dalle fresche labbra, in fondo a quell’anima vinta e perduta per l’amore, esisteva una forza imperiosa di volontà. Ella rialzava il capo decisa ad accettare da quell’uomo che essa adorava, tutto quello che egli poteva offrirle, freddezza, antipatia, amicizia, tenerezza, omaggio di devozione, quello che egli sentiva e che ella non sapeva, non sapeva. Purché egli si lasciasse amare. Maria era risoluta a vincere la dolcissima debolezza femminile che vuole udire, anche se false, anche se fallaci, le parole dell’amore; purché si lasciasse amare, ella volea perdonargli tutto. Mario Felice, acuto osservatore, le leggeva nella fisonomia subitamente infiammata, negli occhi fieri del sacrificio, nelle labbra già quasi sorridenti, nel passo più rapido, e sentiva che ella aveva allontanata la tempesta dove minacciava di naufragare il suo amore. Egli l’ammirava in quelle improvvise risurrezioni di forza che era anche amore: e tentava di vincerla. Allora, fra i due, s’impegnava una lotta di parole, di impressioni, di sentimenti, in cui Mario Felice, apposta, aumentava la dose esterna