Gli sposi promessi/Prefazione
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PREFAZIONE
— Gli sposi promessi?!
— Tale, o lettore maravigliato, il titolo che il Manzoni pensò forse súbito di dare, e diede, come primo battesimo, all’opera sua piú curata e piú grande: l’opera che giganteggia su quante formano il glorioso patrimonio della nostra letteratura moderna. E se di questa sua altezza nessuno dubita oramai piú tra gli studiosi in genere e i manzoniani in ispecie; chi di loro non solo, ma di quanti, dinanzi a un capolavoro, sentono l’intelletto e il cuore agitati dalle impazienti e giuste domande: perché questo e non piuttosto altro? come ne lampeggiò l’idea al poeta? quale ne fu il lavorio primo nel fervore dell’ispirazione? quanto tempo, e fatiche e speranze, e soddisfazioni e pentimenti acompagnarono chi ebbe la faticosa gioia della creazione, prima che essa fosse creduta, se non perfetta, almeno non indegna d’essere resa pubblica?: chi può mai dubitare che non debba essere massima la contentezza nell’avere finalmente, col possesso di quasi tutto il primo getto del romanzo immortale, la possibilità di rispondere a qualcuna delle domande, fatte chissà quante volte, a proposito del capolavoro manzoniano? Finalmente, quasi tutto: queste parole compendiano il desiderio, le ansie, la soddisfazione dell’editore, se gli si consente di usarle e volerle intese nel loro significato migliore; come dicono senz’altro la natura della pubblicazione presente.
Quanti dopo qualche brano, dato già da molto tempo, come per indiscrezione e per generosità, senz’alcun fine ben determinato e con assai scarso utile comune: quanti, dopo i cosiddetti Brani inediti, anzi pel modo con cui essi furono resi noti, non sentirono il desiderio vivo per non dire la necessità di conoscere tutto e per bene l’autografo primo, in cui si sorprende, come diciamo noi, il gran fabbro nell’ardore dell’ispirazione, e s’accompagna, momento per momento, ora lento e incerto, ora rapido e sicuro, nella lunga, tenace, faticata opera, non interrotta che per un’altra già avviata, per necessari studi storici ed economici, nonché forse per le cure inevitabili di sposo di figlio e di padre sereno, dai primi sorrisi della primavera lombarda, in un anno glorioso e tormentoso a ogni gagliardo cuore d’italiano e massimamente al Manzoni (oh anno di speranze e d’abbattimenti!), fino alle prime malinconie dell’autunno, due anni dopo?
Il fiducioso e paziente fabbro s’è ritirato nella sua Brusuglio, solitario tra gli uomini, ma in una incalcolabile pienezza di vita dello spirito e in compagnia di mille cose care e ispiratrici: egli può ben ripetere l’antico: «numquam solus quam quum solus.» Gli son vicini piccoli paesi sparsi e la grande Milano, intorno un immenso e irriguo piano ubertoso, lontano quell’arco delle Alpi su cui biancheggia quasi sempre la vetta solenne del Monte Rosa, men lontane e vive negli occhi come nel cuore, cime valli villaggi torrenti lago della Brianza degli anni giovanili: l’artefice, tutto brama di lavoro, scrive sul primo foglio grande, che comincia appunto con la visione dei luoghi più diletti («Quel ramo del lago di Como»), 24 aprile 1821 e non tanto forse per segnare una data quanto per misurarsi tempo ed opera; sosta alquanto dopo il capitolo VII, appena il piano inferiore dell’ampia e colorita tela con le più importanti figure è quasi compiuto; ferma poi, al principio del III tomo, il ricordo del giorno in cui gli par d’essere già alla metà del lavoro: 28 novembre 1822 (siamo a diciannove capitoli), alla cui fine pone: 11 marzo 1823; dopo altri nove di essi, com’eran stati nove quelli del tomo precedente, cioè al termine del tomo IV ed ultimo (quanti fogli riempiti, tormentati, mutati di posto! ma quanto mondo in loro!) conclude, stanco forse e un po’ dubbioso, ma lieto, ma legato oramai d’un vincolo indissolubile alla sua più vivace, promettente e vitale creatura artistica: conclude col semplice: 17 settembre 1823.
