Guerino detto il Meschino/Capitolo VIII
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CAPITOLO VIII.
Le grandi avventure del Meschino nella Media.
Cominciarono a cavalcare per quel regno, finchè arrivarono a certe montagne, che secondo tutti i geologi, sono le più alte e più estese montagne del mondo, perchè occupano più paesi, abbracciando in parte la Tartaria, l’India e la Persia, e giungendo fin sui confini di Media, ed in ogni paese mutano nome, ma tutte con un nome solo sono indicate dagli autori, come a dir le Alpi. Poco dopo trovarono un castello, il quale aveva un signore detto Lalfamech. Lalfamech non è nome proprio d’uomo; ma di un ufficio e dignità di Media, che era il maggiore appresso il re, e cui dava il re a chi più piacevagli. Il Meschino dismontato col compagno all’albergo fuori del castello, subito fu fatto sapere a questo Lalfamech, che due stranieri erano colà arrivati, onde subito mandò egli per loro. L’oste loro significò come questi era gentiluomo, e volentieri faceva onor a’ forestieri. Il Meschino fidò nelle costui parole, e recossi al castello con messer Brandisio.
Lalfamech fece loro grande onore, e dopo molte parole di cortesia li richiese donde venivano. Il Meschino disse solo in parte la sua venuta, e come era stato in Tartaria; ma non disse chi egli era, come temesse di qualche cosa. Lalfamech prese a domandare che fede era la loro, e qual Dio adoravano. «Io e il mio compagno adoriamo la fortuna,» rispose il Meschino parlando greco e turco. Intanto Lalfamech fece loro nel proprio palazzo apparecchiare da mangiare in terra sopra un tappeto. Per cui il Guerino soleva poi raccontare la sua avventura in questo modo: «Noi fummo otto intorno ad un piattello. Ogni uomo pescava dentro, e noi facevamo come vedemmo far loro. Non avevamo ancor mangiato con più sporchi animali. In questa gente non era ordine, nè gentilezza, nè bel costume nel lor mangiare. Questi uomini sul confine della Media sono di natura piuttosto grandi che piccioli, più brutti de’ Turchi, molto vantatori di parole, e chiacchieroni e cupidi».
Nel mentre mangiavano, Lalfamech molto guardava le armi del Meschino, e perchè esse erano assai belle e preziose, ne faceva le più grandi maraviglie. Fatta la sera, furono venuti in camera a dormire, e la mattina levatisi su, Laltamech domandò loro dove erano per andare. «In Media,» risposero essi, ed egli li consigliò che ciò non facessero, perchè in Media v’era una gran guerra. Il Meschino allora soggiunse con molto ardore: «Io vado appunto cercando le guerre». Quindi ringraziò molto quel capitano dell’onore loro fatto; e montati a cavallo partirono, tenendo la via verso Media colla guardia avanti a loro.
Giunsero in mezzo ad un gran bosco, lungi dal castello dodici miglia, dove avendo a passare un cattivo passo, e parendo loro quel paese molto malvagio, pensarono a marciare ben avveduti e colle lancie in mano, conciossiachè temessero di qualche insidia. Di fatti dopo non molto andare trovarono un capitano di avventurieri chiamato Tamor, il quale non tardarono a conoscere come mandato da Lalfamech con tutta quella gente per farli derubare. Ed eccoli tratti nell’imboscata, ed assaliti da ogni parte da quella masnada, per cui disse il Meschino a messer Brandisio di farsi animo e non avere paura. Messer Brandisio in quel punto corse animosamente contra loro, e menò un colpo terribile sullo scudo di Tamor, senza fargli però niente. Il capitano all’incontro ruppe lo scudo a Brandisio, e portoglielo via colla punta della lancia. Il Guerino passò in mezzo alle file degli assalitori, e quantunque da molti assalito, uccise tuttavia tre arcieri nel tempo medesimo che messer Brandisio tornava alla battaglia, facendo gran prove della sua persona. Tamor, che vide il Guerino fare man bassa sopra de’ suoi, si volse contr’esso, e l’assalì colla scimitarra. Ma il Meschino gli diede tal colpo sopra la testa involta non di ferro, ma di pannolino, che lo tagliò infino al petto. Morto Tamor, tutti gli altri si posero in fuga, de’ quali molti caddero sotto la spada di Brandisio fino al numero di quaranta. Alcuni di quelli che poterono salvarsi feriti e conci in mal modo tornati a Lalfamech gli dissero come la cosa stava; onde egli si pentì del non averli uccisi e derubati dentro del castello, e fu molto dolente, che così liberi e spediti andassero verso Media.
