Gli amanti/Il viale degli oleandri (Mario Felice)
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IL VIALE DEGLI OLEANDRI
(Mario Felice).
Nella grande e strana dolcezza di quell’aprile, tutto il vasto parco era fiorito, fra la collina e il mare: i larghi viali dalle quercie austere, dai platani austeri, sotto l’arco verde oscuro dei loro rami, eran tutti biondeggianti di sottili raggi di sole, eran biondeggianti di piccoli e scherzosi occhi di sole. Lontano, nella gran rotonda luminosa era un cicalìo di bimbi e un cicalìo di passeri e il rombo sordo della città giungeva ancora colà. Bastava allontanarsi cento passi, verso il mare, perchè ogni rumore svanisse nell’aria lieve: e la solitudine del parco era solo turbata da qualche rara persona che passeggiava, lentamente riscaldandosi al sole, un vecchio o un convalescente i cui occhi senza fiamma e senza forza non avean più curiosità: turbato tavolta, il profondo silenzio vegetale dal fruscio di un getto di acqua, con cui un invisibile giardiniere inaffiava un’aiuola. Maria entrava nel parco dalla porta occidentale: al picciolissimo orologio che ella portava sempre seco, nella taschettina della giacchetta, sul petto, le ore di oro su fondo nero segnavano le quattro in punto. Era sempre quella, l’ora del convegno quotidiano, ed ella si doveva frenare per non giungere mezz’ora, un quarto d’ora più presto.
— Se arrivo troppo presto soffro molto, — ella pensava, cercando di diminuire ai suoi nervi la tormentosa impazienza e al suo cuore l’intima tortura.
E perdeva un po’ di tempo nel fermare la veletta nera del cappello, abbottonava pian piano i suoi guanti, si guardava ancora nello specchio, senza vedersi, e macchinalmente cercava se avesse preso tutto, il fazzoletto, il portabiglietti, il bianco ombrello. Quest’ombrello era la sola nota chiara sul nero vestito, sul cappellino nero, sulla giacchetta nera di Maria: un ombrello tutto bianco di merletti e di seta, con un grosso fiocco di nastro giallo e un alto scintillante manico d’argento: sulla candida cupola, nei viali delle quercie e dei platani, il sole faceva piovere i suoi sottilissimi raggi biondi, simili a verginali e luminosi capelli, e la bianca cupola si faceva bionda e sul pallido volto di quella inquieta passeggiatrice un confortante riflesso primaverile scendeva, carezzando i pensosi occhi lionati e la molle linea delle fresche labbra. Maria si avanzava camminando piano e silenziosamente, guardando innanzi a sè, così avidamente che le palpebre talvolta si abbassavano per vincere quella fissità ardente di sguardo:
— Se guardo troppo, egli non verrà; meglio non guardare, mi sarà innanzi improvvisamente, — ella pensava con la fatale superstizione amorosa che accompagna ogni moto della passione.
Eppure Mario Felice non tardava mai molto: un quarto d’ora, venti minuti, non più. D’altronde egli entrava dalla porta orientale del parco e doveva fare più cammino di Maria, per giungere al posto dell’appuntamento: arrivava camminando in fretta, un po’ affannato e a qualunque distanza egli apparisse, avesse ella lo sguardo levato o chino a terra, ella sentiva che egli era là e un acuto senso di bene le s’irraggiava dal cuore per tutte le fibre. Talvolta ella fingeva di non averlo visto, mentre sapea bene che egli si avanzava, ne contava i passi, fremeva per quell’appressamento, fra cinque minuti secondi la sua mano avrebbe tremato in quella di lui: o, talvolta, non poteva resistere al desiderio di vederlo giungere, i suoi occhi si metteano fervidamente in quella figura alta e svelta di uomo che si avanzava, in quel sorriso triste che ne trasformava malinconicamente la fisonomia serena. Ella s’inebbriava di quella vista, ella aveva negli occhi la rara luce dei suoi buoni giorni, e quando Mario Felice e Maria erano vicini, si stringevano la mano e nulla dicevano. Camminavano insieme accanto, ella levando ogni tanto gli occhi su lui con una infinita dolcezza in una confusione di speranze compiute e di novelli desiderii che le impediva ogni discorso: egli taceva, a occhi bassi come pensando. E andavano insieme nel viale degli oleandri.