Don Abbondio Perpetua e i bravi, Padre Cristoforo Lucia Renzo, Don Rodrigo e il Conte Attilio, Suor Geltrude i parenti di lei Egidio, il Conte zio e il Padre Provinciale, l’Innominato il cardinale Federigo, Don Ferrante e i suoi (alcuni sotto altro nome) con accanto tant’altri minori, ossia avvocati, podestà, contadini, ragazzi, sacrestani, frati, carrettieri, barcaiuoli, bravi, monache, paggio, servi, con tutt’un popolo che è tormentato dalla fame prima, poi dall’illuvione di milizie feroci, e nel morbo, nell’insipienza, nello sgoverno d’una dominazione straniera: insomma, grandi e piccoli d’ogni ceto, il paese e la città, piano e monti nel tumulto della insurrezione, nella devastazione delle bande alemanne (anche allora, come prima, come oggi, come sempre!) nell’angoscia e nel flagello della peste: tutta un’età, uomini e cose, per arrivare all’orgoglio sciocco, alla stoltezza di governatori, all’incuranza del Re lontano: tutt’una gente e una parte dell’Italia oppressa, taglieggiata, tormentata, han potuto esser ritratte in modo imperituro, col lavoro di due anni e mezzo, dal genio, tanto più grande nella creazione della fantasia quanto piú fedele al vero della storia, sempre acceso dalla fiamma d’un amore profondo per ogni uomo in Dio: in un Dio che, vigile e giusto e prodigo d’aiuto ai miseri e agli oppressi, umilia superbi e fiacca potenti, pur essendo misericorde verso tutte le sue creature, dalle più malvage delle quali compone anzi esempi di nuove santità.
Da quando tanta potenza in un poeta italiano? Bisogna volare alle fantasie portentose dell’Ariosto e del Boccaccio, a quella sovrumana dell’Alighieri. Se poi si riflette all’altezza dei propositi civili morali politici, all’efficacia degli effetti ottenuti da questi grandi con la bellezza d’un’arte che pare insuperabile: se si tien anche presente come il romanzo glorioso sia preceduto dagl’Inni sacri, dal Conte di Carmagnola dall’ode Marzo 1821 e s’accompagni in parte all’Adelchi, e all’altissimo Cinque maggio, per non dire d’altre cose minori; chi negherà che il Manzoni non istia piuttosto accanto al poeta della Commedia divina, quale autore d’una commedia umana, a cui veglia il divino? Dante alle soglie d’una nuova età per l’Italia nostra, che sfugge oramai al tumultuario Medio Evo e al moribondo Impero, e s’afferma, nella Rinascita, arte, pensiero individualissimi e sovrani sopra quelli d’ogni altro popolo, non meno che chiara aspirazione politica nazionale; il Manzoni al limite estremo delle oppressioni straniere, alla cui scomparsa egli anelò ardentemente e cooperò efficacissimamente. Dall’uno l’immagine di quell’Italia bella, giardino di Romano Impero, benché non piú possibile, con a capo sovrani ben ad altro intenti e a tutt’altro adatti che alla grandezza della romanità: l’immagine che può dirsi preparatrice di giusta e orgogliosa coscienza della patria; dall’altro l’Italia, nazione accanto alle nazioni, sorella loro,
«Una d’arme, di lingua, d’altare, |
Ebbene, in questo primo getto la potenza creatrice del Manzoni, varia e inesauribile, appare veramente per intero: come in fogli leonardeschi o michelangioleschi, tu vi vedi il genio che crea senza posa, in grande, per quanto è figure sfondi quadro in generale, con l’esuberanza dell’ispirazione impetuosa; e scopri, sí, ora codesta esuberanza, ora la cura eccessiva o la noncuranza di qualche particolare, ma hai il tutto nel momento, o nei momenti felici della fecondità gioiosa.
