I Mille/Capitolo LVII
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CAPITOLO LVII.
ISERNIA.
. . . . . . e all'orror di notturni |
I campi celebri di Maratona co’ loro tumulti notturni — che la fervida poetica immaginazione de’ pastori dell’Attica narrava anche in tempi remoti alla stupenda battaglia dell’indipendenza greca — quei superbi campi e quei fatti gloriosi ebbero la fortuna d’esser cantati da due dei più potenti genii poetici che abbia prodotto il mondo: Byron e Foscolo. — E perchè non troveranno i loro vati anche le forche caudine ed i campi di battaglia dell’indipendenza sannita?
Milziade pugnava, è vero, contro un esercito immenso, ma composto d’effeminati dementi e di schiavi condotti alla battaglia per forza. I Sanniti, invece, avevano contro di loro le formidabili legioni che finirono per passeggiare padrone sulla faccia conosciuta della terra — le vinsero ed inflissero loro la più umiliante delle ignominie, quella di farle passare curvate sotto le forche erette per oltraggiarle.
Se il Sannio fosse stato compatto come la potenza di Roma in quei tempi, forse le ugne dell’aquila dei sette colli non avrebbero lasciato le loro impronte sul mondo. — E dove sono le vestigia di quelle popolazioni guerriere, di quei superbi vincitori dell’orbe, di quei robusti discendenti dei Marzi? Essi si sedettero al desco dei dominatori, ne divisero le prede e con essi furono inghiottiti dal vortice di corruzione ove si tuffarono tutti i satelliti dell’universale tirannide!
Redenti dal risorgimento italico, perchè quelle belle razze d’uomini non appariscono più al cospetto degli altri popoli conformi alla loro natura agili, forti, intemerati, insofferenti di servaggio? Dimandatelo ai preti per cui oggi si chiaman cafoni; ai preti ch’ebbero il talento di farne popolazioni di sagrestani, curvi, gobbi, col collo torto a forza di baciamani e di genuflessioni; ai preti che insegnarono loro l’odio agli uomini liberi, alle libere istituzioni, alla scienza ed ai suoi grandi cultori, all’indipendenza patria; ai preti infine che insegnarono loro a disprezzar l’Italia e a tradirla!
Isernia, capitale dell’antico Sannio occidentale, potrebbesi intitolare, come Palermo, la conca d’oro. Circondata dalle alte cime del Matese — ove tesoreggiano sorgenti abbondantissime ed inesauribili da una parte, fra cui dominano le cataratte del Volturno, dall’altra completando la corona altre delle alte cime apenniniche, ne fanno veramente un paese incantevole, ove il touriste, che fugge le aride ed infocate contrade, può trovare quanto brama di verdure, aure fresche e deliziose ed acque zampillanti e cristalline quanto quelle delle Alpi. Paesi a cui natura fu prodiga d’ogni suo benefizio, e che perciò attrassero il nero bipede che predica l’astinenza e si pasce di lussuria. Sì! il prete come il simoun isterilisce in quelle magnifiche contrade ogni fonte di progresso e di prosperità. Là, ove potrebbero sorgere dei Chicago e dei Manchester, sorgono invece delle città appena note sulle carte geografiche, come Isernia e Campobasso, con popolazioni robuste sì, ma annegate nella più crassa ignoranza.
In Isernia, come dicemmo, stabilì il suo quartier generale monsignor Corvo, onnipotente per i pieni poteri che aveva dal governo borbonico e dal papale, onnipotente per la maliziosa e maligna di lui sapienza, facile ad imporsi su d’un clero ignorante e su popolazioni governate e traviate dal clero.
Gli ordini di lui furono esattamente compartiti, e certamente il generale d’un esercito non poteva essere più ciecamente ubbidito. L’interesse della causa ch’egli serviva, e più l’odio mortale sempre crescente concepito per i rapitori delle sue donne, lo tenevano in un orgasmo indescrivibile. Guai per i nostri amici, se i dipendenti di Corvo avessero avuto la metà del coraggio e dell’attività sua!
Comunque, sulla strada che doveano percorrere i trecento per giungere ad Isernia, ogni specie di ostacoli furono innalzati e adoperati a profusione. Taglio di piante e di strade, trincee, imboscate, mine, distruzione di ponti e quante scelleraggini inventa la malissima umana intelligenza, quando propensa o spinta all’esterminio della propria specie; tutto fu messo in opera dai cafoni diretti da chercuti o non chercuti reazionari.
