I Mille/Capitolo LVI

Capitolo LVI. Combattimento di Sora

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Capitolo LVI. Combattimento di Sora
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CAPITOLO LVI.

COMBATTIMENTO DI SORA.

Non la siepe che l’orto v’impruna
     È il confin dell’Italia, o ringhiosi!
     Sono l’Alpi il suo lembo, e gli esosi
     Son le turbe che vengon di là.
      (Berchet).


Ma come si fa! come non saranno ringhiosi gli abitatori di questa infelice penisola, quando l’inferno vi vomitò il levita prete, maestro potentissimo d’ogni corruzione, e massime d’ogni discordia, e che per sventura tanto si è radicato, da diventarne lo svellimento, se non impossibile, almeno difficilissimo, sia per la protezione dei potenti, che se ne servono per santificare le loro scelleraggini, sia per l’imbecillità dei popoli, allettati dal paradiso e spaventati dall’inferno, frutti del loro idiotismo, sia infine per la manía del dottrinarismo, che in questi nostri giorni ha vestito, sulla rossa tunica del repubblicanismo purissimo ed esclusivo, la rancida sottana del prete!

Sino a Subiaco i nostri amici ebbero discreta strada; ma da codesta città a Sora, essi furono [p. 326 modifica] obbligati a percorrere dei sentieri quasi impraticabili, e per disgrazia, anche deteriorati dalle piogge settembrine. A misura che gli ostacoli naturali crescevano, essi ne trovavano pure degli artificiali, che i preti facevano costruire dai montanari, a cui dispoticamente comandavano. Piante rovesciate ed attraversate sui sentieri; i sentieri tagliati da fossi profondi, ed in certi luoghi gli stessi fossi ricoperti con rami sottili e verdi zolle, su cui il viatore, mettendo il piede, profondava in un precipizio; e ponti di legno tagliati o bruciati, con altri ponti in materiale, distrutti.

Si aggiunga a tutto ciò i terribili torrenti delle montagne, ingrossati dalle pioggie, e spumanti fra i massi dei loro letti, come i marosi in una tempesta di mare, e che pur attraversare bisogna, per cercare dei viveri, e proseguire la meta del viaggio.

I ministri del Dio di pace, poi, avevano ammaestrato i contadini a far delle imboscate e fucilare i loro fratelli dietro da ripari, come se fossero belve.

A Trevi, a Tilettino, a Civitella, a Rovetto e a Balserano, furono i nostri ricevuti a fucilate da gente imboscata in posizioni quasi inaccessibili. Il Capo che comandava i trecento, ed i compagni suoi, erano gente, però, da non indietreggiare davanti alle insidie, alle minaccie e alle imboscate dei chercuti.

Quando scorgevasi il primo fuoco d’un’imboscata, il nostro P..., figlio di monti più alti degli [p. 327 modifica] Apennini, e che formava l’avanguardia colla sua centuria, lanciavasi come un capriolo, gridando: «in carica!» ciocchè eseguivano i militi, senza fare un tiro.

Si suppone certamente che i cafoni non aspettavano la tempesta dei liberi, e se la davano a gambe fuggendo precipitosamente e raccontando poi che sotto l’assisa della rossa camicia essi avevan scoperto la simbolica figura del demonio; — codardia che solleticava i chercuti, interessati a mantenere il popolo nell’ignoranza e nell’abbrutimento.

È certamente codesto il vero modo di rispondere alle imboscate: caricarle al primo indizio, se ne esce sempre meglio — e caricarle senza far fuoco, poichè commettendo l’imprudenza di tirare dallo scoperto, contro gente coperta, è sempre fatale.

A Sora l’affare fu più serio, essendo la forza nemica maggiore, ed essendosi questa fortificata a circa mezzo miglio dalla città in una stretta formidabile.

Gli esploratori nostri, però, avendo avvertito il capo che molta forza nemica nascondevasi dietro i ripari che si vedevano di fronte, Nullo pensò saviamente d’inviare un terzo della forza a girare il nemico per la sua sinistra — ciocchè fu eseguito, con grandissima difficoltà però, da P... colla sua centuria.

