Gl'ingannati/Atto III
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ATTO III
SCENA I
Pedante, Fabrizio giovine figliuol di Virginio e Stragualcia servo.
Pedante. Questa terra mi par tutta mutata poi ch’io non vi fui. Vero è ch’io non vi fui se non per transito con li oratori d’Ancona; e alloggiammo al «Guicciardino». Pur vi stemmo da sei giorni. Tu ricognoscine cosa alcuna?
Fabrizio. Come mai piú non l’avessi veduta.
Pedante. Credotelo, perché te ne partisti si piccolo che non è maraviglia. Or pur conosco la strada dove siamo. Quello è il palazzo de’ Rangoni; qui sotto passa il canal grande; quel che vedi lá in capo è il duomo. Hai tu sentito dire «Sarestú mai la potta da Modana?» o vero «Gli pare esser la potta da Modana»?
Fabrizio. Mille volte. Mostratemela, di grazia.
Pedante. Vedila sopra il duomo.
Fabrizio. È quella?
Pedante. Quella.
Fabrizio. Oh! Questa è una baia!
Pedante. Tu vedi.
Fabrizio. Ho sentito ancor dire «Tu hai tolto a menar l’orso a Modana». Che vuol dire? dov’è questo orso?
Pedante. E’ son dettati antiqui de quibus nescitur origo.
Fabrizio. Certo, maestro, che questa terra par che mi venga di buono.
Stragualcia. Ed a me vien di migliore, ch’io sento qua presso uno odor d’arosto che mi fa morir di fame.
Pedante. Oh! Non sai quel che dice Cantalicio? «Dulcis amor patriae». E Catone: «Pugna prò patria». Hoc. Insumma, e’ non c’è la piú dolce cosa che la patria.
Stragualcia. Io credo che sia molto piú dolce il tribiano, maestro. Cosí n’avess’io un boccale! ch’io sono spallato, a portar questa valigia.
Pedante. Queste strade paion fatte di nuovo. Quand’io ci fui, eran tutte sordide e fangose.
Stragualcia. Aviamo a contare i mattoni? Ci sará facenda! Vorrei che noi andassemo piú presto in qualche luogo che facessemo colazione, io.
Pedante. Iandudum animus est in patinis.
Fabrizio. Che arma è quella di quei succhielli?
Pedante. Quella è l’arma di questa communitá e chiamasi la Trivella. E, come a Fiorenza si grida: «Marzocco! Marzocco! » e a Vinegia: «San Marco! San Marco!» e a Siena: «Lupa! Lupa!», cosí qui esclamano: «Trivella! Trivella!».
Stragualcia. Io vorrei piú tosto che noi gridassemo: «Padella! Padella!».
Fabrizio. Quella la conosco. È l’arme del duca.
Stragualcia. Maestro, vorrei che voi portasse un poco questa valigia, voi. Io ho si secche le labbra ch’io non posso parlare.
Pedante. Orsú, che ti ca varai la sete poi!
Stragualcia. Quand’io son morto, fatemi un brodetto agli I archi.
Fabrizio. Basta che, ne la prima gionta, questa terra mi piace assai. E a te, Stragualcia?
Stragualcia. A me pare un paradiso, che non vi si mangia e non vi si beve. Orsú ! Non perdiam piú tempo a veder la terra, che la vedremo a bello agio.
Pedante. Tu vedrai qui il piú solenne campanile che sia in tutta la machina mondiale.
Stragualcia. E quello al qual i modanesi volevon far la guaina? e che dicono che la sua ombra fa impazzar gli uomini?
Pedante. Si, cotesto.
Stragualcia. Io so ch’io non uscirò di cucina, per me. Chi ci vuole andar ci vada. Or sollecitiam d’alloggiare.
Pedante. Tu hai una gran fretta.
Stragualcia. Cancaro! Io mi muoio di fame e non ho mangiato altro, stamattina, ch’una mezza gallina che v’avanzò in barca.
