volentieri assai ne la battaglia
Saremmo noi caduti! Oh! possa Iddio
Aver di noi pietà! Di qual mai guisa
200Tutti perduti qui siam noi! Davvero!
Che l’ira sua ferocemente assai
Volge a noi la regina! — E dentro un altro
Così parlò! D’uopo è giacer qui morti!
Che giovò mai saluto che ci fea
205Ètzel regnante? Per l’intenso ardore
Sì gran doglia mi fa la sete grave,
Ch’io già mi credo fuggir debba omai,
In tanto affanno, la mia dolce vita!
Hàgene disse di Tronèga allora:
210Nobili e buoni cavalieri, quale
È da sete costretto, il sangue beva
Qui, chè davvero, in tanto ardor, gli è il sangue
Migliore anche del vino, e in questo tempo
Cosa migliore non sarìa per noi.
215Ed uno allor de’ cavalieri andava
Là ’ve un morto rinvenne. Inginocchiossi
Là da presso alle piaghe ed a l’estinto
L’elmo disciolse, ed a succhiar quel sangue
Che scorrea cominciò. Ben che inusata
220Cosa fosse cotesta, alto conforto
Allora gli sembrò. Dio vi compensi,
Hàgen signor, l’uom disse affaticato,
Ch’io bevvi qui, per tanto vostro avviso,
Sì dolcemente. Raro assai mesciuto
225Mi fu vino miglior. Che s’io di vita
Avrò alcun’ora, grato a voi degg’io
Esser mai sempre. — Come udìano gli altri
Che buono a lui sembrò cotesto, grande
Si fe’ la turba de’ beenti sangue,
230Onde acquistò di molti la persona
Vigore assai. Di ciò portâr la pena
Donne vaghe dipoi nei dolci amici.
E su quelli cadea per l’ampia sala
Il fuoco in copia, e quelli il fean cadere
235Con l’ampio targhe al suol. Grave rancura
Ambo lor feano e fumo e caldo, e penso
Che maggior doglia non incolse mai
A valorosi. — Alle pareti voi,
Hàgene disse di Tronèga allora,
240State voi della sala e non soffrite
Che su le guigge de’ vostr’elmi cadano
Gli stizzi ardenti, ma co’ piè nel fango
Giù li calcate a fondo. Ella è una festa
Trista d’assai qual ci fa la regina!
245E quella notte in sì gran doglia corse.
Stavansi innanzi da l’ostello ancora
L’ardito menestrello e il suo compagno
Hàgene di Tronèga, e stavan elli
Appoggiati a’ lor scudi. Ecco, da quelli
250D’Ètzel re della terra assai maggiore
Danno questi attendean. Disse frattanto
Il suonator di giga: Or nella sala
S’entri per noi. E penseranno gli Unni
Per cotesto assai più che in tal martìre
255Che altri ci fe’, noi siam qui tutti morti.
Anche vedranno poi che, nella pugna,
D’essi incontro ad alcun discenderemo.
Giselhèr così disse, di Borgogna
Il giovinetto: Credo che già voglia
260Sorgere il dì, chè fresc’aria si leva.
Iddio del ciel, deh! lasci che per noi
Anche si viva dolcemente! A noi
Amara festa la sorella mia
Ordinava, Kriemhilde! — E un altro disse:
265Io veggo il giorno omai. Poi che migliore
Sorte di questa non ci tocca, voi
Armatevi, o guerrieri, alla persona
Così pensando. E già s’accosta a noi
D’Ètzel prence la donna a presti passi.
270Creder potea di quell’ostello il sire
Che per fatica e per ardor del fuoco
Gli ospiti suoi erano morti. Eppure,
Anche seicento ardimentosi vivi
Eran là dentro, e niun regnante mai
275Ebbe prodi migliori. Ecco, le scolte
Poste a guardar gli estrani cavalieri
Veduto avean che gli ospiti eran vivi
Ancora ancor, per quanti danni e mali
Avesser prenci e lor consorti insieme
280Toccati quivi. Per la sala ancora
Ei si vedean incolumi d’assai;
E fu detto a Kriemhilde: Énno ben molti
Intatti ancor di quelli. — E la regina
Asseverò che non vivea nessuno
285Dinanzi a possa dell’incendio: Questo
Creder vogl’io piuttosto, insiem giacersi
Tutti morti là dentro. — E i prenci ancora
E lor famigli, ove qualcun principio
Fatto avesse a pietà, salvi alla vita
295Sarìano usciti volentieri. In quella
Terra degli Unni tal pietà non ebbero
Gl’infelici a trovar; però lor morte
Ei vendicâr con poderosa mano.
E dell’alba del dì lor fu di contro
300Dato il saluto con feroce assalto,
E vennero però in distretta grave
I valorosi. Giavellotti assai
A lor di contro fûr scagliati, e forti
Erano, ed elli, ardimentosi e grandi,
305Si difendean quai cavalieri. Intanto,
D’Ètzel ne’ famigliari ardir destossi,
Ch’elli voleano i doni, in lor servigi,
Di Kriemhilde mertar. Volean pur anco
Tanto eseguir quanto lor prence impose,
310E molte file di gagliardi intanto
Vedean la morte. E puossi ancor dei doni
Dir meraviglie, ancor delle impromesse,
Chè la regina su le targhe l’oro
Fe’ cenno di recar, l’oro lucente,
315E a chi ne disïava, a chi toccarne
Volea, ne porse. Contro gente avversa
Maggior stipendio non fu dato mai.
Armata inoltre ne venìa gran forza
Di valorosi, e fea tai detti intanto
320Volkero ardito: Noi siam qui! Alla pugna
Scender non vidi mai più volentieri
Eroi di questi, che per nostro danno
Togliean l’oro del re. — Gridavan molti
De’ suoi compagni: T’avvicina, o prode,
325Chè qui finir ci è forza esta faccenda,
E noi tosto farem! Lasciar nessuno
Qui vuolsi fuor di tal, che dee morire.
Tosto fûr viste le lor targhe appieno
Irte di strali che il nemico avventa.
330Dir di più che degg’io? Dodicimila
Uomini prodi in ripetuta guisa
Tentâr l’assalto, e gli ospiti conforto
In tante piaghe che assestâr, si diero
All’anima crucciosa; e niuno intanto
335Separar gli potea. Vedeasi il sangue
Scorrer da le ferite, e le ferite
Eran mortali. Molti assai di quelli
Giacquero uccisi. Udìasi anche taluno
Verso gli amici suoi gemer piangendo,
340E tutti là morìan di quel possente
E fiero re3 gli ardimentosi. I dolci
Lor congiunti n’avean dolor ben grande.