Giulio Cesare/Atto primo

Atto primo

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William Shakespeare - Giulio Cesare (1599)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto primo
Interlocutori Atto secondo
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GIULIO CESARE




ATTO PRIMO




SCENA I.

Una strada di Roma.

Entrano Flavio e Marullo con buon seguito di plebe.

Flav. Via, via, alle vostre case, ignavi plebei; alle vostre case, dico. Che? forse è questo dì feriato? Avete già dimentico che gli artieri non possono scorrazzare per la città senza portare i segni della loro arte? E tu, che mi ti fai più dinanzi, qual’arte professi tu?

Pleb. Io, Tribuno, fo il legnaiuolo.

Mar. E dove hai il grembiule? perchè vesti a festa? — E tu (ad un altro) qual mestiere fai?

Pleb. In verità, Tribuno, e col debito rispetto a un degno operaio, io sono quel che voi direste un ciabattino.

Mar. Sei un ciabattino?

Pleb. Sì, e vivo col mio spago, e non mi curo di negozi, nè d’intrighi di femmine: quando veggo una scarpa in pericolo, corro colla mia arte, e la salvo; e il più superbo patrizio cammina così sull’opera delle mie mani.

Flav. Ma perchè non istai oggi nella tua bottega? perchè guidi tutti costoro a schiamazzar per le vie?

Pleb. Prima di tutto, Tribuno, onde fare sconciar loro le scarpe, e procacciarmi lavoro; poi per festeggiar questo gran dì, e celebrar Cesare nel suo trionfo.

Mar. Celebrarlo! perchè? Quali conquiste fece? di quali spoglie [p. 100 modifica]incede onusto? quai captivi tributari il seguono nel suo cammino, e decorano dell’umiliata lor fronte il superbo suo carro? popolo imbelle, più stupido dell’inerte sasso, non hai tu conosciuto Pompeo? Insani figli di Roma, quante volte non vi siete inerpicati sulle più alte muraglie per contemplar da lungi l’arrivo di Pompeo? E al sol vederlo, al primo nembo di polve che sollevava il suo carro, con quale acclamazione generosa ed universale noi salutavate? con quanta profusione d’affetto nol gridavate il forte dei forti? Ed ora...... ora indossate le vostre più splendide vestimenta, ora cospargete di fiori il sentiero all’uomo che riede a voi tutto rosso del sangue di Pompeo? Oh! fuggite, allontanatevi, tornate alle case vostre, ed ivi esorate gli Dei perchè sospendano l’inevitabile flagello che per tanta ingratitudine vi minaccia.

Flav. Andate, andate, buoni cittadini; e per espiare tal colpa ragunate tutti i poveri della vostra classe, e correte a piangere sul Tebro finchè il gran Nume si plachi (il popolo esce). Vedete come pura è ancora l’essenza della loro anima! vedete come il sentimento del loro errore gli allontana muti e sbigottiti! Scorrete or dunque fidente questa via che adduce al Campidoglio, e sfrondate quante statue troverete ornate di corone.

Mar. Ma il poss’io? Ben lo sapete che scade oggi la festa dei Lupercali.

Flav. Non attendete a ciò, e togliete ad ogni statua i trofei di Cesare (1). Percorrerò intanto i suburbi, e caccieronne quanto popolo mi si farà davanti. Queste penne nascenti, divelto all’ardita ala di Cesare, fermeranno il suo volo a modesta altezza, e gli terranno d’immergersi nell’azzurro dei cieli, lasciandone sepolti in uno spavento servile.                                    (escono)

SCENA II.


Piazza pubblica.


Musica militare, dalla quale accompagnati entrano Cesare, Antonio, Calfurnia, Porzia, Decio, Cicerone, Bruto, Cassio, Casca, poscia gran folla di popolo, e fra questo un Indovino.

Ces. Calfurnia....!

Casca. Olà, silenzio! Cesare parla.               (cessano i suoni)

Ces. Calfurnia....! [p. 101 modifica]

Calf. Mio signore!