Raffrenata il Guerino la superbia della gente di Lalfamech e vinti, pigliò molto conforto per messer Brandisio, perchè in tale prova lo vide di sua persona valente. Presero allora con maggior sicurtà la via verso Media per vedere questa donna che era rimasta erede, e cui tutto il reame faceva guerra. Il secondo dì che eran essi partiti da Lalfamech, giunsero a Martia, villa posta sulla riva di un lago, dove un uomo vecchio tutto velato di peli bianchi si fece presso a loro, e domandogli se volevano alloggiare da lui. Accettato l’invito, poichè erano del lungo viaggiare molto affannati, ecco venire ad essi una figliuola dell’oste molto bella, la quale aveva indosso un vestimento di tela molto gentile, e prendere il cavallo del Guerino e quello di Brandisio e menarli alla stalla. Il Guerino, per vedere in che luogo metteva i cavalli, le andò dietro senz’elmo in testa. Ella prese a guardarlo con assai compiacenza e sorridergli, parendole che quelli fosser più belli uomini che que’ di Media. Giunti nella stalla e legato il cavallo, cominciò essa a volere scherzare con lui, ed a porgli con malizia le mani addosso; ma il Guerino si adirò e spinsela da sè, per cui indispettita diedegli del Matto malvagio. Messer Brandisio, che era non molto lontano, ed il tutto vedeva, si mise a rider forte, onde il Guerino accennò a quella che andasse da lui, ed ella così fece. Messer Brandisio se ne rise, e disse al Meschino: «Signore, tu mandi la rogna via da te per darla a me, ma io sento piuttosto il bisogno di mangiare che badare a tal dono». A questo modo la puttana andò beffata.
E’ si recarono quindi a cena in una stanza la quale era luogo sì povero che non vi era da sedere, per la qual cosa il Guerino andò per un tappeto, lo distese a terra, e là seduti cenarono. Alla cena era stato portato un piatto pieno di carne e brodo, ed in questo mangiarono tutti insieme il Guerino e messer Brandisio, l’ostiere, la moglie e la figliuola, perciocchè il Guerino faceva gran riso dicendo: «Beata quella scodella che cinque man rastella;» poi a messer Brandisio: — Benissimo, anche queste son genti sporche». Quando ebbero pranzato credettero almeno aver buon letto, e poichè l’oste ne dimandarono, egli loro insegnò quel tappeto, dicendo non avere altro letto, per esserne sforniti per la guerra cominciata in Media. Su questo tappeto convenne adunque che essi dormissero. Essendo circa il primo sonno, la fanciulla dell’oste, che aveva tutto il dì avanti ammirato il Meschino quanto era bello, e molto guardate le armi che egli vestiva, perchè ella non aveva mai veduti cavalieri sì ben armati, presa com’era d’amore, venne da lui, gettossegli addosso in letto, abbracciollo, se lo strinse sul petto fortemente; ma cacciolla egli da sè. Volendo essa a tutto costo disfamare sue voglie, accostossi a messer Brandisio, il quale fece lo stesso, e la meschina partissi senza avere nè dell’uno nè dell’altro gustato. Appena giunta la dimane, pagato l’oste, partirono, e motteggiando andarono verso la città di Media, a cui giunsero la sera di quello stesso dì, ma ne restarono fuori ad alloggiare fino alla vegnente mattina.
