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atto terzo | 365 |
se non per disonorarmi, per sotterarmi vivo. Oh Gherardo! Che ti par della tua sposa? parti ch’ella ci facci onore?
Gherardo. Cotesto non dich’io. Sposa, ch?
Virginio. Ribalda, scelerata! Come ti starebbe bene che costui non ti volesse piú per moglie e non trovasse piú partito! Ma ei non guardare alle tue pazzie; e ti vuol pigliare.
Gherardo. Adagio!
Virginio. Entra costi in casa, sciaurata! che fu ben mala- detto il latte che tua madre ti porse il di ch’io t’ingenerai.
Fabrizio. O buon vecchio, avete voi figliuoli, parenti o amici in questa terra a’ quali appartenga aver cura di voi?
Virginio. Guarda che risposta! Perché dici cotesto?
Fabrizio. Perché mi maraviglio che, avendo voi tanto bisogno di medico, vi lascino uscir di casa; che, in ogni altro luogo che voi fusse, vi terreben legato.
Virginio. Legata dovevo io tener te, che mi vien voglia I di scannarti! Portami un coltello.
Fabrizio. Vecchio, voi non mi conoscete bene; e ditemi villania, forse pensando ch’io sia forestiero. Ed io son cosí j ben da Modana come voi e figliuol di si buon padre e di si buona casa come voi.
Gherardo. Gli è bella, in fine. Se non c’è altro errore che quanto si vede, io la vo’ pigliare.
Virginio. E perché ti sei partita da tuo padre e dal luogo dove io t’avevo raccomandata?
Fabrizio. Me non raccom mandaste voi mai, ch’io sappia; ma il partir mi fu forza.
Virginio. Forza, ch? e chi ti sforzò?
Fabrizio. Gli spagnuoli.
Virginio. E adesso donde vieni?
Fabrizio. Di campo.
Virginio. Di campo?
Fabrizio. Di campo, si.
Gherardo. Non ne sia fatto nulla.
Virginio. Oh sventurata a te!
Fabrizio. Questo sia sopra di voi.