Ces. Abbiate cura di collocarvi sul passagio d’Antonio, allorchè eseguirà il suo corso (2) — Antonio!

Ant. Cesare, mio signore!

Ces. Non dimenticarti nella tua via di toccar Calfurnia; perocchè i nostri antichi dicevano che la donna infeconda, toccata dal celebrante questo sacro corso, veniva tosto purgata dal vizio di sterilità.

Ant. Non me ne dimenticherò; così sia sempre fatto il volere di Cesare.

Ces. Va ora, nè trasandare cerimonia veruna.

(comincia di nuovo la musica)

Ind. (tra la folla) Cesare!

Ces. Ah! chi mi chiama?

Casca. Tacete tutti: cessi ogni romore.     (la musica tace)

Ces. Qual voce tra la folla sorse per chiamarmi? Intesi una voce più chiara d’ogni strumento, che gridò: Cesare! Or parla; Cesare ascolta.

Ind. Guardati dalle Idi di marzo.

Ces. Che uomo è costui?

Br. Un indovino, che t’ammonisce di star cauto alle Idi di marzo.

Ces. Guidatelomi dinanzi; ch’io il vegga in viso.

Casca. Esci dalla folla, e vieni dinanzi a Cesare.

(l’Indovino si fa innanzi)

Ces. Che mi dicesti testè? Parla di nuovo.

Ind. Guardati dalle Idi di marzo.

Ces. Egli delira. Avanti, (musica marziale, al suono della quale tutti escono, tranne Bruto e Cassio)

Cass. Andrete ad assistere al corso?

Br. Non io.

Cass. Ve ne prego, vogliateci andare.

Br. Non amo i sollazzi; non sento in me quell’umor lieve e versatile che anima Antonio... Ma non v’intrattenete per me, Cassio andate da Cesare, se vi aggrada.

Cass. Bruto, è da qualche tempo che vi esamino, e con mio dolore non trovo più ne’ vostri sguardi quell’abbandono affettuoso, quei contrassegni di tenerezza, di cui solevate essermi largo; solo una mano gelida e inanimata stendete ora all’amico, che con amore la stringe. [p. 102 modifica]

Br. Cassio, non t’illudere: se i miei sguardi ti parvero più foschi, tal mutamento riverte tutto in me solo. Da qualche tempo fieri pensieri mi si aggirano pel capo, e a ciò solo attribuisci la freddezza con che rispondo agli amici.

Cass. Ben m’ingannai, allora, o Bruto, sulla natura de’ tuoi sentimenti, e tal errore m’induce adesso in alte meditazioni. — Ma dimmi, Bruto, puoi tu vedere il tuo volto?

Br. No, perocchè non è dato all’occhio il rimirar se stesso, senza esterno oggetto che a ciò lo porti.

Cass. Ed è quello che vuol deplorarsi. Oh avessi tu un cristallo che riflettesse ne’ tuoi sguardi le tue ascose virtù, e ti rendesse sensibile la tua immagine! Sovente nei ritrovi de’ primi cittadini di Roma io udii parlare di Bruto, e Cesare era assente. Doloranti sotto il giogo che opprime questa età, quanti desideravano che il nobile e valoroso Bruto avesse occhi per contemplarsi....!

Br. A che vorresti condurmi, Cassio, dandomi blandizie di pregi che in me non allignano?

Cass. Bruto, ascoltami; e poichè non vuoi vederti senza esterno sussidio, io ritrarrò la tua immagine, e ritrarrolla senza tema o adulazione. Non concepir di me verun sospetto, virtuoso cittadino; e quando mi vedrai recitare la parte di pubblico mentecatto, o esser prodigo d’amistà a quanti mi si paran davanti, allora, allora solo diffida di Cassio.

(s’intendono da lungi ripetute grida)

Br. Che significa ciò? Intenderebbe il popolo far di Cesare un re?

Cass. Temi ciò? Credo adunque che tu per re nol vorresti.