Venuta la mattina, ed il sole essendo già molto alzato presso a terza, i due cavalieri si levarono, ed armati montarono a cavallo per entrare in città. Ma venuti alle sue porte, le guardie fecero loro intendere come dovevano essere presentati al palazzo regale, e ciò perchè tutti i forestieri conveniva fossero a tal modo presentati. Perciò dismontati da cavallo, e salito un lungo giro di ampie scale, furono presentati innanzi alla damigella rimasta erede di quel reame, la quale era bellissima e in età di tredici anni appena, e in quel punto medesimo teneva consiglio con tutti gli amici del padre suo. Mentre uno dopo l’altro andavano, il Guerino e messer Brandisio penetrando nelle gran sale del palazzo, videro che là era un pazzo che girava in corte, e portava una bacchetta in mano, il quale per le sue pazzie dava sollazzo a tutta la gente. Questo pazzo vedendo messer Brandisio per la sala, avvicinatosi a lui diedegli della bacchetta sopra lo scudo. Messer Brandisio se ne rise, benchè male gli paresse. Il pazzo passando più oltre, diede un simil colpo anche al Guerino. Questi nol comportò, anzi gli scaricò un tal pugno sopra il ciglio, che glielo aperse, e il pazzo cascò in terra tutto sanguinoso. Facendo poi ogni sforzo per alzarsi, il Meschino gliene diede un altro, facendolo un’altra volta cadere; per cui il pazzo si mise a fuggire dal palazzo, e giunto sulla piazza, dove molte persone domandandolo del perchè egli era malconcio a quella maniera, rispondeva: «Non andate a corte perchè ora v’ha un pazzo più di me».
Prima che il Meschino fosse dinanzi alla regina, un cortigiano per darle piacere venne dicendole come il pazzo aveva rotte le ciglia. Essa domandò chi era la cagione di questo male. Le fu risposto quel cavaliero, e il cortigiano additollo a lei. Per questo il Meschino presentatosi da lei, dissegli essa acerbamente «Come hai tu avuto l’ardire di battere il pazzo di corte? — Perchè egli ha battuto prima me,» rispose il Meschino.
La donna nondimeno il minacciava di castigo, per il che fattosi egli davanti le disse di ascoltare alquante sue parole, ed avendogli essa concesso di dire quello che più gli tornasse grado, il Meschino fece questo breve discorso:
«Madonna, tre cose a’ miei giorni ho veduto ed imparato, e che voglio ora spiegare a voi. La prima, gran prudenza a castigare il matto; la seconda gran sapienza a comportare il vecchio; la terza gran fortezza a raffrenare la lingua della femmina mal parlante. Il pazzo che non ode ragione castigasi per le botte; però ho usato io questo prudenza». La donna cominciò a rider tanto quando udì quel cavaliere così ben parlare, che perdonogli quanto aveva fatto. Ed avendo egli, nel mentre parlava, la visiera alzata e scoperto il volto, la donna che lo vide giovine, ben armato e della persona ben disposto, si sentì come trafitta dal segno di scorpione, e già mezzo innamorata di lui. Domandollo donde veniva, e quello che andava cercando. Il Meschino risposele: «Io ed il mio compagno veniamo d’Armenia, e andiamo pel mondo cercando la ventura che Dio ci darà». La donna lo pregò a restare qualche giorno nel proprio palazzo. Fece loro grande onore, ed apparecchiare un appartamento fornito di letto e di addobbi all’usanza del paese.
Riposatisi tranquillamente la notte, messer Brandisio e il Meschino andarono la mattina davanti alla bellissima damigella Aminadam, la quale usò loro grande cortesia, e così tutti i baroni della corte che dimostrarono gran piacere di sapere delle cose di Grecia e di ponente, e delle condizioni di quelle genti. E così stettero fino al quarto giorno, quando sedendo ciascuno in terra sopra un ricco tappeto dove era loro portato da mangiare, e là si davano molto sollazzo, cioè la donna con una damigella sua parente, ed un barone, il Meschino e messer Brandisio; la guardia della torre scoperse in lontananza le genti che venivano all’assedio di quella città. La damigella, che ne era reina, cominciò a tremar tutta di paura, per cui il Meschino la confortò dicendole: «Madonna, non abbiate paura. Il vostro bisogno fu detto perfino in Armenia, e solo per esser vostro campione io di là son venuto». Intanto si faceva sentir molto strepito d’armi e d’armati, e al Meschino che richiedeva la cagione di quella sommossa, Aminadam rispondeva tremando, esservi un barone, signore delle montagne di Media nominato Calicador, e seco un altro traditore chiamato Lalfamech, i quali in luogo di difenderla, come dovrebbero, le vogliono porre l’assedio, perchè era essa una vil femmina. Mentre parlava queste cose, fecesi tutta pallida di paura. Il Meschino le fece animo, e la pregò di non temer nulla.