Fabrizio. Chi trovarem noi che ci meni a casa di mio padre?
Pedante. Non. A me pare che noi ci andiamo a metter prima in una ostaria, e quivi assettarci un poco e con commoditá poi investigarne.
Fabrizio. Mi piace. Queste debbono esser l’ostarie.
SCENA II
L’Agiato oste, Frulla oste, Pedante, Fabrizio, Stragualcia.
Agiato. Oh gentili uomini! Questa è l’ostaria, se volete alloggiare. Allo «Specchio» ! allo «Specchio» !
Frulla. Oh! Voi siate i ben venuti. Io v’ho pure alloggiati altre volte. Non vi ricorda del vostro Frulla? Entrate qua dentro, ove alloggiano tutti e’ par vostri.
Agiato. Venite a star con me. Voi arete buone camere, buon fuoco, buonissime letta, lenzuola di bocata; e non vi mancare cosa che voi aviate.
Stragualcia. Di cotesto mei sapevo.
Agiato. Volsi dir che voi vogliate.
Frulla. Io vi darò il miglior vin di Lombardia, starne tanto larghe, sai ciccioni di questa fatta, piccioni, polastri e ciò che voi saprete domandare; e goderete.
Stragualcia. Questo voglio sopra tutto.
Pedante. Tu che dici?
Agiato. Io vi darò animelle di vitella, mortatelle, vin di montagna; e, sopra tutto, starete dilicati.
Frulla. Io vi darò piú robba e manco dilicatura. Se venite con me, trattarovvi da signori e ’l pagamento sará a vostro modo; ove, allo «Specchio», vi mettará a conto fino le candele. Fate voi.
Stragualcia. Padrone, stiam qui, che gli è meglio.
Agiato. E fate a mio modo, se volete star bene. Volete che si dica che voi siate alloggiati al «Matto»?
Frulla. È cento mila volte meglio il mio «Matto» che non è il tuo «Specchio».
Pedante. Speculum prudentia significat iusta illud nostri Catonis «Nosce teipsum». Intendi, Fabrizio?
Fabrizio. Intendo.
Frulla. Veggasi chi ha piú osti: o tu o io.
Agiato. Veggasi dove van piú uomini da bene.
Frulla. Veggasi ove son meglio trattati.
Agiato. Veggasi chi tien piú dilicato.
Stragualcia. Che tanto «dilicato, dilicato, dilicato»? Io . kjjn vorrei, una volta, empire il corpo meglio e star manco dilicato, per me, io; che tanta delicatezza è cosa da fiorentini.
r ^V Agiato. Tutti cotesti alloggian con me.
Frulla. Alloggiavano; ma, da tre anni in qua, tutti vengono a questa insegna.
Agiato. Garzon, pon giú quella valigia; che m’avveggo che la ti spalla.
Stragualcia. Non ti curar di questo, tu; ch’io non voglio ^ alleggerir la spalla, s’io non veggo di caricar prima il ventre.
Frulla. Bastarannoti un paio di capponi? Porta qua. Questi son per te solo.
Stragualcia. Non, ch! Ma gli è per uno antipasto.
Agiato. Guardate che prosciutto, se non pare un cremisi!
Pedante. Questo non è cattivo.
Frulla. Chi s’intende di vino?
Stragualcia. Io, io, meglio che i franzesi.
Frulla. Assaggia se ti piace: se non, te ne darò di dieci sorti.
Stragualcia. Frulla, al mio parer tu sei piú prattico di questo altro che prima ci mostra il modo da far bere che sappia se ’l vin ci piace. O padrone, gli è buono. Tolle, tolle questa valigia.
Pedante. Aspetta un poco. Tu che dici?
Agiato. Dico che i gentili uomini non si curan d’empire il corpo di tanta robba; ma di poca, buona e dilicata.