Per fortuna Nullo ebbe sentore di tanti diabolici preparativi, ed invece di prendere la strada diretta ad Isernia, fece obliquare la colonna a sinistra, valicò i monti ad oriente e gettossi nella vallata del Sangro che percorse sino ad Alfedena; varcò una seconda volta i monti, e per Rionero incamminossi sullo stradale che conduce ad Isernia.
Da Rionero, avanti però, comincia una storia ben dolorosa per i nostri prodi amici. Il loiolesco, poco fidandosi delle attitudini guerresche de’ suoi cafoni, avea chiesto un battaglione di cacciatori al re di Napoli, e l’esercito borbonico dovendosi chiudere nelle fortezze di Capua e di Gaeta, non fu difficile ottenerlo. Cotesti soldati, già agguerriti in varii combattimenti, esperti tiratori ed armati d’eccellenti carabine, cagionarono gran danno ai figli di Roma.
In tutti i zig-zag della strada che da Rionero va ad Isernia, v’erano fossi, barricate e truppe nemiche imboscate. I prodi militi di Nullo caricavano qualunque imboscata e la conquistavano a misura che si scopriva, ma ogni volta, pei tiri accertati dei cacciatori borbonici, essi lasciavano qualche vittima, ed il numero dei feriti cresceva, con grande imbarazzo dei nostri, in un paese ove tutti fuggivano, e portavano via gli animali ed ogni specie di veicoli. L’unico mezzo per portare i feriti era dunque quello delle barelle, costrutte come si poteva, e con grande spreco di gente per portarle — ciocchè menomava orribilmente il numero dei combattenti.
Così si giunse sino alle porte d’Isernia, ove Nullo, credendo di trovare seria resistenza, aveva prese tutte le precauzioni per l’attacco che ad un capo come lui suggerivano la risoluzione e l’esperienza.
Quale fu lo stupore dei nostri quando gli esploratori vennero indietro annunziando che la città era deserta di nemici e di popolazione! E veramente tutta la brigata entrò senza verun ostacolo.
Se nei paesi ove si compiacciono di scialacquare gl’invasori — come l’Italia, per esempio, ed oggi un po’ anche la Francia — si facessero ai nemici le accoglienze fatte da quei d’Isernia ai trecento, per ordine di monsignor Corvo; io sono sicuro che succederebbe come successe in Spagna ed in Russia agli eserciti del primo Bonaparte — lezione che ha fatto inviolabili i territorii di quegli Stati ove la nazione era veramente decisa di non piegare il collo.
Ma che succedeva nei felici e ricchi paesi d’Italia e Francia? Giungeva il nemico — voi vedevate dal sindaco al sagrestano corrergli incontro con musi ridenti — non dico volti, poiché quelle mutrie non appartengono a razza umana — domandare di che abbisognava, ed a gara l’uno dell’altro, rompersi il collo per soddisfare ai bisogni — sollecitudini il più sovente pagate con bastonate o peggio.
Giungevano i connazionali — fossero essi francs-tireurs o volontari — stanchi, decimati dalle palle nemiche o dalla fame.......... — «Via! via presto che ci compromettete. I prussiani o i turchi hanno portato via tutto: nulla più abbiamo» — e tante altre simili cantilene.
Fortuna se si era in molti, allora qualche cosa da mangiare e da bere si trovava; in pochi, anche le donne vi correvan sopra colle scope!
E qui lo spigolatore dell’Unità Italiana mi ricorderà l’antifona mia favorita; e siccome, come ogni fedele, sono anch’io un po’ di testa dura e dò poca retta agli spigolatori del dottrinarismo, qui, dico, forse per la centesima volta, devo ricordare agli Italiani che gli ho veduti anch’io i preti col crocifìsso alla mano, seguiti da una folla di popolo plaudente, sventuratamente italiano, precedere la trionfale entrata dello straniero nei paesi nostri.
Nelle strade d’Isernia non si vedeva un solo individuo; ed in alcune case trovaronsi pochi vecchi infermi, che la popolazione non aveva avuto tempo di trasportare. Fu cotesto provvedimento del gesuita, e ciò prova quant’era l’astuzia e la capacità di questo nemico del genere umano. Serva questo d’esempio ai nostri concittadini, sempre pronti ad inchinarsi davanti allo straniero facendo così facilissime le invasioni.