In questo venne dinanzi a lei un suo capitano di guerra con una tela voltata al capo, una scimitarra a lato con un nodoso bastone in mano, gran barba scapigliata, e tutto peloso che pareva un orso. Questi disse alla donna: «Donna, vengono Calicador e Lalfamech a por campo. Che comandate voi?» Ella rispose: «Guardate bene la terra». Allora il Meschino acceso d’ardimento disse: «Madonna, comandate che venga meco alla battaglia questo vostro capitano, chè un capitano di gente d’armi mi par molto da poco a venir domandando ad una donna ciò che si ha da fare. Dovrebbe anzi egli stesso confortarvi e dire: «Non abbiate paura, mia signora, chè noi custodiremo francamente la città ed il reame». Vedendo Aminadam così arditamente parlare il Meschino, fe’ richiamare indietro quel capitano, che pareva aver maggior paura che lei, e comandogli di far quello che avrebbe comandato il Guerino, il quale fece ella da quel punto generale capitano.
Armato il Meschino e il suo compagno messer Brandisio, e montato a cavallo fece maravigliare ogni uomo per la sua franchezza. Quella gentil damigella gli porse lo scudo e la lancia di sua mano, ed egli prese e diede elmo, scudo e lancia a un suo servo che li portasse, portando egli un solo bastone in mano, insegna da gran capitano. Si fe’ quindi ad ordinare due schiere, l’una di cinquemila combattitori, e diedela a comandare a messer Brandisio ed a colui che era prima capitano. Questa era gente di Media, uomini di bella statura, piuttosto grandi che piccioli, di bella carnagione, e molto forti di persona, così le femmine come i maschi, ma in mal modo armati di scudi, di lancie e di scimitarre, e la maggior parte arcieri. Hanno essi belle città e belli ornamenti, sono provveduti di molto bestiame, usano cavalli e non camelli nè elefanti, asini, pecore, buoi ed altri animali hanno assai, e moltissimi porci. Così fu fatta la prima schiera, metà di cui erano arcieri, e l’altra metà con lancia. La seconda schiera tenne il Guerino appresso di sè, nella quale furono settemila. E alla prima comandò che assalisse il campo, aspettando egli a muoversi secondo la varia fortuna della battaglia.
Mossa la prima schiera, andarono fuori della città ad assalire il campo come loro aveva comandato il Meschino. Messer Brandisio andava dietro alle bandiere, ma quel capitano volle dar addosso ai Saccomani senza che ne avesse avuto ordine, e così in discordia entrò nella battaglia. Messer Brandisio fece gran prodezze della sua persona colla lancia e colla spada. Il capitano poi entrato tra i Saccomani, alquanti ne fece morire; ma un cavaliere arrivatogli in tempo addosso lo ferì colla sua lancia, e passollo da parte a parte, onde cadette morto da cavallo. I Mediani vedendo il lor capitano morto, si misero in fuga, e lasciarono messer Brandisio nella battaglia, il quale come vide la sua gente fuggire, voltò il cavallo, e sempre combattendo tornò indietro con gran fatica. E sarebbe forse perito sotto i colpi de’ nemici che d’ogni parte l’opprimevano, se il Meschino uscito ad incontrar battaglia fuori della città e incontrati quelli che fuggivano, non li avesse respinti indietro a gran pena, e riordinate le schiere de’ combattenti. In questo punto il Meschino pregò Dio che gli desse grazia di ritrovare il padre, dicendo che egli non adorerebbe altro Dio che la Trinità del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, qualunque altra fede tenesse il padre suo, e fatto il segno della croce, entrò nella battaglia, e passò a forza d’armi fra mezzo le file nemiche, seguito dalla sua schiera francamente. Messer Brandisio veduto questo soccorso, si rivolse anch’esso alla battaglia co’ suoi, e tanto animosamente combatterono, che avrebbero rotta tutta questa gente, se un nuovo accidente non fosse sopravvenuto a contrariare lor disegni.