Br. Nol vorrei, no, Cassio, nol vorrei..... e l’amo..... l’amo teneramente. — Ma a che sì lungo discorso? Qual segreto hai da confidarmi? Se tale è, che risguardar possa il ben pubblico, metti innanzi a’ miei occhi da un lato l’onore, dall’altro la morte, e riguarderò sopra entrambi indifferente; perocchè così mi siano gli Dei propizi, come vero è che più amo il nome dell’onore, ch’io non tema la morte.

Cass. Nota mi è l’illibata virtù della tua anima, come familiari mi sono i nobili lineamenti del tuo viso. Ebbene, l’onore è appunto il soggetto di cui vo’ intrattenerti. Dir non potrei quello che tu o gli altri uomini pensino della vita; ma quanto a me, meglio stimerei il non essere, che il vivere per curvarmi dinanzi ad un mio eguale. Nacqui libero come Cesare; tu libero nascesti al par di lui. L’età svegliò in noi le stesse forze, e al par di lui, entrambi sopportar sapremmo i più rigidi inverni. — In un dì di [p. 103 modifica]tempesta, in cui il Tebro mugghiante batteva le romane sponde: Osi tu, Cassio (mi disse Cesare), osi tu slanciarti con me fra quei flutti bollenti, e valicarli a nuoto sino a quel termine lontano? Diceva ancora; e, vestito com’era, io già fendeva la rapida corrente, e lo incitava colla mano a seguirmi. Cesare non s’arretrò; ed entrambi allora ci diemmo a lottare contro il torrente precipitoso, che con gorgo possente tendeva a soverchiarci. Prima che al termine fermato fossimo giunti, Cesare gridò; Soccorrimi, Cassio, ch’io manco. Io, come Enea, magnanimo nostro proavo, che alle fiamme di Troia sottraeva l’antico padre, tolsi all’onde irritate Cesare..... il tolsi il salvai ed era quel Cesare stesso che oggidì quasi nume è fatto. — E Cassio vicino a costui non sarà che una vile creatura? e dovrà Cassio peritarsi innanzi a Cesare, se Cesare passando degna chinar lo sguardo...? Ma quest’uomo io vidi negl’iberici regni anelante di febbre, e pallido del terror della morte, e con quell’occhio spento, ch’ora abbaglia l’universo. Tremava... il Nume nostro allora tremava, e con quella stessa voce che comanda ai Romani, che lo ascoltano, e depongono ogni sua parola ne’ loro annali, gridava: Oimè Titinio, soccorrimi, soccorrimi, simile affatto alla più vil donnicciuola. Oh Dei! potrà sì debile atleta restar vincitore nell’arena in cui si contende l’impero del mondo?     (nuove grida al di dentro)

Br. Novelle acclamazioni già s’odono. Oh! questi plausi annunzian certo gli onori che s’accumulano sul capo di Cesare.

Cass. E Romano, debb’egli percorrere l’universo lasciando, per tutto ceppi, o scavando sepolcri? Sonovi età, in cui gli uomini riescono arbitri de’ loro destini; e se schiavi noi siamo, la colpa è in noi soli. Bruto, Cesare. Che dunque v’ha di questo Cesare? Perchè un tal nome dovrebbe proferirsi con più solennità del vostro? Scriveteli l’un presso all’altro, e il vostro non verrà oscuro al confronto. Pronunciategli entrambi: il vostro è egualmente sonoro. Entrambi nella bilancia avranno egual peso, e i mani scongiurati da questi nomi, si mostreranno egualmente al suono di Bruto, come a quello di Cesare. Ora, in nome di tutti gli Dei, di quale sostanza si pasce codesto Cesare per esser venuto a tanta altezza? Secolo infame, in cui il seme de’ grandi inaridì! qual età più remota dovette il suo nome soltanto ad un uomo? Quando mai fu detto, parlando di Roma, che le vaste sue mure non racchiudevano che un uomo? Oh! dai nostri padri invece udimmo entrambi ripetere, che fu già un Bruto che prima avrebbe amato vedere uno spirito d’abisso intronizzato in Roma, che sopportarvi un re. [p. 104 modifica]

Br. Che tu m’ami, Cassio, io credo; e a cui riescir voglia, veggo. Quel ch’io mi pensi del secolo nostro, il secolo lo chiarirà. Per ora, se l’amistà dà dritto alla preghiera, non insister di più, ten prego. Penserò a quanto dicesti, e a miglior tempo n’avrai risposta. Intanto abbi per fermo che Bruto amerebbe meglio sudar sulla marra, che continuar figlio di Roma alle ree condizioni che ne minacciano.