Io spero che l’Italia non cadrà più in tali grossolani ed umilianti errori; spero sopratutto che essa non avrà più mai invasioni straniere; ma in caso di tanta sventura, per il pessimo stato delle sue istituzioni, devono essere castigate coll’ultimo rigore e consacrate ad infamia eterna quelle autorità che non comandano all’avvicinarsi del nemico lo sgombro generale di tutto l’abitato ed il trasporto in luogo sicuro, anche sui monti o nelle foreste, di ogni oggetto che gli possa servire, massime il bestiame e gli alimenti per uomini ed animali, abbruciando tutto quanto non si può trasportare.
Vorrei di più, che si castigasse rigorosamente chiunque ha potuto sfuggire il nemico e non l’ha fatto, sotto l’imputazione di spia, e chiunque ha provveduto, anche con un bicchier d’acqua, il soldato straniero.
Poichè noi Italiani dobbiamo finalmente capirla, quegli invasori che i preti accolgono col crocifisso alla mano per ingannare il povero popolo, sono ladri, assassini spinti sotto falsi pretesti a derubarci del sudore delle nostre fronti ed a prostituire i domestici focolari — si chiamino essi francesi, austriaci, turchi od altro — e che dovere di tutti — giacché si tratta della causa di tutti — si è di distruggerli con tutti i mezzi possibili. Operando in tal modo ed obbligando alle armi chi vuole e chi non vuole, cioè due milioni di militi (10 per 100 come in Svizzera), la nostra Italia è invincibile.
Il loiolita, con tutta la malizia che gli conosciamo, aveva saputo adoperare tutti i mezzi e tutti gli stratagemmi di guerra in cui molti dei generali borbonici avrebbero desiderato di eguagliarlo. Egli disse tra sé: «Questi demonii di rompicolli, per argine che loro si opponga in Isernia, finiranno per superarlo: e questi cafoni, anche dopo d’aver distrutto la metà dei nemici, finiranno per darsela a gambe. — Quindi, meglio far un deserto della città, ove nulla potrà più trovarsi, e portare la guerra in una posizione vantaggiosa al di fuori, in cui, dopo fuggiti i miei codardi, almeno i nemici non troveranno altro che feriti e cadaveri».
Con tale ragionamento diabolico, e dopo d’aver ordinato quanti ostacoli era possibile al progresso dei trecento, egli comandò la completa evacuazione della città in nome del re e della religione.
L’evacuazione fu eseguita in modo da non lasciare nella città che pochissimi vecchi infermi, non trasportabili. Le vicinanze delle montagne e dei boschi presentavano dei nascondigli inaccessibili ai non pratici; ed ogni specie di vettovaglie, bestiame, ecc., che avesse potuto servire ai perduti, vi fu nascosto con cura particolare.
Tutti gli uomini validi, poi, diretti dal comandante del battaglione di fanteria e da varii ufficiali del genio, venuti pure dall’esercito borbonico, organizzaronsi indietro d’Isernia verso Taliverna, Venafro ed i monti che costeggiano la strada a settentrione. Tale sistema di difesa ed offesa era degno d’una causa migliore. E si intende che monsignor Corvo volle mantenersi al comando supremo dell’esercito della fede. Ed era veramente fede ciò che portava sui campi della morte tutta quella massa d’infelici concittadini, poichè, se fossero stati guidati dalla ragione, essi avrebbero capito che servivano chi li ingannava e li vendeva, mentre pugnavano per l’esterminio dei valorosi campioni della loro causa, cioè quella degli oppressi!
Nullo, da quell’esimio capo che era, concepì tutto il pericolo della situazione; ma trovò nello stesso tempo nell’intimo dell’anima sua tutta la energia che tale critica posizione richiedeva. — Molti davano per motivo dell’abbandono d’Isernia lo spavento cagionato dai nostri alla popolazione; ma egli non ingannossi, e, senza manifestare il suo criterio, si attenne alla conseguenza che qualche stratagemma fosse meditato dal nemico, oppure che si fosse trincerato in forti posizioni sulla strada che si doveva percorrere; e così era veramente.
Il più terribile della situazione dei militi della libertà, era il gran numero dei feriti — proporzionatamente all’esiguo numero degli avanzi dei trecento — ed era cotesto il maggiore dei pensieri dell’illustre capo.