Cominciò un rumore nel campo alle bandiere del capitano. Era una moltitudine di corridori ripartiti qua e là pel campo, i quali raccoltisi insieme, e più con gridi che con fatti assalirono i Medianiti, e misero loro tanta paura per la quale cominciarono essi a fuggire. E quando Brandisio li vide fuggire, pieno di rabbia disse queste parole: «O Dio, ben disse il vero quel matto, quando ebbe detto: Non andate a corte perchè vi ha un pazzo più dì me. E più pazzo fu bene il mio signore a fidarsi di questa gente codarda, chè in verità meriterebbero tutti in questa battaglia morire.» E nel mentre gridava a tutta voce: «Via codardi, via gente da poco!» spronò il cavallo dietro al Meschino, il quale era già fino alle bandiere trascorso, e come si fu con lui abboccato, gli disse, come in campo non erano rimasti fermi altri che lor due, e che tutta l’altra gente fuggiva dallo spavento. Per questo fu forza ad entrambi tornare indietro nella città, ed incontrarono per via la gente che fuggiva intorno, ed entrava in città per più porte, colla perdita di circa quattromila de’ loro, morti in battaglia.
La donna che aveva tutta la battaglia veduta, e la gran prodezza del Meschino, fece a lui maggior onore che non aveva fatto prima, e andava poscia dicendo tra sè: «Volesse Dio che questi fosse mio marito e signore!» La donzella entrò nel palazzo in mezzo ad ambidue que’ cavalieri, e li pregò che si andassero a disarmare per suo nome, e pigliar riposo dell’affanno sostenuto nella battaglia. Il Meschino all’incontro pregolla a far comandamento per il trombetta e banditore che tutta la sua gente armata e disarmata venisse in piazza. Tutti i baroni essendosi però raccolti intorno alla donna, il Meschino e messer Brandisio non si poterono tenere che non dicessero: «O gente codarda e vile, e da poco, per cui abbiamo perduta la battaglia, come siete fuggiti da schiavi! Se a voi è fidata la salute della patria, dovrà ben essa presto perire, e andar perduta quella libertà di cui non siete degni. Che altro è dallo schiavo al vile?» Quindi il Meschino si levò nel consiglio, e cominciò a parlare in questa forma:
«Zolfo e fuoco è stata a voi questa fuga, o uomini di Media, i quali per antichi tempi siete per tante famose vittorie celebrati, che avete vinto la battaglia contro gli Assiri, e contra quelli di Armenia, non che contra le feroci Amazzoni, e tutta la Soria già abitaste, perchè a voi soggetta. Voi che avete tante vittorie ricevute, ora per sì picciola battaglia abbandonaste me, e vi siete per tal modo vituperati, che me lasciaste nel campo come se io fossi rimasto là morto. Poichè se voi aveste un poco sofferto la battaglia, senza dubbio la vittoria sarebbe stata nostra. Or che onore vi è, o gente d’arme, che i più vili e nudi d’arme, i Saccomani vi abbiano vinti e cacciati dal campo come vili? Non crediate che io sia venuto a combatter con voi pel solo amore della gloria; io sono venuto per la ragione, e questo gentiluomo può far testimonianza, che io soccorro quelli che hanno ragione e bisogno d’aver aiuto. Ed ora perchè non unirvi meco con animo generoso e forte, il quale venni in salvamento della vostra libertà e della vostra patria?» Allora disse Brandisio a ciascuno di quelli che erano presenti, come il Meschino era uomo valoroso, e quindi come egli si partì di Francia, e per dove era il suo cammino, e come il Maccabeo il prese col compagno, e questo mangiò, e finalmente come il Meschino uccise il gigante, e cavò da una tana lui ed un prete Armeno. Ed erano là molti mercatanti che erano tornati dalla Tartaria bassa, i quali rendevano testimonianza alla verità, e dicevano inoltro d’essere stati nel paese, dove, il gigante ucciso, fu donato il cavallo a Brandisio.