Diversa la costruzione generale, maggiore il numero delle persone, come diverse, sia pure di qualche tócco per una piú viva e arguta pittura dell’umano, le loro figure fisiche e morali; piú larghi, o spaziosi, come avrebbe detto un pittore del tempo, gli sfondi; piú vivi i particolari, se si devono dir cosí, e i mezzi dell’espressione (quanta varietà nelle immagini, negli accorgimenti e scorci stilistici!) anche nel faticato ideale di piena padronanza, qualche volta, e, diciamolo pure, piú volte, non raggiunta, della materia difficile a rispondere, per il non sicuro possesso della lingua. A questo proposito, anzi, poiché tu sei dinnanzi al prodigioso della sostanza e al meschino di certe apparenze rimaste però quasi sempre soltanto estrinseche, e senti il duro travaglio dell’artefice, che batte martella e rimartella, in lotta tra l’abbondanza del creare sicuro e la difficoltà dell’esprimere chiaro, proprio, intelligibile súbito a tutti: godi e soffri, trepidi e procedi impavido, come ha goduto e sofferto, trepidato e proceduto impavido il poeta.
So bene: chi scorre alcune di queste pagine, tempestate di note, e s’accompagna, per mezzo di esse quasi all’andare di Lui, ha l’impressione d’un viatore, che, pur avendo forza e ardire per raggiungere la meta prefissa, fa un passo o due, poi si ferma, sembra anzi qualche volta quasi pentito di quelli fatti e torna addietro, cancellando pudico le orme errate, qualche volta lasciandone incerto la traccia; ma soste e ritorni non sono infine se non prove, che preparano rapide corse felici: prove di gagliardia prudente e consapevole della immensa difficoltà, cui dev’essersi preparato chi si sforza alle cime dell’arte bella e buona.
Dell’arte buona: che vuol dire operatrice d’elevazione morale in quanti sono spiriti bramosi d’un bel vivere civile. E quale ricchezza, qui, per tali spiriti, nelle acute osservazioni e riflessioni (l’autore viene a dirle indirettamente con la sua nota modestia «sensate e ingegnose») di chi narra vicende umane con animo e sguardo, che, dall’alto, se non si voglia dire da un eterno onniveggente, penetra acuto per entro i secreti del cuore nostro agitato, e lo scruta, lo svela; affinché, chiarito a se stesso, non disperi se malato; abbia fede, se debole, in un aiuto immancabile; si senta un nulla e un atomo della grandezza divina, nella vita dell’universo.
Quanti infine volgeranno particolare attenzione alla lingua (il problema di essa, luogo, qualità, uso, fu indefessamente indagato per tutta la vita dal Manzoni), se, nelle ultime pagine dell’Introduzione, troveranno le idee, o la teoria, ricavate però dall’esperienza propria; in questa esperienza avranno prova chiara d’un’idea, che il Manzoni si fece ben presto e cioè appena forse ebbe posto a se stesso la cosiddetta question della lingua: tra le varie lingue particolari d’Italia (in una, la milanese, egli non avrebbe avuto nessun timore di dire tutto il dicibile da essa consentito e senza «proferire un barbarismo», cioè anche una parola nuova e quindi non intesa da tutti) l’«incomparabilmente piú bella, piú ricca di questa, e di tutte le altre, e che ha materiali per esprimere idee piú generali etc. è, come ognun sa la toscana». Bastata però un certo tempo, «ad esprimere le idee piú elevate ecc.», come quella che «era al livello delle cognizioni europee», è essa, si chiese, a questo livello ancora? può «somministrare frasi proprie alle idee» d’ora? ha «avuto libri sempre pari alle cognizioni», «seguito il corso delle idee?» Mentre dice che non osa rispondere a tali giuste domande, e ne fa immaginare le risposte sol coll’averle mosse, realmente l’idea della toscanità storica e presente è quella che lo ha diretto súbito, come può vedere presto chi legge, ma non impedendogli d’usare anche «vocaboli, modi proverbiali, frasi assolutamente lombarde», facendogli ottenere infine «un composto (ce lo fa dire da un immaginario «taluno») indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine; di frasi che non appartengono a nessuna di queste categorie, ma sono cavate per analogia e per estensione o dall’una o dall’altra... perfino conciliando due vizi opposti...», cosí da peccare «di arcaismo e di gallicismo in uno stesso vocabolo»: un composto insomma tutto suo, originale, efficace, espressivo, se non perfetto, quale si trova nei grandi creatori. Quanto dunque al proposito di toscanità, determinatosi poi logicamente in fiorentinità, e da parole esplicite e dalle prove di fatto, che l’autografo dà, non la cosiddetta risciacquatura dei suoi cenci in Arno vari anni dopo la pubblicazione, ma fin da principio l’intendimento, se non si dica la necessità d’usare acqua d’Arno, per... Il lettore, che ha capito, continui da sé nella metafora, cercando ch’essa corrisponda, se gli riesce, alla verità.