Abbandonarli quei prodi compagni feriti! — nemmeno per sogno, piuttosto perire tutti che lasciare alla ferocia del prete e de’ suoi fanatici tante nobili vittime! — E così si fu obbligati di rimanere per alcuni giorni in Isernia, ove nulla si trovava perchè portato via o distrutto; ma almeno i sofferenti avevano un tetto da ricoverarsi dalle intemperie ed alcuni giacigli ove riposare le membra stanche ed addolorate. Si prepararono delle barelle in mancanza di veicoli; si sacrificarono alcuni cavalli e si trovarono pochi polli nei dintorni per avere un po’ di brodo per gl’infermi. Difficilissimo, poi, fu trovare dei panni da far fascie e filaccie per le ferite. Anche i sani trovarono difficilmente da mangiare e fu quindi ben malinconico il soggiorno dei nostri in Isernia.
Che importava fossero italiani, e della miglior specie! Essi erano eretici! maledetti da Dio! e quindi condannati all’inferno! all’inferno, capite! — in quella bagatella di fuoco eterno che i preti han trovato sì comodo per arrostire coloro che non vogliono saperne della loro bottega e che non vogliono pascere l’insaziabile loro ventre e le sante loro lussurie!
Venne finalmente il giorno della partenza; e benchè molti nella colonna credessero le maggiori difficoltà superate, non era questa l’opinione del comandante. Egli non manifestava esteriormente i suoi timori, ma nel fondo dell’anima sentiva un presentimento invincibile di sciagura.
Comunque, egli ordinò un sistema di marcia con tutte le precauzioni richieste in circostanza di pericolo. P... colla sua centuria, assottigliata dalle diverse pugne, continuò a fare l’avanguardia. La centuria di Muzio, con cui trovavasi Nullo, occupava il centro; seguivano i veicoli e le barelle dei feriti, e la retroguardia fu affidata alla centuria d’Orazio, comandata dal tenente Ezio in sostituzione del capitano ferito gravemente.
Alcuni veicoli, che prima si chiamavano dell’Intendenza, servivano pei feriti, e se qualche briciolo d’alimento esisteva nella brigata, questo era ben custodito nel sacco o nella saccoccia di alcuni militi.
Tra Taliverna e Venafro scorre il Volturno, ancora torrente e colle sponde scoscese. Lo stradale traversa quasi perpendicolarmente il fiume su cui esisteva un ponte che venne minato dai borbonici; e fu in questo luogo ove il generale Corvo ammassò tutti i suoi mezzi di resistenza. E veramente, per opporsi ai progressi dei liberi italiani, sito più conveniente e più formidabile, era ben difficile trovare.
Lina, Virginia e Marzia marciavano nel centro in coda alla centuria di Muzio, ove occupavansi anche della custodia dei feriti. — Esse avevano partecipato alle antecedenti pugne, armate di carabina, e mettendo piede a terra quando abbisognava. In Isernia però erano state obbligate di cedere i loro cavalli per l’inesorabile bisogno di mangiare e di avere del brodo.
A piedi o a cavallo, noi già conosciamo l’intrepidezza delle giovani eroine, avanzi di venti combattimenti, e la romana Virginia, forse più per disprezzo della vita, ma anche perchè dotata di natural coraggio, seguiva valorosamente l’esempio delle compagne, quantunque meno adeguata alle fatiche ed ai perigli della vita dei campi di battaglia.
Esse avevano affrontato il pericolo con ilarità sino a questo giorno, dimenticando le due romane anche la consueta malinconia. Ma oggi (credo 28 ottobre 1860) certo presentimento, che si guardavano di manifestarsi reciprocamente, annuvolava i loro volti raffaelleschi.
In un momento d’alto, Lina che non poteva stare nella pelle, scostossi un poco a destra, salendo su di una piccola eminenza. Essa gettò lo sguardo, acuto e penetrante come quello dell’aquila, verso le maestose cime del Matese; ne contemplava la scoscesa catena adorna di piante secolari di quercie e di castagni, formando boschi foltissimi in alcuni punti; e mentre divagava la vista nell’imponente spettacolo, essa ad un tratto, rivolta alle compagne, esclamò:
«Vedete! vedete!» segnando ad un punto non lontano al di là del Volturno.
«Ma noi nulla scorgiamo» rispose Marzia incamminandosi al punto ove trovavasi l’amica.
«Non vedete quanta gente si aggira dietro a quelle piante?» ed indicava il punto coll’indice.