Il Meschino seguitò quindi a dire: «Credereste voi forse che io sia figliuolo d’un re o d’un barone? Io non ho padre, son figliuolo della ventura, e vo soccorrendo a’ bisognosi signori e popoli, e per la giustizia combatto. Però son venuto in vostro aiuto, ed in difesa di questa donna abbandonata, e da’ suoi sudditi schernita». A queste parole tutti s’inginocchiarono e fecergli riverenza come a un mandato da Dio, e giurarono di mai più non volger le spalle alla battaglia, anzi piuttosto morire. Fatta questa deliberazione, il Meschino diede a tutti licenza d’andarsene, ed egli montò su in palazzo colla donna, Brandisio, e molti altri baroni in compagnia.
Venuti in sala, si posero a sedere in terra sui tappeti al modo usato. La donna comandò al Meschino e messer Brandisio che sedessero appresso a sè e sopra alcuni ingegni alti da terra che eran acconci al modo di Grecia. In questa cena fra mezzo le saporite vivande e lo spumar dei liquori, la donna molto riscaldata d’amore onestamente si dava al Meschino, per il che disse egli a Brandisio: «Amico, io ti voglio dare questa donna per moglie, e farotti re di questo reame». Ed e’ rispose: «Io non ebbi mai migliore ventura che stare con voi, ed a voi rendo mille grazie; imperciocchè con voi io voglio vivere e morire». Il Meschino soggiunse: «Aminadam, io non mi partirò da te, se tutta la Media non sarà al tuo comando e alla tua obbedienza». La cupidigia di maggior signoria le fece accettare il partito della mano di sposa a Brandisio, e alla promessa più mai non disdisse.
Passato il quarto dì in cui già era comandato che tutta la gente atta alle armi si armasse per far battaglia, fu innumerabile quantità di corni, di bucine e tamburi, apparecchiandosi ogni uomo al crudel conflitto. Quella mattina fece il Meschino due schiere di Mediani. La prima di quattromila armati volle per sè medesimo, e la seconda con quindicimila combattenti diede a Brandisio, dicendogli di far tutto quello che egli avevagli suggerito. Brandisio promise di fare tutto il comandamento. Ordinato gran guardie alla città, il Meschino uscinne fuori colla sua gente, e lasciatala a lato alla porta comandò che niun si partisse di lì, e non entrasse alla battaglia senza sua licenza, e per qualunque cavaliere egli assalisse, non facessero movimento. Aveva fermo nell’animo grandi cose.
Disposte bene le file, fecesi egli stesso verso il campo, e suonò il corno domandando battaglia a Calicador signore delle montagne di Media. Calicador era signore di cinquanta castella e due grosse cittadi poste sopra queste montagne che hanno intorno gran pianura, e la rotondità delle quali continua per cento miglia. Al campo con Calicador era il malvagio Lalfamech, il quale udendo suonar tre volte il corno, disse: «Sono pochi dì che costui fu al mio castello, ed ora ha l’ardimento di venire contra me: Calicador, dammi che io stesso vada contra lui, e se io non lo faccio recredente, non mi dir più il Lalfamech di Media». Avuta egli la licenza domandata, mandò un suo suonatore di gnacchere chiedendo al Meschino quanto bramava. Questi risposegli che voleva ben combattere con Lalfamech; il quale, ciò inteso, s’armò di una corazza di cuoio cotto e d’un grande scudo. Tolta quindi una lancia lunga e sottile, montò sopra un alto cavallo, e venne al campo contro il Meschino. E come vi giunse, cominciò ad inasprirlo con questi detti: «O cavaliere villano, è questo il merito dell’onore che io ti ho fatto? — Per l’onore che tu m’hai fatto, risposegli, sei da lodarti molto, ma non per la villania». Disse Lalfamech: — Come hai tu avuto tanto ardire di pigliare le armi contro di me?» Il Meschino soggiunse: — Tu