Il viale degli oleandri era lungo, stretto e sinuoso. Da una parte e dall’altra, gli oleandri crescevano fitti e ricchi di tutte le dimensioni, ad alberetti bassi, a cespugli, ad alberi grandi, dalla verdura bizzarra di foglie a ferro di lancia, dalla fioritura rosea così esuberante che il suolo era sempre coperto di fiori rosei: un fine e singolare profumo era nell’aria del viale; profumo fresco e triste, insieme. Era quello degli oleandri, il viale così roseo e così bizzarramente odoroso, abbandonato da tutti, chi sa perchè: deserto, il solo banco di marmo che vi era, era seminato di fiori d’oleandro che nessuno levava mai per sedervisi: deserto e a ogni angolo che formava il disegno sinuoso, parea stare in viale chiuso ermeticamente, inaccessibile a tutti, salvo che agli amanti: deserto e nella sua nobile e forte fioritura, nella beltà strana dei suoi fiori ingemmanti la verdezza dei rami, come colpito dalla irremediabile fatalità dell’abbandono. Non so quale misterioso fascino attirava nel viale degli oleandri Mario Felice e la donna che lo amava: ricordavano, è vero, ambedue di avere visto insieme, tanto tempo prima, una linea di cielo azzurro e un muretto bianco, e i due amanti che parlavano di amore, che quasi tendevano le labbra per baciarsi e sul cielo azzurro il ramo ricco di fiori di un oleandro, il fiore di quell’idillio che la mano sapiente di Alma Tadema aveva dipinto, turbando i cuori di tutti coloro che hanno avuto il delizioso piacere di guardare quel quadro. Ma i due amanti di Tadema sono così inebbriati di gioventù e di amore e l’oleandro è così giocondamente voluttuoso! Mentre il viale degli oleandri seduceva Mario Felice e Maria con segrete voci di malinconia; e quando si vi trovavano perfettamente soli, essi si guardavano pallidi e muti: essi sognavano, nei fiori rosei, il veleno esiziale che vi si contiene e che, forse, esalava l’anima perversa nel profumo bizzarro che riempiva l’aria. Per essi era rosso e affascinante il fiore dell’amore: ma pieno di una profonda amarezza, ma contenente un tossico invincibile.
— Mi vuoi bene? — chiedeva la donna a Mario Felice.
— Tu lo sai, — egli rispondeva, con una lieve contrazione penosa sul volto.
— Non lo so, non lo so, dimmi se mi vuoi bene, — insisteva lei agitata.
— Non domandare, cara, — continuava a rispondere Mario Felice, con una crescente impressione dolorosa.
Ella taceva. Ma queste erano le risposte dei buoni, dei rarissimi giorni, erano le risposte date solo tre o quattro volte, nel lungo e combattuto loro amore: ella conservava preziosamente queste risposte, che le parevano ispirate da un’immensa tenerezza. Quasi sempre alla monotona domanda, alla domanda persistente di lei, a quelle ansiose, affannose parole che erano il costante ritornello di quel cuore femminile, mi vuoi bene, mi vuoi bene? egli non rispondeva che con un sorrisetto fra l’ironico e il pietoso, come se gli facesse compassione quella folle ostinazione. Talvolta, nelle giornate nere, irritato, egli rispondeva:
— No.
— Non mi vuoi bene?
— Non ti voglio bene.
— E che vieni, a fare qui?
— Niente.
— Perché ci vieni allora?
— Eh.... così, — diceva egli enigmaticamente.