Stragualcia. Costui debbe essere spedaliere. o oste d’amalati.
Pedante. Non parli male. Che ci darai?
Agiato. Domandate.
Frulla. Ed io mi maraveglio di voi, gentiluomini. Quando c’è de la robba assai, l’uom può mangiar quel poco o quel molto che gli piace; il che del poco non accade. Poi, come l’uomo comincia, l’appetito cresce e bisogna empirsi il corpo di pane.
Stragualcia. Tu sei piú savio delli statuti. Io non viddi mai uomo che intendesse meglio il mio bisogno di te. Va’, ch’io ti vo’ bene.
Frulla. Va’ un poco in cucina, fratello, e vede.
Pedante. Omnis repletio mala, panis autem pessima.
Stragualcia. Pedante poltrone! Ti rompo, un di, la bocca, s’io vivo.
Agiato. Venite, gentiluomini, che lo star fuore al freddo non è cosa da savi.
Fabrizio. Eh! Noi non siam cosí gelosi, no.
Frulla. Sapiate, signori, che questa ostaria dello «Specchio» soleva esser la megliore ostaria di Lombardia. Ma, come io apersi questa del «Matto», non alloggia, in tutto uno anno, dieci persone; e ha piú nome questa mia insegna, per tutto il mondo, che ostaria che sia. Qui vengon francesina schiera, S todeschi quanti ne passano.
Agiato. Non dici il vero, che i todeschi vanno al «Porco».
Frulla. Qui vengono i milanesi, i parmigiani, i piagentini.
Agiato. Alla mia vengono i veneziani, i genovesi e i fiorentini.
Pedante. Ove alloggiano i napoletani?
Frulla. Con me.
Agiato. Lasciatevi dire. Alloggian, la piú parte, all’«Amore».
Frulla. E quanti ne alloggian con me?
Fabrizio. Il duca di Malfi dove alloggia?
Agiato. Quando alla mia, quando alla sua, quando alla «Spada», quando all’«Amore», secondo che ben gli mette.
Pedante. Dove alloggiano i romani? perché noi siam da Roma.
Agiato. Con me.
Frulla. Non è vero: non trovarete un che v’alloggi in tutto l’anno. Vero è che certi cardenali antichi, per usanza, vi sono alloggiati; ma tutti questi novi dan del capo nel «Matto».
Stragualcia. Io non mi partirei di qui, s’io ne fusse strascinato. Vadin costoro dove vogliono. Padrone, son tante pignatte intorno al fuoco, tanti pottaggi, tanti savoretti, tanti intengoli, spedonate di starne, di tordi, di piccioni, capretti, capponi lessi, arrosto e miramessi, guazzini, pasticci, torte che, s’egli aspettasse il carnovale o la corte di Roma tutta, gli bastarebbe.
Frulla. Hai tu bevuto?
Stragualcia. E che vini!
Pedante. Variorum ciborum commistio pessima generat digestionem.
Stragualcia. Bus asinorum, buorum, castronorum, tatte, batatte pecoronibus Che diavolo andate intrigando l’accia? Che vi venga il cancaro a voi e quanti pedanti si truova! Mi parete un manigoldo, a me. Padrone, entriam drento.
Fabrizio. Dove alloggian gli spagnuoli?
Frulla. Io non m’impaccio con loro. Cotesti vanno al «Rampino». Ma che bisogna piú cose? Non c’è persona che vada a torno che non alloggi a questa insegna. Dai sanesi in fuora, che, per esser quasi una cosa medesma coi modanesi, non giongan prima in questa terra che truovan cento amici che se gli menano a casa loro, signori e gran maestri, poveri e ricchi, soldati e buon compagni, tutti corrono al «Matto».
Agiato. Io dico che i dottori, i giudici, i frati virtuosi, tutti vengono alla mia insegna.
Frulla. Ed io vi dico che passan pochi giorni che qualcun di quelli che sono alloggiati allo «Specchio» non eschino fuore e non venghino a star con me.
