Guerino detto il Meschino/Capitolo VII

Capitolo VII

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CAPITOLO VII.


Il Meschino va per la bassa ed alla Tartaria. Uccisione del gigante Macus, e varie altre avventure fino al suo partirsi d’Armenia.


II
mprendo a parlare di fatti maravigliosi. Partita che fu la galea dal braccio di San Giorgio pel mar Maggiore, navigò verso la Tana per molti giorni tanto a remi quanto a vela secondo il tempo. Arrivati allo stretto di San Moro presso la Tana, a duecento miglia presero porto alla cava d’un fiume grandissimo. II Meschino smontò, armossi, e montato a cavallo partissi dalla galea. Andò per la riva di questo fiume fino ad una gran montagna detta Coron, poi si volse verso Colchi per terre di Saraceni, ed abbandonati i nostri mari, andò verso il mar Caspio con diversi nomi appellato per le provincie che gli stanno intorno, e che alcuni navigando questo mare chiamano il mar Tartaresco, perchè verso tramontana abitano i Tartari bassi, i quali sono di più umana cognizione mercatanti e più inciviliti.

Quelli all’incontro chiamati Tartari Macabei, sono gente [p. 62 modifica]bestiale, e vivono come lupi e cani senza nessuna legge e mangiando carne cruda. Non è al mondo altro che due generazioni di Tartari: i Tartari bassi, che hanno corpo umano, e quelli che si appellarono Tartari Macabei, che son quelli Cinamoni, i quali, cioè, hanno corpo di cane. E questa generazione abita per le caverne nelle montagne. La Tartaria che dal mar Caspio s’estende fino al mar di Fiandra per l’Asia, l’India e la Persia, quasi da levante a ponente, e che verso tramontana fredda confina coi Teutonici, cioè Lamagna, ha gli abitatori comunali. E questi sono i bassi Tartari tutti trafficanti e nemici di quelli della Tartaria superiore, i quali sono bestiali e tutti giganti. Si cibano di carne cruda, ed abitano nelle più alte montagne di Belur, d’onde viene il gran fiume di Daria. Quelle sono le più fredde montagne del mondo, e qui si dice che nasce il cristallo, la qual cosa è d’acqua ghiacciata per lunghezza di tempo convertita in pietra solida.

Voltato adunque il Meschino a mano diritta verso Colchi, trovò certi villaggi e castella, dove egli addomandava in lingua turchesca la via verso Armenia, non volendo andare a Colchi, perchè essi eran Saraceni. In poche giornate giunse in Armenia, ovvero in un reame all’Armenia sottoposto, chiamato Iberia. Vide la città de’ Tarmagosiani, dove sono uomini molto grossi ma non molto grandi e maggiori de’ Turchi, cioè, hanno essi il viso più grande che i Turchi non hanno; e molte altre città e castella, finchè passato il fiume Eufrate, giunse a Zatar, ovvero Cretar, città sul mar Caspio, dove alquanti giorni si riposò. Queste genti sono belle, sì uomini come donne; sono tutti bianchi ed hanno i capelli biondi, quando poi s’invecchiano diventano negri, per lo contrario de’ Greci.

Il Meschino partito di Zatar, andò alla città d’Albania, la quale è capo del regno, e fugli fatto grand’onore. In questa città maschi e femmine hanno i capelli lunghi, usano nel vestire panni di lino la maggior parte bianchi, e vestono largo. Partito dagli Albani bianchi vide ancora molte grandi città e passò molti grandi fiumi che entravano nel mar Caspio, per lo spazio dì giornate trenta. Poi si partì del mar Maggiore, e giunse pel mar Tartario al detto fiume Daria, che parte la provincia del mar Maggiore [p. 63 modifica]dalla bassa Tartaria e dal mare Caspio. E come giunse il Meschino a questo fiume, non sapeva l’usanza cotidiana del medesimo, il quale di notte agghiacciava, e si disghiacciava di giorno, per lo che non lo si può passare se non quando è ghiacciato. Il Meschino fattosi di ciò accorto andò pur sopra il fiume nottetempo verso una montagna, la quale si dice Caucaso, e trovò andando molti deserti, ed ebbe gran paura di morte e gran fame sofferse. Ed alla fine di molte giornate arrivò presso la montagna.

