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prefazione xi

è quella che lo ha diretto súbito, come può vedere presto chi legge, ma non impedendogli d’usare anche «vocaboli, modi proverbiali, frasi assolutamente lombarde», facendogli ottenere infine «un composto (ce lo fa dire da un immaginario «taluno») indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine; di frasi che non appartengono a nessuna di queste categorie, ma sono cavate per analogia e per estensione o dall’una o dall’altra... perfino conciliando due vizi opposti...», cosí da peccare «di arcaismo e di gallicismo in uno stesso vocabolo»: un composto insomma tutto suo, originale, efficace, espressivo, se non perfetto, quale si trova nei grandi creatori. Quanto dunque al proposito di toscanità, determinatosi poi logicamente in fiorentinità, e da parole esplicite e dalle prove di fatto, che l’autografo dà, non la cosiddetta risciacquatura dei suoi cenci in Arno vari anni dopo la pubblicazione, ma fin da principio l’intendimento, se non si dica la necessità d’usare acqua d’Arno, per... Il lettore, che ha capito, continui da sé nella metafora, cercando ch’essa corrisponda, se gli riesce, alla verità.

Ma forse a questo punto, egli, un po’ stanco d’informazioni sul libro, che potevano anche essergli in parte risparmiate, e che scuserà con l’ammirazione grande, e incerta tra quale esso nacque e quale fu poi definitivamente: egli, paziente, chiede come sia stato fatto questo libro, cioè quanto corrisponda all’autografo dalle molte pagine tempestate di cancellature con freghi di ogni specie a intreccio, a croce, a macchie qualche volta impenetrabili.

Ecco: se intendere un’opera vuol dire saperla lèggere; pubblicare un autografo, equivale ad averlo trascritto bene, ossia fedelissimamente. Ottenuta ora questa trascrizione fedele? Chi l’ha tentata, ha fatto tutto il possibile per riescirvi; ed ecco, a tale scopo, come s’è condotto.