Fabrizio. Maestro, che faremo?
Pedante. Etiam atque etiam cogitandum.
Stragualcia. O corpo mio, fatti capanna; ch’io so che, per una volta, alzarò il fianco.
Pedante. Io penso, Fabrizio, che noi aviam pochi denari.
Stragualcia. Maestro, io ci ho veduto un figliuol dell’oste bello come uno angiolo.
Pedante. Orsú! Stiam qui. In ogni modo, tuo padre, se lo troviamo, pagará l’oste.
Stragualcia. Parti che ’l cimbel fusse a tempo per far calare il tordo? Io ho giá bevuto tre volte e ho detto una. Io non mi partirò di cucina, ch’io assaggiarò ciò che v’è; e poi dormirò intorno a quel buon fuoco. E cancar venga a chi vuol far robba!
Agiato. Ricordati, Frulla, che tu me n’hai fatte troppo e, un di, ci spezzarem la testa; e bene.
Frulla. A tua posta. Non posso piú presto che ora.
SCENA III
Virginio vecchio e Clemenzia balia.
Virginio. Questi sono i costumi che tu gli hai insegnati? Questo è l’onore ch’ella mi fa? Oh sfortunato a me! Per questo ho io campato tante fortune? per veder la mia robba senza erede? per veder la mia casa disfatta, la mia figliuola una puttana? per diventare una fabula del vulgo? per non piú potere alzar la fronte fra gli uomini? per esser mostrato a dito da’ fanciulli, deleggiato dai vecchi, messo in comedia dagli Intronati, posto per essempio nelle novelle e portato per bocca dalle donne di questa terra?
E forse che non son novelliere! forse che non gli piace di dir male! Giá credo che si sappia per tutto; anzi, ne son certo, che basta ch’una sola il sappia che, fra tre ore, va per tutta lati terra. Disgraziato padre! misero e doloroso vecchio troppo vis- ’* suto! Virginio, che farò io? che pensiero ha da essere il mio?
Clemenzia. Farai bene di farne manco romore che puoi e veder di proveder, meglio che si potrá, che la torni a casa senza che tutta questa cittá se ne accorga. Ma tanto avesse ella fiato, suor Novellante Ciancini, quanto io credo che sia vero che Lelia vada vestita da uomo! Guarda che elle non dichin cosí perché la vorrebbeno far monaca e che tu gli lassi tutta la robba tua.
Virginio. Come non dice il vero? Ella m’ha per infin detto ch’ella sta per ragazzo con un gentiluomo di questa terra e che egli non s’è ancora accorto ch’ella sia donna.
Clemenzia. Potrebbe essere ogni cosa; ma, per me, non lo posso credere.
Virginio. Né io non lo posso credere che non la conosca per donna.
Clemenzia. Non dico cotesto, io.
Virginio. Il dico io, che mi tocca: bench’io stesso mi feci il male, dandola a nutrire a te che sapevo chi tu eri.
Clemenzia. Virginio, non piú parole. S’io son stata una trista, m’hai fatta tu. Sai bene che, prima che tu, non mi ebbe altri che il mio marito. Io dico che le fanciulle si voglion trattare altrimenti. Non ti vergognavi di volerla maritare a un vecchio rantacoso che le potrebbe esser nonno?
Virginio. E che hanno i vecchi, manigolda? Son mille volte meglio che i giovani.
Clemenzia. Tu sei uscito del sentimento: e però fa bene ognuno a scorgerti e darti ad intender le ciaramelle.
Virginio. S’io la truovo, la strascinarò a casa pe’ capegli.
Clemenzia. Farai pur come colui che si toglie le corna di seno e se le mette in capo.
Virginio. Non me ne curo. Tanto se ne saria. Basti ch’io me le tagliarò.
Clemenzia. Governate a tuo modo, che non ti dorrá la testa.