Ma forse a questo punto, egli, un po’ stanco d’informazioni sul libro, che potevano anche essergli in parte risparmiate, e che scuserà con l’ammirazione grande, e incerta tra quale esso nacque e quale fu poi definitivamente: egli, paziente, chiede come sia stato fatto questo libro, cioè quanto corrisponda all’autografo dalle molte pagine tempestate di cancellature con freghi di ogni specie a intreccio, a croce, a macchie qualche volta impenetrabili.
Ecco: se intendere un’opera vuol dire saperla lèggere; pubblicare un autografo, equivale ad averlo trascritto bene, ossia fedelissimamente. Ottenuta ora questa trascrizione fedele? Chi l’ha tentata, ha fatto tutto il possibile per riescirvi; ed ecco, a tale scopo, come s’è condotto. Il copioso manoscritto primo del Manzoni, o stesura di getto, è in fogli grandi, da protocollo come s’usa dire (esattamente 31X21), carta bigiognola a mano; si compone di quattro tomi, e ciascuno di vari capitoli: otto il I, undici il II, nove il III come il IV; risulta di circa cinquecentocinquanta fogli, numerati in gran parte ogni due pagine comuni, onde quei recto e verso di certe note, ossia di circa duemiladuecento pagine. Ai quali fogli però vanno aggiunti: qualche duplicato, qualche scarto, un lunghissimo capitolo, dato qui tra le appendici, che fu piú succintamente rifatto, nonché mezzi foglietti, pezzi di foglio aggiunti qua e là e attaccati per lo piú con piccole ostie colorate. Tutto calcolato, si hanno circa duemilacinquecento pagine, ossia una fatica non comune per l’autore, anche se guardata dal solo lato della scrittura: pagine, che furono poi in gran parte trascritte e rifatte, onde il secondo manoscritto, o seconda stesura, a sua volta essa pure copiata, per l’esemplare presentato alla censura, ma non da Lui. Che però non ristette da cancellature ed emendamenti anche in questa, come nelle varie prove per la stampa: quella stampa laboriosissima, che volle quasi il doppio del tempo impiegato nella creazione. E ciò si fa sapere, non per isfoggio di inopportuna e abbastanza facile copia di notizie da parte di chi ha messo le mani nei preziosi e venerati fogli, tra sentimenti difficili ad esprimersi, con la piú scrupolosa diligenza; ma affinché i giovani specialmente siano persuasi d’una verità oramai indiscutibile e di cui è inutile cercare lo scopritore, giacché balza evidente a chiunque cerchi l’origine d’ogni opera grande: che il genio è, sí, fiamma sublime, ma anche pazienza umilissima.
Se esercitata largamente dal grande artiere e insegnata dunque a chi possa liberamente entrare nella sua fucina e stargli daccanto, vederlo anzi quasi compiere tutta l’opera meravigliosa; come non ne avrebbe avuta quell’ospite curioso ed amoroso, che può ora parlarne con tanta soddisfazione? Ed esso non la perse mai, anche quando l’utile virtú era posta a dura prova; né si scoraggí quando gli parve quasi d’essere in una selva selvaggia... di parole, di righe, di pagine intere, cancellate, fregate di gran segni, interlineate, ridotte insomma nello stato in cui è una delle riprodotte: il benefico Genio, nel luogo pieno di Lui, lo assisté forse paternamente, indulgendo alla modesta fatica consacrata gioiosamente alle carte, ch’Egli aveva creduto di conservare, o avevano conservate i suoi piú cari.
— Ma dunque il Manzoni scrisse in modo...?