A lei passavano negli occhi delle lacrime brucianti: e tutti i fiori rosei degli oleandri intorno ondeggiavano. Egli guardava Maria pensoso, triste: forse ne aveva pietà, ma taceva. Camminavano ancora, ella con le braccia abbandonate, col bianco ombrellino che strisciava sul terreno fra le foglie secche e i fiori di oleandri caduti e quasi appassiti, con le spalle un po’ curve, abbattuta da una infelicità che la vinceva anche nel fisico: egli accanto, sogguardandola, ma non trovando parole per confortarla. Ma nel fondo dell’animo di quella pallida donnina dai fini capelli castagni, dalle guancie un po’ smunte, dalle fresche labbra, in fondo a quell’anima vinta e perduta per l’amore, esisteva una forza imperiosa di volontà. Ella rialzava il capo decisa ad accettare da quell’uomo che essa adorava, tutto quello che egli poteva offrirle, freddezza, antipatia, amicizia, tenerezza, omaggio di devozione, quello che egli sentiva e che ella non sapeva, non sapeva. Purché egli si lasciasse amare. Maria era risoluta a vincere la dolcissima debolezza femminile che vuole udire, anche se false, anche se fallaci, le parole dell’amore; purché si lasciasse amare, ella volea perdonargli tutto. Mario Felice, acuto osservatore, le leggeva nella fisonomia subitamente infiammata, negli occhi fieri del sacrificio, nelle labbra già quasi sorridenti, nel passo più rapido, e sentiva che ella aveva allontanata la tempesta dove minacciava di naufragare il suo amore. Egli l’ammirava in quelle improvvise risurrezioni di forza che era anche amore: e tentava di vincerla. Allora, fra i due, s’impegnava una lotta di parole, di impressioni, di sentimenti, in cui Mario Felice, apposta, aumentava la dose esterna della sua freddezza, non badava o fingeva di non badare alla crudeltà di certi suoi silenzii, misurava glacialmente l’entità perversa di certe frasi, e le pronunziava a tempo. Ella resisteva, ripiegandosi, fuorviando, inebbriata di amarezza, ma più sollevata dall’amarezza istessa:
— Verrai domani?
— No, non posso, — egli dicea, subito.
— Dopodomani, allora!
— Non so.... ho da fare.
— Che hai da fare.... meglio dell’amore?
— Oh mille cose!
— Meglio dell’amore?
— Meglio; più utili.
— Hai ragione, — ella diceva, umilmente. — Purchè tu non vada da un’altra donna!
— Non ci mancherebbe che questa! — esclamava Mario Felice.
— Tu non ami nessun’altra donna, è vero?
— Io non amo nessuna donna, o signora, — egli concludeva gelidamente.
— Neanche me?
— Neanche voi.
— Peccato, peccato, peccato! — mormorava ella, pianissimo, lamentandosi come un bimbo malato.
Anch’egli era pallido, udendo quel sommesso lamentio, che deplorava l’aridità del suo amore. Ma continuava:
— Del resto voi siete un angelo, cara Maria. Un angelo che ha detto una sola bugia, nella sua angelica esistenza.
— Quale? — chiedeva lei, smarrita.
— Tu dici la bugia, cara, quando dici di volermi bene.
— Io, io? — gridava lei stupefatta.
— Tu. Non è vero che mi ami.
— Oh Madonna mia, — gridava lei, soffocatamente.
— Se vuoi, te lo dimostro.
Così, Mario Felice la vinceva. Innanzi alla negazione precisa, assoluta dell’amor suo, tutta la forza di abnegazione di Maria svaniva. Ella non resisteva a quella negazione, ciò la esasperava e l’avviliva, non trovava nulla da risponderle, il suo sdegno era grande come il suo terrore. Ma che uomo era dunque, questo Mario Felice, a cui ella si era avvinta? Ma che sciagurata natura di uomo, senza fede e senza speranza, senza entusiasmo e senza carità, ella si era messa ad adorare? Egli non l’aveva amata giammai: questa era la sola certezza. Aveva ceduto, riluttante, quasi pauroso, alla impetuosa passione di lei: aveva ceduto, pensoso, triste, per cortesia, per pietà, forse per una sua intima debolezza: e quella mortale tristezza che in lui sorgeva per tutte le cose e per tutti i sentimenti, non lo aveva mai lasciato, la felicità non aveva mai lampeggiato dai suoi occhi, non aveva mai tremato nella sua voce.