Virginio. Io ho avuti i segnali come la va vestita. Tanto la cercarò ch’io la trovare. Poi bastisi.
Clemenzia. Fa’ come tu vuoi, ch’io mi vo’ partire; ch’io perderei il tempo a lavar carboni. Ma...
SCENA IV
Fabrizio giovinetto e Frulla oste.
Fabrizio. Mentre che questi due miei servidori si riposano, io andarò a vedere la terra. Come si levan, digli che venghino verso piazza.
Frulla. Per certo, padron mio, che, se io non vi avesse veduto vestir questi panni, io giurarei che voi fusse un giovinetto, servidor d’un gentiluomo di questa terra, che veste come voi di bianco e tanto vi s’assomiglia che quasi parete lui.
Fabrizio. Saria forse qualche mio fratello?
Frulla. Potrebbe essere.
Fabrizio. Direte poi al maestro che cerchi di colui che sa.
Frulla. Lasciate l’impaccio a me.
SCENA V
Pasquella fante e Fabrizio giovinetto.
Pasquella. In buona fé, che eccolo. Avevo paura di non aver a cercar tutta questa terra prima ch’io ’l trovassi. Fabio, che tu sia il ben trovato. Ti venivo a cercare; tu m’hai tolto fatica. Amor mio, dice la padrona che, per una cosa ch’importa a te e a lei, che tu venga or ora a trovarla. Non so giá quel che si sia.
Fabrizio. Chi è la tu’ padrona?
Pasquella. Tu lo sai ben, tu, chi ella è. In buona fé, che l’uno e l’altro s’è attaccato bene!
Fabrizio. Io non son però attaccato; ma, s’ella vuole, ci attaccaremo, e presto.
Pasquella. Perché séte due da pochi. Vorrei esser giovine per potere ancor io tòrmene una corpacciata; e so che, s’io fusse in voi, avrei giá posti i sospetti e i rispetti da canto. Ma bene il farete, si.
Fabrizio. Eh madonna! Voi non mi conoscete. Andate, che voi m’avete còlto in iscambio.
Pasquella. Oh! Non l’aver per male, Fabio mio, ch’io ’l dico per farti bene.
Fabrizio. Io non ho per male niente; ma io non ho questo nome e non so’ chi voi credete.
Pasquella. Or fate pur fra voi due a vostro modo. Ma sai, figliuolo? Delle sue pari, cosí ricche e cosí belle, in questa terra ne son poche. E vorrei che voi cavasse le mani di quel che s’hadafare; che andar dinanzi e di dietro, ogni giorno, e tòr parole e dar parole dá che dire alle genti, senza util tuo e con poco onor di lei.
Fabrizio. Che cosa nova è questa? Io non l’intendo. O che costei è pazza o che m’ha còlto in iscambio. Vo’ pur veder dove la mi vuol menare. Andiamo.
Pasquella. Oh! Mi par sentir gente in casa. Fermati un poco qui intorno, che vederò se Isabella è sola. Accennaroti che tu entri, se non vi sará alcuno.
Fabrizio. Voglio stare a vedere che fine ha d’avere questa favola. Forse costei è serva di qualche cortigiana e credemi fare stare a qualche scudo; ma gli è male informata, ch’io son quasi allievo di spagnuoli e, alla fine, vorrò piú presto uno scudo del suo che dargli un carlin del mio. Qualcun di noi ci sará incòlto. Lasciami scostare un poco da questa casa e por mente che gente v’entra ed esce per saper che razza di donna sia.
SCENA VI
Gherardo, Virginio e Pasquella.
Gherardo. Tu mi perdonami. Se gli è cotesto, tela renuncio. E lasciamo stare ch’io penso che, se la tua figliuola ha fatto ciò, l’abbi fatto perché la non voglia me. Ma penso anco ch’ella abbi tolto altri.
Virginio. Noi creder, Gherardo. Credi ch’io tei dicesse? Ti prego che non vogli guastar quel che è fatto.