Le compagne rimasero attonite. Esse avevano veduto allora ciò che non potevano prima discernere; cioè, una folla immensa che, sebbene volesse nascondersi, non mancava di mostrare la sua massa imponente. Quella folla componeva l’ala sinistra dei borbonici, destinata a caricare la diritta dei nostri, di fianco, quando fossero impegnati al fronte contro i quattrocento cacciatori dell’esercito regolare.
Alcune deboli scaramucce impegnaronsi tra gli esploratori di P... e gli avamposti nemici. La resistenza di questi però doveva essere apparente, e quando incalzati, avean l’ordine di ritirarsi sino a lasciare impegnare nel ponte il grosso dei liberali.
L’eroico martire della Polonia in quell’istante pensò ai suoi feriti; ed un tetro, malinconico, terribile pensiero, amareggiò l’anima sua gentile. Oh! i feriti abbandonati in potere d’un nemico inesorabile! che non dà quartiere! che giungerà con quel sorriso sardonico in cui l’uomo somiglia alla belva assetata di sangue! i feriti che vedranno il sarcasmo dell’omicida e che non potranno nemmeno coprirsi gli occhi colle mani per nascondersi all’orribile vista dell’esterminio de’ compagni e del proprio! A tale idea non regge il cuore — se non sia quello d’un prete!
Io gli ho provati tali sensi; e su queste spalle si sono posate le membra grondanti di sangue de’ miei fratelli d’armi. E ne vo superbo! Ma quanti di loro non mi sono trovato obbligato di abbandonare sui campi di battaglia! E certo, se invidio la robusta sveltezza della gioventù, lo è anche perchè, decrepito, non posso più sollevare un fratello caduto!
Egli non pensava, il generoso figlio delle Alpi, che tra breve, caduto trafitto da piombo cosacco, ei bramerebbe la mano d’un amico per sorreggergli la testa morente.
Rivolto a Lina — che, minacciando la tempesta, s’era avvicinata all’amato del suo cuore — egli le disse:
«Torna dalle tue compagne e raccomanda i nostri poveri feriti; sopratutto che non li lascino indietro».
La vezzosa, un po’ stizzita d’essere rimandata indietro, compì esattamente la missione, ma fu presto di ritorno accanto al capo. E questi:
«Ordina a tuo fratello di passare il ponte, di prendere a destra e proteggere il nostro fianco, mentre noi procederemo avanti».
«Avanti!» esclamava il bellicoso concittadino di Nullo, cui il pericolo aumentava l’ardire. «Avanti! ed ordinava di suonare la carica all’ordinanza sua, che a Tivoli s’era fornita d’una tromba dei zuavi pontifichaux, e nel gridare «avanti!» il nostro P..., colla sciabola alla mano, lanciossi sui cacciatori che sembravano voler difendere il ponte, ma che fuggirono all’avvicinarsi del nembo. Egli era sempre accompagnato nelle pericolose imprese d’avanguardia dal coraggioso Talarico che gli serviva da guida e da compagno.
Nullo seguì subito il movimento dell’avanguardia colla centuria del centro. Egli marciava in colonna per sezioni a distanza intiera all’oggetto di fare una maggior comparsa di forze che non esistevano realmente. Ma quando il centro della sua colonna passava il ponte a passo celere, il nemico, per via d’un filo, fe’ saltare la mina, e per fortuna l’esplosione ebbe luogo tra una sezione e l’altra.
Comunque, vi furono varii morti, feriti precipitati nel fiume e, peggio ancora, il convoglio dei feriti e la retroguardia divisi dai loro compagni. Il demonio del fanatismo e della guerra aveva veramente inspirato il gesuita in quel giorno fatale, e tutto camminava secondo le previsioni sue diaboliche. Egli aveva ridotto i trecento a terribile frangente; e con tutta la fiducia che cotesti valorosi avevano nel loro capo, non mancarono alcune parole ingiuriose tra loro: «Perchè non s’erano fatte indagini più accurate prima di avventurarsi sul ponte; e se non vi aveva pensato il duce, perchè non il capo di stato-maggiore?»
Non appena la mina ebbe scoppiato, una valanga di forsennati precipitò dai monti sulla destra dei nostri. Urlavano come belve, mentre fulminavano stando dietro le piante una grandine di fucilate. Fortuna per i liberi che i cafoni non erano destri a sparare il fucile. Non così i cacciatori borbonici. — Il loro battaglione, imboscato dietro varii scaglioni di trincee e di fossi, aprì un fuoco infernale di fronte, e questi soldati, addestrati ai tiri ed armati d’eccellenti carabine, in poco tempo fecero un monte di cadaveri e di feriti ad occidente del ponte del Volturno.
