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atto terzo | 367 |
Virginio. Tua colpa, ribalda!
Gherardo. Eh! Lasciate queste parole. Figliuola mia e sorella mia, non si risponde cosí al padre.
Fabrizio. Lascia andare i colombi, e’ s’appaiano. Tutt’a due questi peccano d’un medesimo umore. E che bel caso! Ah! ah! ah! ah! ah!
Virginio. Ancor ridi?
Gherardo. Questo è un mal segno, a farsi beffe del padre.
Fabrizio. Che padre? che madre? Io non ebbi mai altro ^ padre che Virginio né altra madre che Giovanna. Voi mi pa- I rete una bestia. Che vi credete, forse, ch’io non abbi alcun per me?
Gherardo. Virginio, sai che dubito? che, per maninconia, non abbi a questa povera giovane dato volta il cervello.
Virginio. Trist’a me! ch’io me n’accorsi fino al principio, quando vidi che con si poca pazienzia mi venne innanzi.
Gherardo. No: questo poteva proceder da altro.
Virginio. E da che?
Gherardo. Com’una donna ha perduto l’onore, tutto ’l mondo è suo.
Virginio. Io dico che l’ha qualche pazzia nel capo.
Gherardo. Pur, si ricorda del padre e della madre; mentre I par che non ti conosca.
Virginio. Faciamola entrare in casa tua, poi che gli è qui vicina, che alla mia non la potrei far condurre senza farmi scorgere a tutta la terra.
Fabrizio. Che se consegliano quei rimbambiti, fratelli di Melchisedec?
Virginio. Facciamo in prima con le buone tanto che noi I la conduciamo dentro; poi, per forza, la serraremo in camara • con tua figliuola.
Gherardo. Che si faccia.
Virginio. Orsú, figliuola mia! Io non voglio star teco piú in colora. Ti perdono ogni cosa, pur che attendi a viver bene.
Fabrizio. Vi ringrazio.
Gherardo. Cosí fanno le buone figliuole.