La prima centuria, comandata da Muzio, capo di stato-maggiore, ed all’ordine immediato del [p. 328 modifica] comandante, doveva attaccar di fronte, mentre Orazio colla terza centuria stava di sostegno e pronto ad eseguire i movimenti e gli ordini del capo.

Qui accennerò, per istruzione dei giovani militi, che la situazione babilonica dell’Europa porterà ancora sui campi di battaglia, alla necessità d’una forza disponibile per attaccare il nemico di fianco mentre si attacca di fronte — disposizione sempre utile, quando possibile, ma particolarmente in posizioni forti come quelle occupate dai sanfedisti nella presente occasione.

Alle prime fucilate della sinistra nemica contro l’assalente, seconda centuria, Nullo ordinò la carica, ed i suoi prodi, assuefatti ad assalire a ferro freddo, furono in un momento sotto le barricate nemiche, e poco soffrirono dalla grandine di palle che partivano da quelle.

Soffrì di più la terza centuria che, caricando in coda, riceveva le cariche sfioranti le teste di coloro che precedevano. Essa ebbe la sensibile perdita di sei morti ed una dozzina di feriti, più o meno gravemente, tra cui il valoroso capitano con una palla in fronte che fratturò il cranio, ma non lo perforò, per fortuna, rimanendo il proiettile conficcato a guisa di verruca tra la cute e la parte ossea.

Orazio cadde e lo si credette morto per un pezzo; solo dopo il combattimento, raccolto dai suoi per seppellirlo, si riconobbe che respirava ancora, e fu portato nella prima casa. [p. 329 modifica]

Benchè molto più numerosi i soldati dei preti, non sostennero a lungo la mischia coi figli della libertà, ed incalzati a baionettate nelle reni, essi fuggirono verso la città, che sgombrarono immediatamente all’arrivo dei nostri.

Alla folla dei fuggenti sanfedisti seguì altra folla — spettacolo veramente miserando — di fanciulli, donne e preti coperti di stole portando il Santissimo — come lo chiamano gl’impostori — implorando ed impetrando — lordi di sacrilegio — il concorso dell’Onnipossente all’esterminio degli eretici, nemici del re e della santa religione (la pancia di quei mostri).

Avevan però mancato all’appello le legioni di angioli che i preti promettevano agl’imbecilli e che dovevano cacciare come nube al vento gli eserciti maledetti. E qui ci facevan l’onore d’immedesimarci coll’esercito condotto contro di noi da Farini.

Non giungendo le legioni d’angeli e fuggendo, a rompersi il collo, quelle dei cafoni, i nostri rimasero padroni assoluti di Sora, ove prima cura fu quella dei feriti e poi quella di seppellire i morti. In Sora poterono i liberi rifocillarsi dovutamente e provvedersi di viveri e di munizioni per continuare il faticoso viaggio, non essendo prudente di soggiornare molto tempo in un paese ove da un momento all’altro essi, potevano essere assaliti da forze molto superiori.

Comunque, essi furono obbligati di rimanere due giorni essendovi dei feriti gravemente, come [p. 330 modifica] il capitano Orazio, che a qualunque costo non si volevano lasciar indietro perchè tutti sarebbero stati inesorabilmente massacrati. Sembrerebbero esagerazioni, eppure sono verità sacrosante; meglio cader nelle mani dei selvaggi antropofaghi del nuovo mondo che in quelle dei preti o dei loro seguaci! Sventuratamente ogni tardanza era fatale ai trecento e dava tempo al nemico d’ingrossare sulla linea ch’essi dovevano percorrere. Dacchè vi furono dei feriti nella colonna, Virginia si assunse la custodia di essi, ora coadiuvata dalle belle sue compagne ed ora da altre donne benefiche che non mancavano, malgrado la corruzione del prete, e da chirurghi; imperocchè, essendo la casta dei volontari composta per lo più di giovani agiati ed intelligenti, è sempre facile di trovar tra loro dei medici-chirurghi e formare delle ambulanze.