Un giorno camminando egli lungo la terrazza sulla riva del fiume vide venire un uomo nudo, tutto peloso e della statura di gigante. Quell’uomo aveva intorno al petto e le reni pelle di bestia, ed aveva in mano una mazza di mezzo albero di smisurata grossezza. Il Meschino quando lo vide, ebbe gran paura, dismontò da cavallo e prese la lancia in mano ed andò verso il gigante, pregando Dio che l’aiutasse da morte.

Quivi cominciano le grandi imprese del valoroso paladino, e dimostrò ben egli in ogni ventura, che sangue non vile doveva scorrere nelle sue vene. Guerino fu grande in tutte le fortune, e fece a’ mortali di grandissimi beni, togliendo dal mondo i giganti e castigando i malfattori e tiranni. Udite ora come si portò col gigante, che aveva nome Macus.

Quando egli fu appresso al gigante, questi gettò un grido molto forte, e ciò fece o per mettere a lui paura, o che la moglie il soccorresse, il perchè dopo di lui vide una femmina grande come il gigante. Quel grido impaurì il cavallo del Meschino a segno che fuggì attraverso per la selva impetuoso. Il Meschino pure non si perdette d’animo, ma si accostò fieramente al gigante, e lanciogli la lancia nel petto, sicchè lo passò in sin di dietro. Il gigante gettò allora in terra la mazza per cavarsi la lancia dal petto. Quando il Meschino il vide così ferito, e che egli attendeva alla lancia, diedegli un tal colpo addosso, che gli tagliò una gamba di netto. Per questo colpo il gigante cadde tramortito in terra. Il Meschino che aveva veduto come male aveva saputo difendersi, conobbe che egli era uomo selvatico con pochissimo ingegno. Nel cadere mandò il gigante un grido, per modo che poco stando, giunse una femmina molto pelosa, con dietro quattro figliuoli, e mandando anch’essa grandissime [p. 64 modifica]grida. Il Meschino aveva già tratta la lancia dal petto al gigante che era morto, ond’è che rivolto alla femmina vibrolla in lei e passolle una coscia, mentre essa ferocemente urlava. Volendosi poi con molta fatica cavar fuori la lancia, il Meschino le tagliò una mano. Allora dimostrò di volersi gettare addosso a lui medesimo, per cui egli le diede tal colpo sul capo che glielo partì per mezzo. Così cadde morta. — Finiti quei due, il Meschino si rivolse contro i quattro figliuoli, e tutti e quattro li uccise, acciocchè la smisurata grandezza non moltiplicasse. Quando li ebbe tutti morti, si fermò a guardarli per conoscere appieno quella mostruosa generazione, e vide che essi erano lunghi braccia dieci, di smisurata grandezza e di estrema grossezza, e che tra le altre cose avevano tre volte maggiore il volto che non si conveniva alla loro grandezza e terribile statura, ed avevano le labbra grosse più che gambali, e tutta la persona pelosa, salvo che in certe parti del viso, e grandissima natura da ingenerare. Aveva il gigante gli occhi grandi e le orecchie piccole, e la femmina aveva grandissimo il viso e piccioli gli occhi. Allora il Meschino s’immaginò che tutta la generazione de’ Tartari chiamati Macabeos, fossero a questo modo gente salvatica che mangiano la carne cruda come fanno i lupi ed i cani. Aggiugni che tra questi quattro figliuoli era dentro una femmina, fatta proprio di tutte le membra com’era la madre. Per questa similitudine conobbe la lor natura, e pensò che tutti gli altri di quella stirpe fossero così.