P... che aveva passato il ponte con circa cinquanta uomini della sua centuria, era stato obbligato di ripiegarsi sulla centuria del centro; ed in poche parole, con Nullo. Essi convennero di difendersi sul posto — alquanto coperto dalla depressione del terreno, dalle sponde del fiume e dai rottami del ponte — sinchè Ezio ed i feriti avessero potuto varcare il Volturno — ciocchè costò molte vite e gran perdita di tempo. La situazione del resto dei trecento diveniva ognor più disperata; ed il nemico ingrossava sempre più; non ostante, sin quasi verso sera ogni carica del nemico era stata respinta, ed i nostri padroni del campo di battaglia.
Nullo, P..., Muzio, Ezio e le nostre eroine sembravano leoni feriti. Menomati gl’individui, erano cresciuti i moschetti, i cadaveri fornivano di munizioni coloro che potevano sparare; ed ognuno aveva scelto un’arma buona, se non per vincere, almeno per vender cara la vita. Si era, fra questi superbi campioni del diritto, nella voluttà della morte! Chi cadeva gridava: «viva l’Italia!» Ed i nemici, verso sera, non ardivan più di giungere su quel mucchio d’eroi la maggior parte feriti.
Orazio, malgrado la debolezza a cui l’aveva ridotto la ferita della fronte, aveva impugnato un fucile, e fu rovesciato da una palla al cuore mentre puntava. — Finì la vita gloriosa senza un lamento. Ezio cadeva accanto a Orazio, e verso il tramonto, dei nostri conoscenti solo Lina era rimasta illesa. Talarico nel più forte della mischia la copriva col suo corpo e, sdegnando il fucile, quando i più arditi dei nemici nelle loro cariche s’avanzavano a pugnare corpo a corpo, egli aveva trovato una scure, e guai al cafone od al cacciatore su cui cadeva la terribile lama! Anch’egli cadde finalmente!... contento d’averla difesa e beato da uno sguardo di lei nell’ultimo respiro della vita.
Corvo, colla libidine della passione e della distruzione nell’anima, malediva la notte, e malediva anche la bugiarda storia della Sacra Scrittura che contava la favola di Josuè. Scettico e libero pensatore nel fondo della coscienza, egli per un solo filo teneva ancora alla formidabile società di cui era stato sino allora il più saldo sostegno.
Comunque, egli eccitava a tutta possa i borbonici all’assalto. Correva dalle fila dei cafoni ai cacciatori esortandoli in nome del re, ch’ei disprezzava, della religione, ch’egli irrideva, ed in nome del diavolo! Prometteva onori, paradisi, ricompense, e qualche volta ricorreva anche a dei rimproveri, a degli improperii e a delle bestemmie.
Egli capiva che colla notte sarebbersi raffreddati i suoi poco agguerriti villici, e voleva tentare ad ogni costo il finale esterminio del pugno di valorosi che gli stavano di fronte, che finalmente egli non poteva nascondere a se stesso una profonda ammirazione per essi ed un orgoglio d’avere concittadini tali!... A che fatale e tremenda condizione conducono le vocazioni ed i giuramenti dei preti!...
«Caricate» egli gridava «caricate quei pochi scomunicati che restano! Macellateli! voi avrete fatto opera gradita al Dio degli eserciti che combatte con voi; non le vedete le legioni d’angioli, colle loro spade di fuoco, che incendiano, abbagliano, distruggono i maledetti nemici del re e della santa religione?
Sapeva di mentire! ma era prete ancora!
I cafoni, che colla paura in corpo degl’intrepidi e valorosissimi avversarii, vedevano tutto doppio, non scorgevano angioli certamente, ma nella loro immaginazione esaltata non mancavano d’essere eccitati dalle parole ardenti dell’energumeno! Avanzavano con grida furiose contro i liberali; ma questi, impavidi, li lasciavano avvicinare per caricarli e respingerli in confusione.
La notte favorevole ai ladri ed agli amanti, lo è anche qualche volta ai coraggiosi che sanno aspettarla intrepidi quando, sopraffatti da numero grande di assalitori, sarebbe pericolosissimo il ritirarsi davanti a loro di giorno; chè la ritirata volgerebbesi certamente in sconfitta, senza contare il gran numero di perdite che ne risulterebbe. E tale fu il caso di codesto eroico avanzo della gioventù romana.