Gherardo. Io ti priego che non me ne parli.
Virginio. Oh! Vói mancar della tua parola?
Gherardo. A chi m’ha mancato di fatti, si: oltra che tu non sai se la potrai riavere o no. Tu mi vói vendere l’uccello in su la frasca. Ho ben sentito, quando tu ragionavi con Clemenzia, il tutto.
Virginio. Quando io non la riabbia, io non te la vo’ dare; ma, s’io la riaverò, non sei contento che le nozze si faccin subito?
Gherardo. Virginio, io ho avuta la piú onorata moglie che fusse in questa cittá e ho una figliuola che è una colombina.
Come vói ch’io mi metta in casa una che s’è fuggita dal padre e va per questa casa e per quella vestita da maschio, come le disoneste donnacce? Non vedi ch’io non trovarei da maritar mia figliuola?
Virginio. Passato qualche di, non se ne ragionará piú. Che credi che sia? E’ non vi è altri che tu e io che lo sappi.
Gherardo. E poi ne sará piena tutta questa terra.
Virginio. E’ non è vero.
Gherardo. Quant’è ch’ella è fuggita?
Virginio. O ieri o questa mattina.
Gherardo. Dio ’l voglia. Ma che sai ch’ella sia in Modena?
Virginio. Sollo.
Gherardo. Or truovala e poi ci riparleremo.
Virginio. Promettimi di pigliarla?
Gherardo. Vedrò.
Virginio. Or dimmi di si.
Gherardo. Noi dico, ma...
Virginio. Or dillo liberamente.
Gherardo. Adagio! Che fai costi, Pasquella? Che fa Isabella?
Pasquella. E che! Sta in ginocchioni dinanzi al suo altaruccio.
Gherardo. Benedetta sia ella! Io ho una figliuola che sempre sta in orazione. È la maggior cosa del mondo.
Pasquella. Oh quanto ben dite! La digiuna tal vigilia che Dio vel dica; dice l’officio, come una santarella.
Gherardo. Somiglia quella benedetta anima di sua madre.
Pasquella. Dice il vero. Oh quanto ben faceva quella meschina! Eran piú le discipline ch’ella si dava e i cilici ch’ella portava che non è quanto bene l’altre fanno oggi: limosiniera per la vita; e, se non fusse stato per amor di voi, non capitava né frate né prete né povarello a quello uscio che non ricettasse e non gli desse ciò ch’ella aveva.
Virginio. Coteste eran buone parti.
Pasquella. Vi dico piú oltre che la si levò dugento volte, una e due ore innanzi di, per andar alla prima messa de’ frati di San Francesco, che non voleva esser veduta né tenuta una pòrchita come fanno certe graffiasanti ch’io conosco.
Gherardo. Come «pòrchita»? Che vuo’ tu dire?
Pasquella. Pòrchita, si; come si dice?
Virginio. Cotesta è una mala parola.
Pasquella. So ch’io sentivo dir cosí a lei.
Gherardo. Tu vuoi dire ipocrita, tu.
Pasquella. Forse. Ma vi dico che sua figliuola sará ancor piú di lei.
Gherardo. Dio il voglia.
Virginio. Oh Gherardo, Gherardo! Questa è colei di che aviam ragionato. Oh scontento padre! Forse che si nasconde o che si fugge per avermi veduto? Accostiamoglici.
Gherardo. Vedi di non far errore, che forse non è essa e Virginio. Chi non la conoscerla? Non vegg’io tutti i segnali che m’ha dati suor Novellante?
Pasquella. La cosa va male. Che si ch’io n’arò le mie!
SCENA VII
Virginio, Gherardo e Fabrizio giovinetto.