Quando il Meschino ebbe stimato, come eran fatti i Macabeos o Tartari, vedendo che altra gente per la morte di costoro non si dimostrò, immaginò che dovevano esser soli come gli aveva egli trovati, per la qual cosa rivolse la cura a ritrovare il cavallo. Si trasse l’elmo e le armi dalle gambe, e lasciò lo scudo e la lancia, poi andò dietro al suo cavallo e fece gran fatica a riaverlo. Poichè l’ebbe preso, ritornò alle sue armi, e montato a cavallo stava fra due pensieri, di ritornare indietro, ovvero di andar innanzi e passare il fiume, temendo che se egli andava più avanti verso la montagna che vedeva davanti a sè, alla fine gli converrebbe andar su per il fiume. Tuttavia si attenne a questo ultimo consiglio, ma la notte albergò su la riva del fiume senza mangiare niente. La mattina andò verso la montagna, ed essendo [p. 65 modifica]appresso il monte un terzo di lega, trovò una testa di morto, che di poco pareva morto, ed intorno alla testa erano le ossa del busto. Credette allora che il gigante Macus l’avesse mangiato. Giunto alcuni passi più in su trovò altre teste. Alcune di esse puzzavano, e della maggior parte erano solo le ossa. Per questo ebbe voglia di ritornarsene; ma parvegli una viltà a volgere indietro, e non sapere di questa ventura che egli cercava. Arrivato che fu appresso del poggio trovò una testa morta di fresco, cioè di uno ovvero di due giorni, ancora coi capelli, ed aveva una chierica che pareva di un prete. Ebbe tanto maggior paura, che vide una caverna nel seno della montagna temendo che gente non vi fosse dentro. Questa caverna era una grotta alla quaranta braccia incirca, e non vi si poteva andare se non per uno stretto sentiero fatto a mo’ di scala nella rupe. A piè di questa caverna e del monte erano molti luoghi dove si era fatto fuoco, per cui s’immaginò il Meschino che che questa caverna era il luogo dove si riduceva il gigante morto, essendovi ancora gran monti di legname che il selvatico uomo aveva radunato.

Il Meschino smontò da cavallo, e legollo ad un albero, poi tratta la spada ed imbracciato lo scudo salì su per lo sentiero in fino all’entrata della caverna. Là fermossi e chiamò forte: «Chi è qua entro?» E nessuno rispose. Egli pur fortemente temendo, entrò dentro, e trovò un grandissimo spazio e non molta erba secca. Il Meschino molto si maravigliava, e lodava Dio di questa buona ventura, raccomandandosi a lui. Così stando sentì come molta gente lamentarsi, ed egli accostandosi verso la voce, vide una pietra che venti uomini non avrebbero potuto muovere o levare. Il Meschino gridò: «Chi sei tu?» E tolse la sua crocetta in mano temendo che quello non fosse il demonio che lo volesse ingannare. Per la qual cosa scongiurandolo di nuovo riprese a domandare:

— Chi sei tu che ti lamenti?»

Rispose uno che era sotto a quella pietra, e che intese il parlar greco, dicendo:

— Io sono un prete d’Armenia che sono in una oscura grotta sotto questo sasso. Ma chi sei tu che domandi chi sono io?»

Rispose il Meschino: — Io sono uno sventurato cavaliere che [p. 66 modifica]vo cercando la mia fortuna». Allora il sepolto dissegli: — Partiti di qui, chè se il gigante ti trova, ti metterà qua entro, dove siamo noi due, e mangieratti come mangiò il mio compagno che vidi mangiare cogli occhi miei.

— Quanti giganti sono? l’interrogò il Meschino.

— Uno, rispose l’altro, ed una gigantesca con quattro figliuoli».

— Se non v’ha più che questo, riprese, io non ho paura, imperocchè li ho morti tutti sei».

L’altro compagno che era in questa prigione coll’Armeno, disse allora in parlare francese: — O caro fratello, se tu puoi, cavaci di questa sepoltura!» Il Meschino, che pensava al modo più facile per confortarli ambidue, così rispose al Francese: — Fratello, non dubitare, che a mia possa ti ajuterò; ma dicoti che dieci uomini non potrebbero muovere questo sasso che è sopra di voi».