ben meriti quanto ho io fatto, Lalfamech, volendo tu ingratissimo cacciare la figliuola unica erede del tuo re dal suo reame. Ma ti prometto che essa verrà compensata dei danni sofferti per tua cagione, perocchè finita la battaglia presenterò a lei due cose, di cui una sarà lo stesso cavallo che tu hai sotto, l’altra la tua testa». Lalfamech adirato da queste parole, subito si drizzò sopra le staffe, chè egli cavalcava molto corto all’usanza di quel paese, e lanciogli la lancia che impugnava, credendo di passarlo. Ma il Meschino accorto toccò il cavallo cogli speroni, e lo mosse per modo che la lancia il fallì. Arrestò quindi la sua lancia1, e giunse Lalfamech sopra lo scudo, il quale però movendo dottamente la lancia seppe evitare il colpo. Come ebbe schivato il colpo prese Lalfamech un grosso bastone, cosicchè cominciarono gran conflitto l’uno col bastone, colla spada l’altro, molto stringendosi nella battaglia. Lalfamech menò un gran colpo al Meschino, tanto che pose le mani sopra il taglio dello scudo di lui, e passollo col colpo per tal forza, che gli cadette il bastone di mano. Perduto il grosso bastone mise mano alla scimitarra, e cominciarono a ferirsi l’un l’altro con tanto accanimento, che il Meschino impaurì Lalfamech, il quale affannato dal lungo combattere, domandò riposo. Il Meschino glielo negò, e rispose arditamente: «La battaglia è mortale, e non vi ha più speranza del fidarsi l’un l’altro. Io non posso fidarmi di chi mi volle ingannare e farmi uccidere. Però guardisi chi teme d’avere la peggiore». Per questo Lalfamech pensò di fuggire verso il campo, conoscendo avere il peggio della battaglia. Dato allora a due mani gravissimo colpo al Meschino, tentò voltarsi e fuggire; ma nel volger del cavallo il Meschino lo giunse colla spada attraverso il collo, sicchè il capo spiccogli dalle spalle. Ucciso Lalfamech, fece il Meschino quanto avevagli promesso poc’anzi, togliendo il cavallo, e aggrappando pei capegli la testa gocciolante livido sangue, dopo il che montato a cavallo avviossi verso la città. Appena la sua gente vide esso tornare con tanta vittoria, che ciascuno prese a gridare: «Morto Lalfamech! facciasi ora lui Lalfamech di Media!» e chi una cosa e chi l’altra diceva. Il Meschino presentò cavallo e testa di Lalfamech ad Aminadam, la quale alla vista del dono si volse a’ suoi cittadini esclamando: «O nobili cittadini, ve’ la testa di Lalfamech traditore,» e volgendosi al Meschino: «Tu, disse, o franco cavaliere, sarai Lalfamech;» e tutti insieme con lei lo acclamarono il Lalfamech di Media. Ed egli tornossene con quest’onore a’ suoi, che aspettavano di assalire il campo de’ nemici arditamente.
Il Meschino ritornato alla sua schiera, e confortato colla sua presenza Brandisio, disse loro: «O franchi Mediani, che vi dà il cuore di fare? — Alla battaglia! menaci alla battaglia,» gridarono tutti con faccia allegra. Per il che mandò subito a Brandisio che si movesse, perchè egli attenderebbe nella mischia. Cominciò egli il Meschino a muoversi con quattromila de’ suoi, co’ quali ruppe Ecco la testa di Lalfamech traditore. l’antiguardia del campo, e passò per mezzo a tutto l’oste. Presero i Mediani tanta speranza per l’ardir del Meschino, che senza tema alcuna combatterono, e per forza d’arme o per l’ardire smisurato partirono il campo, e andarono fino alle bandiere, dove furono circondati da gran moltitudine di gente. I Mediani sostennero animosamente l’incontro insieme col Meschino, il quale vendendo il grande pericolo de’ suoi, feceli destramente indietreggiare insieme ristretti. Ed erano essi tanto animati di virtù, che anzi che rendersi e fuggire si lasciavano uccidere.