Cass. Vo lieto che le mie parole abbiano fatta scaturir tale scintilla dall’anima di Bruto.      (rientra Cesare con seguito)

Br. I giuochi terminarono; già Cesare ritorna.

Cass. Quando ne passeran dappresso, accenna a Casca di fermarsi; ch’ei ne dirà coll’incolto suo stile tutto che oggi accadde.

Br. Sì, lo farò; ma mira, Cassio, come del rossor della collera avvampa la fronte di Cesare, e come sbattuto appare il suo corteggio. Le gote di Calfurnia son pallide; e Cicerone gira gli occhi arrovellati, come suole allorquando colla voce tuona dal Campidoglio.

Cass. Casca ne dirà la bisogna.

Ces. Antonio!

Ant. Cesare!

Ces. Voglio a me intorno sempre uomini ben pasciuti e giocondi, uomini purpurei in viso, e che dormano in pace le notti. Quel Cassio (accennandolo) è livido, smunto... ei pensa troppo. Tali uomini sono perigliosi.

Ant. Nol temer, Cesare; è un Romano magnanimo.

Ces. Il vorrei meno pallido; ma non perciò lo temo. Se Cesare nondimeno fosse suscettibile di timore, null’uomo avrebbe ad evitare con maggior cura di quel gracile Cassio, che molto studia, molto nota, e scruta i cuori umani traverso al velo dell’esterne azioni. Colui non prende, come te, diletto ai sollazzi, alle feste, nè mai la più soave melodia riuscì a blandire il suo orecchio. Di rado sorride; e quando ciò accade, e’ pare col suo sorriso compatire a se stesso, e sprezzare la sua ragione venuta in tanta debolezza. Uomini siffatti mai non han requie, finchè un altro maggiore ad essi sta innanzi; ed è ciò appunto che li rende pericolosi. Dicoti quello che sarebbevi a temerne, piuttostochè quello ch’io ne tema, avvegnachè io son Cesare. Vieni ora alla mia destra, ed esponimi liberamente quel che pensi di lui. (Cesare esce col suo seguito; Casca rimane)

Casca. A che m’arresti? Vuoi parlare con me?

Br. Sì, Casca; dinne quel che oggi avvenne, e perchè Cesare è sì sdegnato. [p. 105 modifica]Casca. Non eravate nel suo seguito?

Br. Se ciò fosse stato, non ti chiederei quel che avvenne.

Casca. Ebbene: gli fu offerta una corona, ch’ei da sè respinse; e allora il popolo gridò.

Br. E qual fu il motivo di quei secondi gridori?

Casca. Lo stesso di prima.

Cass. Ma tre volte fu acclamato; perchè la terza volta?

Casca. Sempre pel medesimo.

Br. Gli fu tre volte offerta la corona?

Casca. Sì, e tre volte fu da lui allontanata, sebbene ad ogni volta con minor fermezza; i miei vicini al veder ciò l’acclamavano festosi.

Cass. Chi gli offeriva la corona?

Casca. Antonio.

Br. Narrane modo, buon Casca.

Casca. Potrei meglio essere strozzato, che narrarvene il modo; fa mera pantomima, nè molto v’attesi. Vidi Antonio offrirgli una corona... nè tampoco era corona, ma dorato cerchietto..... e, come dissi, ei da se la respinse, quantunque giurerei che presa l’avrebbe volentieri. Allora quegli di nuovo gliene offre; e di nuovo n’ha rifiuto, sebbene tarde si mostrassero questa volta le dita di Cesare a staccarsi dal diadema. Alla terza la concertata scena si rinnova; e ad ognuna di queste ripulse scoppiava la voce del popolo ebbro di gioia, che delle mani applaudiva, e tripudiando esalava tal fetido sudore, che Cesare ne svenne. Assistei a tutto ciò, e mi sforzai di non ridere, temendo coll’aprir le labbra di non respirare l’aria infetta.