In un momento di tregua, concesso per motivo dell’imminenti tenebre della notte, Nullo, riunito a Muzio ed a P... leggermente feriti, disse loro: «Noi dobbiamo operare una marcia degna dei Mille e dell’Italia. Gli ottanta uomini circa che ci restano illesi, noi dobbiamo ordinarli in quattro sezioni ed in colonna serrata, assaltare il nemico di fronte e proseguire per lo stradale, con marcia tanto celere quanto sarà possibile, sino a raggiungere Tora ove, senza dubbio, noi troveremo il nostro prode Chiassi con un battaglione dei nostri. — I feriti!» — e qui un mortale sudore inondò il volto del guerriero ed un freddo brivido gli corse per tutto il corpo. — «I feriti, coloro che possono marciare, seguiranno la colonna, ognuno dei nostri cavalli porterà due dei feriti nelle gambe; i mortalmente feriti!...» Qui Nullo non potè proseguire le istruzioni.
Meglio distruggerli sarebbe stato! essi sarebbero morti lo stesso, ma senza insulti, senza raffinatezza di tormenti, senza essere torturati dalle iene fanatiche assetate del loro sangue.
Bello è l’uomo che si sacra alla morte per una causa santa! E fattone il proponimento, egli la affronta con rassegnazione, colla tranquilla ilarità d’uno sposo!1
Che Dio (l’Infinito) benedica gl’italiani che nell’anima generosa nutriranno il sacro proposito di non lasciare mai più la loro bella patria ludibrio di soldato straniero!
Nullo aveva alla sua destra Lina che portava in anca Marzia gravemente ferita in una spalla. — Egli portava Virginia ferita nel petto; Muzio e P... avevano ciascuno un ferito. P..., che non volle abbandonare il posto d’onore dell’avanguardia, aveva con sè il suo tromba con il braccio destro rotto da una palla ed impugnando l’istrumento colla sinistra. Al momento di principiare la marcia, un’ultima disperata carica dei borbonici obbligò la piccola colonna dei liberi a fermarsi. Ma trovati in ordinanza ed eseguendo l’ordine di non scaricar le armi che a bruciapelo, le due fila di fuori — i nobili figli della libertà italiana — cacciarono i soldati del prete come polve, e ciò permise loro d’imprendere subito dopo la marcia meno molestati.
Un incidente, favorevole ai nostri, successe pure nell’ultima carica del nemico. Il gesuita, disperato, furibondo di vedere fuggire le prede, tanto fece da persuadere i capi del suo esercito di tentare un’ultima carica. Ma i suoi soldati, già stanchi ed impauriti dall’intrepidezza dei nostri, abbiam veduto come se la svignarono a gambe, e s’udirono varii dei fuggenti, tanto acciecati dal terrore, che passando vicino ad una pianta e prendendola per un nemico, gridavano: «Signor liberale: mi arrendo, mi arrendo!»
Non fu la sola fuga degli avviliti cafoni, la fortuna del valoroso avanzo dei trecento; ma Corvo stesso, che, come capo supremo, trovavasi a cavallo, e che, rabbioso di non poter spingere i suoi all’assalto, s’era avanzato primo, e venuto alle mani con P..., più forte e più svelto di lui, fu rovesciato da cavallo da una sciabolata attraverso il muso, e consegnato prigioniero nel centro della colonna.
Fu valevole cattura quella del Loiolita; ed alcuni dei villici, che, più vicini a lui, l’avevano veduto cadere, lo diedero per morto; e colla perdita del capo ebbero pretesto di ritirata tutti quei paesani, che preferivano certamente una cena in seno alle loro famiglie — alle avventure guerresche, nelle quali erano stati trascinati dai preti, ed alla gloria del paradiso.
Non così i cacciatori dell’esercito borbonico: trincierati dietro alle barricate, essi sostennero tenacemente l’urto della colonna dei liberi; e solo dopo una mischia accanita, essi volsero le spalle e si arrampicarono sulle falde dei monti, di dove danneggiarono ancora per un pezzo i nostri, e ne turbarono la marcia.
Note
- ↑ Nell’ultima guerra nord-americana un milite a cui dovevano amputare una coscia, chiese un violino e si mise a suonare mentre l’amputavano. - Il maggiore Brida al combattimento di Melazzo, ferito al collo, cadeva gridando: «Viva l’Italia!»