Pure il Meschino si provò, e cominciò colla punta della sua spada a rompere da lato il terreno. Così ruppe sotto tanto, che fece una bocca, donde trasse fuora a gran pena il prete, e poi cavò il Francese. Trattili fuora, dimandò loro se avevano niente da mangiare in quella prigione oscura. L’Armeno rispose: — Noi abbiamo delle castagne e delle ghiande; chè quel gigante, che tu hai morto, mangiava carne umana, nè di quelle cibavasi». Intanto quel Francese s’inginocchiò dinanzi al Meschino, e baciogli i piedi, ed in sua lingua molto lo ringraziò. Venuti per uscir fuori di quella caverna, come il Francese vide l’aere, subito cadde in terra, per la lunga dimora che aveva fatto in quella prigione, e per la mala vita del mangiare.

Tornato il Meschino dove aveva lasciato il cavallo, co’ liberati prigioni, disse loro: «Per mia fè io ho gran fame, essendo presso a due giorni che non ho mangiato». Nel mentre proferiva egli queste parole andando, trovò un’altra caverna che aveva dinanzi alla bocca un sasso. Vi levarono quello, e uscirono dalla caverna molte pecore che correvano di sopra a pascere, e sopra quelle pecore era un altra tana piena di castagne monde, per lo che di quelle essi fermarono consiglio il cibarsi. Il Meschino e i compagni presero un agnello che scorticarono, ed arrostito mangiarono con quelle castagne. Di là partiti, l’Armeno ritornò dove il Meschino aveva veduta la testa del compagno. Pianse e sotterrolla con altre [p. T9 modifica]Trovò una testa morta di fresco. [p. 67 modifica]teste ed ossa di morti; poi la notte dormirono tutti nell’erba secca di quella prima caverna. Dopo alquanto dormito, il Meschino cominciò domandare quegl’altri del modo che essi erano arrivati in quelle contrade, e come avevano nome.

Il Francese cominciò e disse: «O gentiluomo, io sono d’una città che ha nome Bona di Guascogna, e chiamomi messer Brandisio; poi soggiunse: io mi trovai con alcuni di Francia ad una bella e magna festa, a cui erano convenuti più di cinquanta cavalieri, ed io con loro. Io ed un mio compagno, per nome Samiradori, con molti altri di que’ cavalieri, essendo innanzi alla corona1, ci vantavamo di molte cose. Noi due vantavamo di cercar tutto il mondo [p. 68 modifica]per mare e per terra a fine d’onore. Così tra noi due ci diemmo la fede fino alla morte di mai non abbandonarci l’un l’altro. Per questo motivo si partì per andare alla ventura, e cercammo prima Inghilterra, Irlanda, Nortlandia e la Scozia, vedemmo poi la Fiandra, Frigia bassa ed alta, Ungaria, Boemia, e la bella Italia, colla Corsica, Sardegna, Majorica e Sicilia. Venuti a Brindisi passammo a Durazzo, di là volgemmo alla Dalmazia, Croazia, Albania, e cercammo l’Epiro, la Macedonia, e tutta la Morea e Grecia. Tornando in Tessaglia, si scorse tutta la Romania perfino a Costantinopoli, e di là andammo alla Tana per terra, e venimmo a Colchi. Abbiamo trovata l’Armenia, e quindi stavamo per andare nella bassa Tartaria, quando, veduto il mar Caspio, giungemmo a questo fiume. Erano già scorsi due giorni che noi eravamo venuti su per lo fiume, quando quel tristo gigante incontrossi in noi. Ci guatò con occhi di fuoco, battè i denti e c’assalì. Al primo colpo prese il mio compagno e me. Il mio compagno strozzò, e me mise in questa grotta, nella quale sono stato diciotto dì, fino al momento, che il cielo ti mandò in mia liberazione». Il Meschino, che aveva ascoltato con molto sentimento tutta quest’istoria, confortò messer Brandisio, dicendogli: «Per mia fe’ tu sarai per l’avvenire mio compagno, se lo ti sarà in grado». Messer Brandisio lo ringraziò di questa cortesia, ed accettollo per signore, non per compagno.

Subito dopo il Meschino si rivolse all’Armeno, interrogandolo anche de’ suoi casi, e gli fe’ da principio la solita domanda. «Gentiluomo di donde siete voi?»

L’Armeno rispose in questo modo: «Io sono d’Armenia e cristiano.