Cass. Oh! che di’ tu? Cesare svenne?

Casca. Cadde nella piazza colla spuma alla bocca, e senza favella.

Br. Questo non ti sorprenda. Cesare va soggetto a un male che gli toglie i sensi.

Cass. No, non è Cesare; siam noi, cui preme tale infermità.

Casca. Non so che dir vogliate con questo; ma certo sono che Cesare cadde. Se questo cencioso popolo noi plaudì e fischiò, come suole gli attori da teatro, mentre nella parte ch’ei s’avea assunta gli piacque o gli dispiacque, ch’io più non sia riputato uomo veritiero.

Br. E che fece allorchè si riebbe?

Casca. Ah! prima ancora di cadere, e quando vide quell’affoltata di plebei rallegrarsi perchè rifiutava la corona, s’è schiusa la veste, offrendo nudo il petto a’ lor colpi. Fossi stato uno di [p. 106 modifica]quegli artieri, e se preso non l’avessi al motto, vorrei discendere nell’inferno fra i pusillanimi. Allora cadde; e quando in sè rientrò disse, che se aveva detto o fatto alcuna cosa impronta, pregava la maestà del popolo a volerlo attribuire alla sua infermità. Tre o quattro donne di mal affare, che mi stavano intorno, gridarono allora: Oimè la buon’anima! e gli perdonarono con tutto il cuore. Ma chi baderà a costoro? Se Cesare avesse loro sgozzate le madri, ne avrebbero detto altrettanto.

Br. Ed è dopo ciò che si fece mesto?

Casca. Sì.

Cass. E Cicerone ha parlato?

Casca. Sì, ma solo in greco.

Cass. A qual effetto?

Casca. Ch’io più non vi rivegga, se lo so; ma coloro che l’intesero sorridevano e scrollavano la testa; per me era affatto greco. Vi dirò ora un’altra novella. Flavio e Manilio, per aver nudate delle loro spoglie le statue di Cesare, son ridotti al silenzio. Addio: vi furono ben altre commedie, che ora non ricordo.

Cass. Vuoi cenar con me stanotte, Casca?

Casca. No; n’ho debito altrove.

Cass. Pranzerai meco dimani?

Casca. Questo voglio, se mi apparecchi degno pranzo.

Cass. A dimani; ti aspetto.

Casca. Nè mancherò; addio per ora entrambi.           (esce)

Br. Come gli anni resero di fango costui! E’ fu un tempo, in cui l’essere suo spirava solo il fuoco.

Cass. E tale è tuttavia, quand’occorra eseguire magnanima impresa, malgrado la ruvida scorza in cui s’avvolge. La rozzezza che il copre, è bel contrapposto al suo spirito, e dà maggior risalto alle sue parole.

Br. Sì, tu ben lo giudichi; e credo che dimani dovremo parlare di lui. Ora, Cassio, addio.

Cass. A dimani; e intanto pensa al mondo oppresso (Bruto esce). Va, generoso Bruto; limpida è la tua anima: e nondimeno m’avveggo che la tempra del nobile tuo cuore potria farsi flessibile fra mani esperte a ciò. Ma qual uomo è infatti che sedur non si possa? Cesare m’abborre, ma tien caro Bruto; e se Bruto fossi io, ei non riescirebbe ad abbagliarmi. — Voglio questa notte stessa inviargli diversi scritti, che gli facciano aperto quanta speranza fondi Roma sul nome suo, e tutta gli svelino l’ambizione di Cesare. Dopo ciò, pensi questo a ben francarsi sul seggio, perchè nel gitteremo, o n’avrà in suo potere, ma solo cadaveri. (esce) [p. 107 modifica]

SCENA III.

Una strada.

Tuoni e lampi. Entrano da opposte parti Casca colla spada sguainata, e Cicerone.