In questo punto Brandisio uscì fuori della città colla sua schiera composta di cinquemila. Allora cominciò la gran battaglia per modo che tutto il campo de’ nemici si mise in volta, e fuggirono. Per la qual fuga Calicador vedendosi quasi perduto di speranza, montò a cavallo, e corse alla battaglia col resto della gente che rimaneva, perocchè quelli che prima avevano cominciato, erano trentamila, i quali erano ora pressochè tutti rotti e dispersi. Giunto sul campo fece disperatamente man bassa sopra quanti Mediani incontrava, e molti ne uccise. Per la qual cosa vedendo il Meschino far massacro della sua gente, mise mano alla spada, e andò contra lui con molto impeto, e lo regalò di siffatto colpo che quasi il fece uscir di sè, poi menogli ancora un colpo di spada sopra la testa che tutto l’elmo gli ruppe, e partillo fino al petto. Come Calicador fu morto tutta la sua gente andò in rotta, dandosi a precipitosa fuga, onde il Meschino ne fece grande uccisione, e moltissimi prese e condusse prigioni in città. Dove appena entrato gli fu fatto onore come a re proprio. Fecero grande allegrezza della ricevuta vittoria per tutto il reame di Media, ed in memoria di questa liberazione volle il Meschino che Aminadam togliesse in isposo Brandisio. Lo che essa di buon animo fece per far cosa grata al suo liberatore, per cui la gentil damigella diventata regina e Brandisio re, ne furono celebrate le nozze con molta festa per tutto il reame, il quale per opera del Meschino ritornato in manco di due mesi all’obbedienza, rimase dappoi in perfetta e bella pace.
- ↑ Le lancie od aste (così il Ferrario) non avevano da principio resta a cagione che il pettorale usato in allora da’ cavalieri essendo di maglia, non si sarebbe saputo dove in essa fermarla. Non dovevano in ogni modo lasciare d’appoggiare il grosso capo o la testa dell’arcion della sella de’ loro cavalli, che a quest’effetto altresì eran ben coperti di ferro. Il giaco essendo dunque di maglia, e la lancia nel porla in resta sdrucciolando sulla gambiera o cosciale, si prese l’espediente di far le corazze di piastre di ferro, in luogo di cuoio cotto, nel che consistevano da principio, e queste piastre avevano delle reste d’un grosso ferro formate attaccato al corpo della corazza per aiutare il cavaliere a drizzarla, e ad arrestar fermo il colpo della lancia, la quale non avendo ancora in que’ tempi impugnatura, ma eguale dalla cima al fondo serbandosi, cadeva agevolmente dopo il colpo dalle mani di coloro che non erano a sufficienza nerboruti e forti per ritenerlo dopo il grand’urto. La resta dei primi tempi non era adunque quel grosso ferro annesso alla corazza, che venne tosto in uso dopo il 1300, allorchè i cavalieri cominciarono a portare corazza, bracciali, cosciali e manopole; ma bensì l’arcion della sella, al quale dovevano certamente appoggiare il capo della lancia, che sdrucciolato sarebbe se fosse stata appoggiata al giaco di maglia. Arresto di lancia si chiamava ancora quel picciolo fodero di cuoio che serviva a loro volta a sostenere le lancie. Così il Boiardo fa menzione della resta nel descrivere il combattimento fra Sacripante ed Agricane: lib. I. cant. XI.
L’un l’altro in fronte all’elmo s’è percosso
Con quelle lancie grosse e smisurate,
Nè alcun per questo s’è dall’arcion mosso.
L’aste fino alle resta han fracassate
Benchè tre palmi ciascun tronco è grosso.
Volgonsi e già le spade hanno afferrate,
E furïosi tornansi a ferire
Chè ciascun vuole o vincere o morire.e l’Ariosto nel suo Furioso al canto XXX.
Posti lor furo ed allacciati in testa
I lucidi elmi, e date lor le lance.
Segue la tromba a dare il segno presta,
Che fece a mille impallidir le guance.
Posero l’aste i cavalieri in resta,
E i corridori punsero a le pance
E venner con tale impeto a ferirsi,
Che parve il ciel cader, la terra aprirsi.