Virginio. Addio, buona fanciulla. Parti che questo sia abito conveniente a una tua pari? Questo è l’onor che tu fai alla casa tua? Questo è il contento che tu dai a questo povero vecchio? Almen fuss’io morto quando io t’ingenerai! che non sei nata se non per disonorarmi, per sotterarmi vivo. Oh Gherardo! Che ti par della tua sposa? parti ch’ella ci facci onore?
Gherardo. Cotesto non dich’io. Sposa, ch?
Virginio. Ribalda, scelerata! Come ti starebbe bene che costui non ti volesse piú per moglie e non trovasse piú partito! Ma ei non guardare alle tue pazzie; e ti vuol pigliare.
Gherardo. Adagio!
Virginio. Entra costi in casa, sciaurata! che fu ben mala- detto il latte che tua madre ti porse il di ch’io t’ingenerai.
Fabrizio. O buon vecchio, avete voi figliuoli, parenti o amici in questa terra a’ quali appartenga aver cura di voi?
Virginio. Guarda che risposta! Perché dici cotesto?
Fabrizio. Perché mi maraviglio che, avendo voi tanto bisogno di medico, vi lascino uscir di casa; che, in ogni altro luogo che voi fusse, vi terreben legato.
Virginio. Legata dovevo io tener te, che mi vien voglia I di scannarti! Portami un coltello.
Fabrizio. Vecchio, voi non mi conoscete bene; e ditemi villania, forse pensando ch’io sia forestiero. Ed io son cosí j ben da Modana come voi e figliuol di si buon padre e di si buona casa come voi.
Gherardo. Gli è bella, in fine. Se non c’è altro errore che quanto si vede, io la vo’ pigliare.
Virginio. E perché ti sei partita da tuo padre e dal luogo dove io t’avevo raccomandata?
Fabrizio. Me non raccom mandaste voi mai, ch’io sappia; ma il partir mi fu forza.
Virginio. Forza, ch? e chi ti sforzò?
Fabrizio. Gli spagnuoli.
Virginio. E adesso donde vieni?
Fabrizio. Di campo.
Virginio. Di campo?
Fabrizio. Di campo, si.
Gherardo. Non ne sia fatto nulla.
Virginio. Oh sventurata a te!
Fabrizio. Questo sia sopra di voi.
Virginio. Gherardo, di grazia, mettiamola in casa tua, ch’ella non sia veduta cosi.
Gherardo. Non farò. Menala pure alla tua.
Virginio. Per mio amore, fa’ un poco aprire l’uscio.
Gherardo. Non, dico.
Virginio. Ascolta un poco. E voi aviate cura che costei non vada altrove.
Fabrizio. Io ho conosciuti molti modanesi pazzi li quali non contarei per nome; ma pazzi come questo vecchio, che non stesse o legato o rinchiuso, non viddi alcuno mai. Guarda che bello umore! È impazzato in questo, per quanto mi sono accorto: che i gioveni gli paion donne. Oh! Questa è molto piú bella pazzia che quella che il Molza disse della donna sanese che gli pareva essere una vettina: essendo piú propio delle donne aver poco cervello che de’ vecchi che, per mille ragioni, deveno essere savissimi. E non vorrei per cento scudi non poter contar questa pazzia alle veglie, al tempo dei carnovali. Or vengono in qua. Vediamo quel che dicono.
Gherardo. Io ti dirò il vero. Da un canto, mi pare; dall’altro, no. Pure, se gli può domandare un poco meglio.
Virginio. Vien qua.
Fabrizio. Che volete, buon vecchio?
Virginio. Tu sei ben trista, tu.
Fabrizio. Non mi dite villania, ch’io non comportarò.
Virginio. Sfacciata!
Fabrizio. Oh! oh! oh! oh! oh! oh! oh!
Gherardo. Lasciai dire: non vedi che gli è scorrucciato? Fa’ a suo modo.
Fabrizio. Che vuol da me? che ho da far né con voi né con lui?
Virginio. "Ancor hai ardir di parlare? Di chi sei figliuola, tu?