Cic. Salve, Casca. Riconducesti Cesare alla sua dimora...? Ma perchè così pavido in viso? perchè sì alitante?

Casca. Non tremi tu quando tutta la massa della terra vacilla come cosa inferma? Cicerone, ho veduto tempeste, in cui i venti mugghianti sradicavano come arbusti le antiche quercie; ed ho veduto l’Oceano ambizioso gonfiarsi, e tutto spumante di rabbia avventarsi colle bianche sue cime fra le nubi minaccievoli; ma non mai, non mai prima di quest’ora mi trovai sbattuto da un uragano che si stempra in sì fiera pioggia di fuoco: convien credere o che la guerra arda nel cielo, o che il mondo troppo empio sforzi la collera dei Numi ad annientarlo.

Cic. Ma che di sì strano vedesti?

Casca. Uno schiavo, che tu conosci, alzò la sinistra mano in aria, e tosto quella mano corruscò e splendè come venti torcie unite, senza che nocumento alcuno a lui ne venisse. Poscia, nè da quell’istante più rimisi nella vagina l’acciaro, dinanzi al Campidoglio mi si offerse un leone con gli occhi sfavillanti e la chioma irta, che mi guatò con fierezza e passò oltre, mentre cento gruppi d’uomini spaventati, e mille donne che il terrore avea trasmutate in istatue, giuravano aver veduti fantasimi di fiamma scorrere la città, accompagnati dal tristo metro dell’uccello della notte. Allorchè tali prodigi avvengono, non osino gli uomini volerne scrutar le cause; che sarebbe inutile ardimento, non presagendo essi che sventure al paese in cui si mostrano.

Cic. In verità, tal nembo sembra predire funesti avvenimenti; ma gli uomini interpretano sempre la natura a tenore delle loro idee, che ben di sovente colla natura ripugnano. Verrà dimani Cesare al Campidoglio?

Casca. Verrà; e Antonio debbe di ciò farvi conscio.

Cic. Addio, Casca; questo cielo tempestoso m’induce a ritirarmi.

Casca. Cicerone, addio.      (Cicerone esce, ed entra Cassio)

Cass. Chi è là?

Casca. Un Romano.

Cass. Casca, non m’inganno.

Casca. T’apponi; ma qual notte, Cassio! [p. 108 modifica]

Cass. Notte voluttuosa, inebbriante per l’anime bennate.

Casca. Chi mai avrebbe immaginato cielo sì minaccioso?

Cass. Tutti coloro che la terra videro piena di delitti. Per me, spaziai per le vie consacrando il mio capo a questa notte infernale; e il seno scoperto, quale ora tu il vedi, presentai nudo ai fulmini che solcavano fiammanti le dense tenebre del creato.

Casca. Ma perchè tentar così i cieli? È proprio dell’uomo il tremare allorchè gli onnipossenti Dei, per farne certi di loro esistenza, ne mandano questi formidabili araldi ad empierne di meraviglia.

Cass. L’anima tua poltrisce, Casca, e tu non ricevesti quella scintilla di vita che animar deve un Romano; o, ricevutala, la sprezzasti come inutile accatto. Tu impallidisci e tremi, e colpito rimani alla vista di questo Cielo tempestoso; nè curi scrutar la cagione per cui tanti fuochi, tanti spettri, tanti fenomeni divini e umani ne assalgono? Se pur pensassi, ben vedresti come gli Dei sian quelli che con tali apparizioni ci ammoniscono di un prossimo e grande mutamento. E già, Casca, potrei indicarti un uomo che, simile a questa spaventosa notte, fulmina, tuona, schiude sepolcri, e rugge come il leone che dianzi vedevasi sul Campidoglio.

Casca. Di Cesare intendi; m’appresso io al vero, Cassio?

Cass. Oh! i Romani dell’età nostra hanno braccia vigorose e forti quanto quelle degli avi antichi; ma, fatale sventura! l’anime dei padri son morte, e solo c’informa lo spirito delle nostre genitrici. Il giogo che ci opprime, la pazienza con che il portiamo, ben provano esser noi fatti peggio che femmine.