Ha pochi giorni che venni d’Armenia con un mio compagno, ed andavamo in Tartaria bassa per visitar certi dell’Ordine nostro. Ma per ciò passando in Albania a vedere que’ nostri fratelli, e volendo seguitare il viaggio, non ci fu concesso passare il fiume pel gelo. Allora venimmo verso il mare, ed erano tre giornate che [p. 69 modifica]andavamo sopra la riva di là, quando, dopo camminato un pezzo, incontrammo lo stesso malvagio gigante, che Brandisio, il quale quelli di Tartaria bassa chiamano Macabeos. Noi avemmo gran paura di lui, ed egli ci prese ambidue, e d’una mano in mia presenza cavò il capo dal busto al mio compagno, spezzollo pezzo a pezzo, gittollo sui carboni ardenti e mangiollo. Me poi mise in conserva nella caverna, donde tu mi hai tratto con questo cavaliere di Francia». Poi che ogni uomo ebbe detta la sua ventura, il Meschino disse la sua, acciocchè intendessero anch’essi i fatti suoi. Il suo racconto fu tanto pietoso, che fece lagrimare amaramente messer Brandisio e il prete; ma si rallegrarono molto al racconto della morte del gigante. Il Meschino narrò parte a parte l’incontro terribile, e la poca difesa che quello aveva fatta quando egli l’assalì, finalmente la morte della femmina e dei figliuoli2. Poi disse: «Ora voglio passare il fiume e andare verso Levante». L’Armeno sentita questa decisione, lo consigliò di molte cose, ed in fine, come dotta persona, gli diè tale avviso:

«Ciò non fare, imperocchè ella non è buona via. In questa Tartaria bassa non è altra gente che questi maledetti inimici di Dio, della qual genia ne troveresti più andando verso tramontana; ma da queste montagne in giù verso ponente non ne abbiamo, perchè vi abitano de’ battaglieri che la consumano cogl’ingegni e saette, e co’ cani. Aggiungi che sono grandissime selve e laghi d’acqua che durano più di quattrocento miglia. Per la qual cosa meglio sarà tornare in Armenia per mare. In questo modo noi andremo in Tarlaria bassa, dove per la morte del gigante ti sarà fatto grande onore, e ti faranno portare in Armenia, conciossiachè, volendo andare agli Alberi del Sole, sia questa la via. Il Grande Alessandro vi andò per Soria, per l’Asia e per l’India: e furono quelli del mare Indico che gl’insegnarono a trovare gli Alberi del Sole e della Luna. Dunque andiamo in Armenia, dove, come nell’India, vedrai molti nobilissimi paesi, ed infinite città abitate da’ Cristiani e Saraceni, ed insieme ne troverai miglior via per la Soria e per la grande regione di Media; laddove, andando tu per la via che dici, [p. 70 modifica]troverai selve selvaggie ed asprissime, e molti crudelissimi Macabei giganti».

Al Meschino piacque molto il consiglio dell’Armeno; così e’ si partirono togliendo con loro pecore, agnelli e castagne, per aver che mangiare per la via. La notte seguente passarono il fiume Daria camminando su per il ghiaccio; e dopo partitisi dalla montagna e passato il fiume, e camminato cinque buone giornate, giunsero ad un altro fiume che fa l’isola della bassa Tartaria, il quale non s’agghiaccia come fanno quelli altri due che vengono dai monti [p. 71 modifica]Belur. Eglino allora videro di là due fortezze fatte guardia di questo passo, e tutta la provincia. Come poi furono veduti da quelli della guardia, comparve al passo molta gente a piedi ed a cavallo, e con bontà e cortesia mandarono due navi picciole per loro, che avevano a passare. Il capitano, passati ch’essi furono, venne domandando loro chi erano e d’onde venivano. L’Armeno gli rispose: «Messer lo capitano, noi diremo il tutto,» e dissegli arditamente quanto era intervenuto, e come questo cavaliere aveva ucciso il Macabeo e la sua maledetta femmina con quattro figliuoli. Il capitano che ciò intese, disse che non poteva essere, e appresso soggiunse: «Io voglio mandar a vedere s’egli è vero, e voi accompagnerò fino al re della provincia,» e subito fece egli armare ventisei cavalieri, provvedendo vettovaglia e cavalli per ciascuno, con archi ed armi per lor difesa. Il Meschino ed i suoi compagni furono intanto ricevuti fino al ritornare di que’ cavalieri.