— Generalmente da essere súbito inteso, perché la scrittura non ha, si può dire, vere difficoltà; ma... ma... qui si tratta d’altro.
Diviso il foglio per metà, Egli buttò giú sulla parte destra, avendo dunque disponibile l’abbondante margine dell’altra metà, di cui si serví poi largamente specie per quasi tutti i fogli del tomo primo e non pochi del quarto; e questi infatti col rifacimento della metà sinistra, vennero ad essere per l’autore parte del secondo autografo, restando in realtà anche del primo con reliquie e cancellature della destra. La quale, come primo getto, fu la trascritta da me, non sempre troppo agevolmente, perché qualche volta vi si mescolano aggiunte interlineate di seconda scrittura, o si confonde quasi con questa: fu la trascritta, ed è quella di questo libro.
— Ma e i cosiddetti Brani inediti dei Promessi Sposi, allora, che cosa rappresentano?
— Buona parte dell’autografo primo; sicché sarebbe stato meglio averli divulgati con un titolo piú proprio, per non dire meno equivoco, e si fosse anche curata di piú la fedeltà della riproduzione. Duole affermarlo quando c’è di mezzo persona benemerita degli studi, specialmente manzoniani, ma si deve pure, non tanto per la necessità di giustificare quest’edizione, quanto per la verità e il rispetto al grande autore: i volumi hoepliani non chiari nel fine, composti confusamente, lasciano non poco a desiderare per quel che è integrità di testo. Si sorvoli pure su cose discutibili: per esempio, dare, come testo definitivo, parole, frasi sovrapposte ad altre non cancellate e da considerarsi dunque varianti: si sorvoli sull’avere spezzettato in note, poste qua e là come a caso, ciò che era testo importante; potevano tuttavia, dovevano anzi, essere evitate negligenze o sviste, non indifferenti, come certi arbitri, e cioè: parole che non sono del Manzoni, ma del copista varie volte lettore non esatto; brani, che non potevano esser testo, perché cancellati nei non dubbi fogli del primo autografo; una punteggiatura troppo arbitraria e data senza nessuna informazione, pur essendo per essa da concedersi qualche necessaria aggiunta o correzione;1 persino, alcune volte, la mutazione davvero inesplicabile del testo manzoniano. E v’ha altro di piú importante da lamentare (chi lègge, intenda questa parola nel suo vero senso, cioè di rammarico, espresso con dispiacere): dire che i capitoli d’un tomo siano dieci mentre sono undici, come è accaduto pel secondo; dare, come spersi, fogli2 e capitoli interi, per fortuna nostra invece esistenti (e di ciò l’illustre uomo, è da credere sia il primo ad essere con noi contento), come si può vedere, per non dire dei fogli, a proposito del capitolo VII, tomo IV: si veda nel II volume hoepliano la nota a pagina 564; cadere insomma in errori, quasi incomprensibili in chi ha mostrato tanta venerazione pel Manzoni, ed ebbe la fortuna, non concessa ad altri fino al novembre dell’anno scorso, ossia fino al termine della legge sulle opere lasciate inedite, di usare con ogni agio del manoscritto manzoniano.
Detto questo dell’uomo operoso, noto per tante pubblicazioni, non si può non far parola di coloro, che, avendo scritto di proposito sull’edizione sua, trascurarono di esaminarne il valore critico, con un raffronto che non era difficile a farsi, dacché quest’edizione risulta composta di brani tratti dai fogli piú chiari e facili dell’autografo. Per tale raffronto essi avrebbero anche visto tante delle note del Visconti, interessanti e preziose per piú motivi, lasciate da parte non si sa perché; come quelle del Fauriel interessantissime, fatte soltanto nei primi sette capitoli.3 Chi scorrerà quest’edizione, troverà le une e le altre; né si meravigli, se pel criterio d’una vagheggiata riproduzione fotografica, data, diciamo cosí, tipograficamente, esse sono semplicemente riferite, senza indicazione del nome di chi le scrisse: nome su cui non c’è dubbio, come può anche vedersi da una delle pagine riprodotte, che contiene appunto una nota del Fauriel. E, a proposito anzi di notizie, non ne dispiacciano alcune altre necessarie: le parentesi quadre, nel testo, chiudono parole dovute aggiungere per l’intelligenza di esso, mentre nelle note chiudono pentimenti, ripetizioni interrompenti il senso; le note sono generalmente di parole, frasi, brani cancellati dall’autore (delle varianti s’è già detto); le appendici valgono come utile accessorio o compimento del resto, essendo tratte da pagine, in parte conosciute, in parte no, e che non dovevano rimanere sepolte altro tempo dove sono state finora.4 Questo libro è insomma, per quanto è stato possibile, la riproduzione fedele dell’autografo, fatta (occorrerebbe dirlo quando si tratta dell’opera più bella di Alessandro Manzoni?) con ogni cura ed amore, oltre la speranza d’essere pienamente riescito nell’intento vagheggiato: «speranza» soltanto, perché la perfezione non è degli uomini anche piú volenterosi; e ad altri, in ogni modo, l’augurio di fare anche meglio.