— Che hai? Che hai? — ella domandava, nei primi momenti del loro amore, sentendo la sofferenza del suo silenzio.
Egli taceva, ancora. E più tardi, come se nel cuore di lui fosse sorta una ribellione sorda contro questo amore che non divideva e che lo opprimeva, come se egli avesse finito per detestare questa fragile donna che lo rattristava con la sua passione, come gli altri col loro odio o con la loro indifferenza, Mario Felice non aveva trovato che un mezzo solo per ferirla nell’indomito coraggio, quello di negare l’amor suo. Oh come egli aveva bene inteso ciò che a lei era insopportabile di udire, come la mala volontà di perversione aveva visto in quale parola consisteva l’irremediabile dolore! Il dissidio fra loro era grande, basato sulle diversità dei temperamenti, dei caratteri, dell’età: ella sentiva che Mario Felice non poteva amarla, perchè era maritata ed egli odiava la posizione di amante furtivo: sentiva che egli non poteva amarla, perchè odiava tutta la vita esteriore e mondana a cui ella era costretta: sentiva, sì, sentiva che egli non poteva amarla, perchè lui non era stato il suo primo amore, perchè a questi uomini dal cuore profondo bisogna portare se non altro un cuore verginale. Ella capiva, sì, capiva le ragioni di quella mortale tristezza e la spirituale ripugnanza di Mario Felice: si sapeva indegna di essere amata e non chiedeva più se egli le voleva bene. Ma che orgoglio inflessibile era dunque quello di quest’uomo che non amava e non sapeva neppure perdonare all’amore? Ma che anima malvagia era dunque quella di Mario Felice che colpiva freddamente e risolutamente colei che lo adorava? Talvolta queste ingiurie sgorgavano dalle labbra di Maria, per impulso involontario: egli le ascoltava, a capo basso, seduto su quel banco di marmo dove tanti fiori di oleandro erano piovuti: egli non attaccava più e non si difendeva, lasciava rotolare rumorosamente il fiume della indignazione muliebre. Ella si chinava, lo forzava a guardarla negli occhi, furente di collera che tentava invano di reprimere; Mario Felice taceva. Poi, quando i rossori del tramonto si cangiavano in ombre violacee, egli guardava il cielo limpido, i cespugli degli oleandri, e i mazzi fitti di fiori rosei: e pronunziava la gran parola:
— Questo amore deve morire.
Ella tremava come se il soffio della morte fosse passato sulla sua fronte.
⁂
Contro la condanna implacabile, Maria difese l’amore ora per ora, giorno per giorno, con l’accanimento della madre che non vuol veder morire l’unico suo figliolo; e la appassionata donna, vibrante di una energia morale che nulla valeva a quietare, oppose una quotidiana resistenza alla parola morte, che ritornava sempre nei discorsi di Mario Felice. Ogni volta, ella fremeva di dolore e le sue guancie si facevan livide: egli, paziente, aspettava che quella emozione passasse, per ricominciare, come se vedesse soltanto il proprio scopo. Adesso quei colloqui nel profumato viale degli oleandri, fra quella esotica fioritura, le facevano terrore, ma vi andava, spinta da un istinto di lei più forte: e talvolta, in grazia, gli chiedeva di non parlare d’amore, tanto ella vedeva sorgere, dietro a quei discorsi, la tremenda parola della distruzione. Tranquillo, malgrado la sua tristezza, freddo nella impenetrabile sua malinconia, Mario Felice acconsentiva, ed allora, gli oleandri del viale, in quella tregua, udivano una assai bizzarra conversazione, trascendente, lontana da tutte le quotidiane cose umane.
— Mi basta udire la tua voce: — essa diceva, più calma, quando il colloquio finiva.