In capo ad otto dì i cavalieri tornarono con grande allegrezza, dicendo come avevano trovata la giusta verità. Per questo fu fatto grande onore al Meschino, ed i cavalieri col capitano fecero loro in persona compagnia fino alla maggior città di quel reame, dove furono presentati al re, il quale si dimostrò molto allegro di quella novella. A tutti loro insieme poi fece grande onore, ed a messer Brandisio donò un grosso cavallo per amor del Meschino. Quel re faceva molte maraviglie che un sì picciol uomo avesse ucciso un sì grande gigante, e più si maravigliava, come il Meschino avesse avuto tanto ardire e virtù d’aspettarlo ed affrontarlo. Pregò il Meschino che domandasselo pure di qualunque grazia egli volesse; per cui egli domandò una nave che lo portasse in Armenia grande. La nave subito fu apparecchiata, e con questa partitisi di questo paese, per il mar Caspio ritornarono navigando in Armenia, e giunsero alla cava d’un fiume che si chiama Eufrate, il quale dicono le istorie essere uno dei quattro del paradiso terrestre. Ed è per l’imboccatura appunto di questo fiume Eufrate, che il Meschino entrò nel reame di Siria, e vide la città di Babilonia, insieme a Brandisio, poichè l’Armeno erasi già da loro diviso, il quale restossi in Armenia.




  1. Qui pare che vogliasi accennare ad una delle così dette Corti d'amore. Le corti d'amore hanno sì stretta relazione colla cavalleria, che formano di questa presso che il principale elemento. Erano sorta di tribunali più severi che terribili, in cui la bellezza per l'influenza che allora esercitava sugli animi e sull'opinione, proferiva sentenze sull'infedeltà ed incostanza degli amanti, sui capricci delle loro belle, e faceva delle serie disputazioni intorno l'amore. Le corti d'amore debbono la loro origine agli amorosi componimenti de' trovatori ed alla moltitudine delle avventure cavalleresche che dal cominciare del secolo XI produssero in prosa ed in verso. Eranvi altrettante grandi e piccole corti, quante erano le baronie o contee, ed in esse faceva ognuno a gara nello sfoggiare in lusso e divertimento, cercando così d'intrattenere i cavalieri erranti. I trovatori scorrevano que' soggiorni di guerra e di delizie intrattenendo a tavola e nelle lunghe sere d'inverno uomini e donne con canti maravigliosi di vicende guerresce ed amorose. Quante avventure segnalarono questi tribunali, e quante quistioni che ora parrebbero ridicole vi furono mai agitate! Basta leggere la storia del Codice d'amore per formarsene una giusta idea. Qui però quell’innanzi alla Corona, se non vogliasi intendere per una corona convegno di belle e leggiadre dame, pare voglia risguardare al principe che presiedeva a cotali feste. Poichè nelle provincie settentrionali della Francia e durante il quattordicesimo secolo sotto il regno di Carlo VI, Lilla nella Fiandra e Tournay avevano il loro principe d’amore. Una prova ne abbiamo in un manoscritto antico esistente nella biblioteca del re, che ci regala di notizie importanti intorno alla corte amorosa ed ai re dell’Epinette. Questa corte era divisa in varie classi d’uffiziali, primi dei quali erano i più illustri personaggi di Francia, di Borgogna, di Fiandra e d’Artois. In simili corti le dame non sedevano, o se pur sedevano, erano dopo il presidente ed i consiglieri, come lo dimostra Marziale d’Alvernia in questi versi:

    Apres y avait les déesses,
         En moult grand triomphe et honneur,
         Toutes légistes et clergesses
         Qui scavoyent le décret par coeur.
         Toutes estoyent vestues de verd, etc.
                                       Arresta Armorum

    Nella Francia meridionale è famosa la processione della festa del Corpus Domini in Aix. Per questo s’istituì un Principe d’amore. Questo principe era eletto ciascun anno e preso dalla nobiltà. Il Principe d’amore, e dopo lui il suo luogotenente, soleva imporre un’ammenda chiamata Pelote a tutti que’ cavalieri che avessero fatto l’affronto alle damigelle di sposare una straniera, e a tutte quelle damigelle che con uno straniero maritate si fossero.
    Nota che a queste feste intervenivano molti cavalieri, i quali per ottenere amore o gloria, si vantavano di grandi imprese, e quelle dovevano condurre a fine, donde poi quelle mille avventure di erranti paladini.