Fabrizio. Di Virginio Bellenzini.
Virginio. Volesse Dio che tu non fusse! che tu mi farai morir innanzi tempo.
Fabrizio. Innanzi tempo muore un vecchio di sessant’anni? Tanto vivesse ognuno! Morite a vostra posta, che séte vissuto troppo.
Virginio. Tua colpa, ribalda!
Gherardo. Eh! Lasciate queste parole. Figliuola mia e sorella mia, non si risponde cosí al padre.
Fabrizio. Lascia andare i colombi, e’ s’appaiano. Tutt’a due questi peccano d’un medesimo umore. E che bel caso! Ah! ah! ah! ah! ah!
Virginio. Ancor ridi?
Gherardo. Questo è un mal segno, a farsi beffe del padre.
Fabrizio. Che padre? che madre? Io non ebbi mai altro ^ padre che Virginio né altra madre che Giovanna. Voi mi pa- I rete una bestia. Che vi credete, forse, ch’io non abbi alcun per me?
Gherardo. Virginio, sai che dubito? che, per maninconia, non abbi a questa povera giovane dato volta il cervello.
Virginio. Trist’a me! ch’io me n’accorsi fino al principio, quando vidi che con si poca pazienzia mi venne innanzi.
Gherardo. No: questo poteva proceder da altro.
Virginio. E da che?
Gherardo. Com’una donna ha perduto l’onore, tutto ’l mondo è suo.
Virginio. Io dico che l’ha qualche pazzia nel capo.
Gherardo. Pur, si ricorda del padre e della madre; mentre I par che non ti conosca.
Virginio. Faciamola entrare in casa tua, poi che gli è qui vicina, che alla mia non la potrei far condurre senza farmi scorgere a tutta la terra.
Fabrizio. Che se consegliano quei rimbambiti, fratelli di Melchisedec?
Virginio. Facciamo in prima con le buone tanto che noi I la conduciamo dentro; poi, per forza, la serraremo in camara • con tua figliuola.
Gherardo. Che si faccia.
Virginio. Orsú, figliuola mia! Io non voglio star teco piú in colora. Ti perdono ogni cosa, pur che attendi a viver bene.
Fabrizio. Vi ringrazio.
Gherardo. Cosí fanno le buone figliuole.
Fabrizio. Ecco l’altro rosto fresco.
Gherardo. Orsú! Non v’è onore esser visti ragionar fuore in questo abito. Entrate vene in casa. Pasquella, apre l’uscio.
Virginio. Entra, figliuola mia.
Fabrizio. Cotesto non farò io.
Gherardo. Perché?
Fabrizio. Perché non voglio entrar per le case d’altri.
Gherardo. Costei sará una Penelope, beato a me!
Virginio. Non diss’io che la mia figliuola era bella e buona?
Gherardo. L’abito ’l mostra.
Virginio. Ti vo’ dir solamente una parola.
Fabrizio. Ditela di fuore.
Gherardo. Eh che non sta bene! Questa casa è la tua; tu hai da esser la mia moglie.
Fabrizio. Che moglie? Vecchio bugia... bugiardo!
Gherardo. Tuo padre mi t’ha pur promessa.
Fabrizio. Che pensate ch’io sia forse qualche bagascia che si faccia, ch?...
Virginio. Orsú! Non la far corrucciar. Odi, figliuola mia. Io non vo’ far se non quel tanto che tu vorrai.
Fabrizio. Eh, vecchio! Mi conoscete male.
Virginio. Ode una parola qui dentro.
Fabrizio. Dieci, non tanto una: ho forse paura di voi?
Virginio. Gherardo, ora che voi l’avete qui drento, ordiniamo di serrarla in camara con tua figliuola fino a tanto che si rimanda pei suoi panni.
Gherardo. Ciò che tu vuoi, Virginio. Pasquella, porta la chiave della camera da basso e chiama Isabella che venga giú.