Casca. E in vero credesi che i Senatori si propongano d’eleggere dimani Cesare re; porterà questi, dicesi, il suo imperio sulla terra e sui mari, per tutto infine, fuorchè in Italia.

Cass. Allora so dove piantar questo ferro per redimermi di schiavitù, o incontrar morte (additando il pugnale). È con questo, o sommi Dei, che voi rendete il debole forte d’una forza invincibile; è con questo, o Onnipossenti, che ne fate atti ad abbattere i tiranni. Nè le torri di macigno, nè le mura di bronzo, nè le carceri deserte d’aura, nè i ceppi massicci di ferro possono spegnere la libertà dell’anima. L’anima, dacchè imbrigliato è il corpo dalle catene di questo mondo, può sempre sciorre il volo a più liete regioni. Ciò so; e con ciò, sia noto all’universo che in me sta sempre di rompere il giogo che porto fremendo.

Casca. E in me pure e in ogni schiavo sta potenza di venire [p. 109 modifica]

Cassio. E perchè allora sarà Cesare un tiranno? Miserabile mortale! io ben so ch’ei non si fe’ lupo se non perchè vide i Romani un gregge; nè da lione ruggirebbe, se tanti timidi daini in Roma non fossero. Ma, o dolore, ove mi porti? Forse parlai fin qui ad uomo che si piace di schiavitù... Se tal è, mi converrà rispondere... o un’arma invece mi toglierà ai pericoli.

Casca. Parlasti a Casca, non ad un vil delatore. Eccoti la mano; vi t’appoggia; ardisci, innoltra impavido per vendicar la patria; e Casca ti seguirà, e porrà sempre il piede sull’orma che andrà più lungi.

Cassio. Fermato è il patto; patto di vita, o di morte! Sappi ora, che già invogliai alquanti de’ più nobili figli di Roma a tentar meco un’impresa piena di pericoli e d’onore, che a concertar con essi andrò fra poco sotto l’arco di Pompeo. Gli elementi sconvolti gemono sotto crise violenta, e il loro aspetto renderà debita imagine dell’opera tremenda che ci avanza da compiere.

(entra Cinna)

Casca. Taci... qualcuno innoltra a celeri passi.

Cassio. È Cinna; è un amico. — Cinna, ove corri?

Cinna. A voi... Ma chi è là? Metello...?

Cassio. No, è Casca, ed è dei nostri.

Cinna. Casca con noi? Ne vo lieto, festoso.

Cassio. Dimmi, Cinna. sono io atteso?

Cinna. Sì; ed a ciò venni. Oh! se indur potessi Bruto nelle parti nostre...

Cassio. Di questo non ti caglia, che fia mio pensiero. Prendi ora questi fogli, e li disponi in guisa, che spontanei cadano in potestà di Bruto. Ciò fatto, vieni ai portici di Pompeo, ove ci troverai, ed ove già credo che Decio e Trebonio m’abbiano preceduto.

Cinna. Tutti son là raccolti, tranne Cimbro, che uscì per te. Addio, Cassio; vado a compiere quanto m’imponesti.

Cassio. E riedi poscia a me (Cinna esce). Partiamo, Casca; poichè prima che spunti il dì dobbiamo veder Bruto. Già per metà l’animo di questi è vinto; un ultimo sforzo, e a noi si arrende interamente.

Casca. Oh! Bruto è adorato dal popolo; e quel che in noi parrà colpa, la potenza del suo nome volgerà in nobile azione.

Cassio. Al vero t’attieni, e retta idea hai dell’uomo che ci bisogna. Andiamo dunque, che passata è la metà della notte, e prima dell’alba dobbiamo assicurarci di lui.           (escono)

Note

  1. Erano i trofei delle sue vittorie, da lui consacrati ai Numi, e posti sui loro altari. Warburton.
  2. Cerimonia osservata nelle feste lupercali a Roma che scadevano il dì 15 marzo (Vedi Tacito).