  2. Il Guerino al Caucaso! A chi non rivela quest’azione il più sublime della poesia di quel secolo maraviglioso? Al principiare delle sue avventure eccolo già condotto in quella regione piena di maraviglie, là ove torreggiano scoscese rupi e durano eterni i ghiacci, dove che sotto i ghiacci si estendono fertili campagne e praterie ridenti coperte d’ulivo, di cipressi, datteri e fichi, e che la famosa spedizione degli Argonauti, e la grande allegoria di Prometeo improntarono della più sublime ispirazione. Di questi antichi popoli abitatori nella regione Caucasia, conosciuta volgarmente sotto il nome delle sue principali provincie Giorgia e Circassia, e di cui i Tartari o Tatari fanno gran parte, molte grandi cose ci tramandarono le tradizioni; ed una principale è questa istoria di giganti. Gli annali mitologici dell’Oriente ci mostrano le balze del Caucaso popolate da dives, sorta di giganti che regnano sopra tutto il globo abitabile. E la greca mitologia deriva questo nome da Caucaso, pastore, il quale conducendo a pascere la sua greggia sul monte Nifate in Asia, fu ucciso da Saturno, ch’erasi in quel monte nascosto dopo la guerra dei giganti, per evitare l’effetto delle minaccie di Giove, il quale poi da quel monte lo precipitò nel Tartaro. Il padre degli Dèi per consacrare la memoria di quel pastore volle che quel monte togliesse il nome di Caucaso.
    La tradizione posa in questa montagna la famosa muraglia che orlava la cresta del Caucaso dal ponte Eusino al mar Caspio. Alcuni attribuirono ad Alessandro il Grande la costruzione d’un tal baloardo, quantunque non abbia egli mai veduto que’ luoghi. Ma agli uomini maravigliosi tutto quanto di più maraviglioso si può inventare si concede. Maometto istesso fa allusione al conquistatore di Macedonia parlando di questo muro, e di là appunto a questo riparo mette i discendenti di Gog e Magog, predestinati a devastare la terra poco innanzi la fine del mondo. Questi popoli crudeli deggiono esser gli Sciti-Meoti. Gli storici dell’Oriente dicono che gli Yadgug ed i Madgug, sono giganti di taglia ed altezza prodigiose con ugnoni e denti incisivi come gli animali carnivori, ed alle cui rapacità partecipano. Per questo Macabei sono chiamati dai due vocaboli Greci machi e kubesos pugna e vorax, come costretti ad essere continuamente in guerra per quella fame insaziabile del sangue umano, detti poi anche Cinomani, per deturparli maggiormente colle forme ed avidità del cane.
    Ma questi Antropofagi esistono realmente? Basti il dire che Marion, celebre viaggiatore francese, che visitò la nuova Zelanda nel 1770, dopo di aver vissuto più che un mese intiero famigliare con Tacury, capo di quegl’indigeni, fa dal medesimo sotto il pretesto di una festa tratto in un’imboscata e sterminato con molti de’ suoi. I Francesi accorsi alla vendetta de’ loro compagni, trovarono le vestigia più ributtanti del furore col quale avevano que’ barbari divorate e rose le membra ancora palpitanti di coloro, cui poche ore prima abbracciavano come amici. Difatti i popoli della nuova Zelanda usano tagliare a pezzi i vinti nemici, anche quando non sono morti del tutto, di farli quindi arrostire e mangiarli fra molta allegrezza. E non ne abbiamo anche veduto fra noi di simili aberrazioni?

    La natura dilettasi talvolta di mostri!