È il 2 novembre: quanti morti quest’anno, qui in questa nostra Italia adorata, lontano di qui, per tutto il mondo quasi a ferro e fuoco! Mentre sto per posare la penna, il mio pensiero nello staccarsi dall’opera compiuta, statami distrazione e sollievo in giorni lunghi con la patria in guerra, l’unico figlio sotto le armi (oh Manzoni sempre benefico!): il mio pensiero e il cuore oscillano, dalla visione e il senso di certe scene d’una età infelice (irruzione d’Alemanni, flagello di desolante moría) alle audacie ed angosce del presente (Alpi sorpassate e terre conquistate col sacrifizio generoso di tante giovani vite); e odo grida di gioia miste a singulti di pianto angoscioso. Vorrei che questo libro andasse specialmente nelle mani di chi piange, per conforto e rinnovata fede nel trionfo della giustizia, in quelle di chi ha ragione di gioia, per gratitudine a chi, creandolo, serví a prepararla.5
Firenze, 1915. GIUSEPPE LESCA.
Note
- ↑ Qualche volta mettere, o cambiare la punteggiatura, è stato necessario anche in quest’edizione; come nei dialoghi è parso utile usar delle virgolette, e dove mancavano e dov’erano linee, le quali compaiono invece per riflessioni e soliloqui. Per tutto però hanno servito di guida qualche passo, in cui sono tali segni, l’autografo secondo e la prima stampa. Furono poi mutati in acuti gli accenti gravi di e stretta, d’i e d’u; messi su qualche o stretta di parole, il cui significato varia secondo la qualità della vocale; tolti in qualche monosillabo, sul quale ora non s’usano piú.
- ↑ Purtroppo qualcuno manca! onde due luoghi lacunosi: al capitolo VIII del tomo I e al VI del II.
- ↑ Altrove, in una rinnovata rivista (La rassegna, diretta dal Flamini e dal Pellizzari) adempirò al dovere di dare larga prova di quanto ho affermato, accompagnandola con informazioni meno sommarie del lavoro compiuto e dell'utilità, che se ne può ricavare. Avverto intanto che su certe differenze, o sviste dell'autore, cioè su parole scritte ora con maiuscola ora con minuscola, talvolta abbrevviate, o scritte qualche volta con doppia consonante qualche altra volta no, ho richiamata l'attenzione solamente nel tomo I.
- ↑ Ricordo qui la piú lunga di queste, già «Capitolo V» del tomo IV; la quale divenne poi, con due rifacimenti, la Storia della colonna infame, mentre al suo posto fu messo un compendio. Anche dello scritto, cosí strettamente legato al romanzo da averlo il Manzoni voluto insieme con esso nell’edizione illustrata, si offre dunque, novità assoluta, il primo getto interesantissimo.
- ↑ Non posso staccarmi dal lavoro diletto, senza ringraziare molto cordialmente l'amico Pellizzari d’averne accolta l'idea due anni fa e desiderato di vederla presto effettuata; onde poi, a tale scopo, l'aiuto suo per gli accordi con la casa editrice. E sento il piacere di ricordare la cortesia del prefetto della Braidense comm. Carta, per avermi sempre schiusa la sala, che ha il tesoro di quasi tutti i manoscritti manzoniani.