Egli sorrideva, con una lieve e fugace ironia. Per qualche tempo, come obbediente a una segreta idea, egli risparmiava Maria e si lasciava ancora amare, non rispondendole quando ella gli chiedeva la ragione della sua contradizione. Ma eran sempre più brevi, le tregue; e ogni volta che essi si rivedevano, direttamente o indirettamente, egli le dimostrava che quell’amore doveva morire. Ah la povera donna, la poveretta come chiudeva li occhi, sgomenta, dinanzi a quella folgorante luce crudele; come trovava nella sua passione le preghiere più umili e pure non vigliacche, perchè questo amore non fosse ucciso proprio da loro! Avevan vinto il tempo e le cose e gli uomini, sormontando e calpestando gli ostacoli, e ora, ora bisognava che questo amore morisse?
— Meglio prima che dopo, — egli ripeteva, sempre.
— Dopo, che? — ella chiedeva.
— Non domandare, lascia stare, tu capisci, forse: o capirai più tardi....
La poveretta non gli parlava, soltanto gli scriveva: e ogni dieci o dodici lettere di lei, egli rispondeva, per dimostrarle che quell’amore doveva morire. Maria desiderava queste lettere come la benedizione del cielo, ma quando gliene consegnavano una, non osava di aprirla, immaginava tutto il suo straziante contenuto. Mario Felice mancava agli appuntamenti: poi, partì. Ella cadde gravemente inferma: egli ritornò, ma non potette assisterla, non gli era permesso di andare in casa di lei. Le mandava un comune amico, che non ignorava il loro segreto: e questo amico le diceva quelle vaghe parole di consolazione, che dovrebbero confortare chi ha fatto una perdita irreparabile. Nella convalescenza, ella scrisse a Mario Felice, tristamente, delle lettere piene di lagrime: ed egli le rispose con molta tenerezza, senza una parola di amore, ma con tenerezza, con molta tenerezza, che si sarebbero riveduti, là, in quel viale degli oleandri che era il nido più caro e più poetico del loro amore. E Maria sperò di nuovo e con tale ardore desiderò di uscire, che nessuno glielo potette impedire, malgrado la sua grande debolezza. Era estate, ormai, e i tramonti eran lunghi e violenti di colore: il viale era ancora fiorito, ma una messe rosea copriva il suolo. Ella trovò Mario Felice seduto sul banco: lo trovò più pallido, più triste che mai, le strinse debolmente la mano. Ella soffocava di emozione: e sul principio non parlarono, a bassa voce, che della infermità di lei e del viaggio che aveva fatto lui. Ella lo guardava negli occhi aspettandone una parola decisiva, quella che era venuta a udire, quella che le sue inaudite sofferenze, i tormenti morali e fisici e la tenerezza di lui avrebbero dovuto ispirargli: la parola che meritava la più pura e più ardente passione:
— Maria, questo amore deve morire, — egli disse fatalmente.
Ella non battè palpebra, non impallidì: solo, pensò un poco e rispose:
— Muoia, dunque.
Non aveva tremato la bella voce di Maria confermando chiaramente la sentenza di morte. Altro non dissero. Pallido come un morente, egli aveva vinto. Ella si levò, senza guardare nè il roseo cielo, nè i fiori che parevano tante fiammelle rosee, in quel tramonto:
— Addio, Mario,
— Addio, Maria.
Ella se ne andò, senza raccogliere un fiore, senza voltarsi, sparì, lontano, verso la gran rotonda luminosa dove arrivava il rombo sordo della città. Mario Felice restò seduto sul banco, e le prime ombre della sera lo avvolsero, poi la notte discese e lo trovò ancora lì, immobile. Nella notte olezzavano più acutamente i dolci fiori dell’oleandro, pieni di un veleno sottile: qualcuno di essi si staccava dal ramo e cadeva al suolo. Per sempre desolato era il cuore di colui che aveva vinto: e le lagrime della suprema tristezza piovevano dai suoi occhi, nella notte.