La Matta

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Una recita cinematografica Una figliuola
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La Matta.


Accompagnavo un amico al cimitero, dove andava a portare un mazzo di fiori alla tomba della sua fidanzata morta un anno prima.

Tornando indietro, tenendolo a braccetto, quando fummo vicini alla grande cancellata dell’uscita, mi venne fatto di leggere su una delle tante pietre il nome di una donna: Anna Franchi. Sentii un leggero brivido di freddo; e non so perchè desiderai di sapere chi era stata. Ma c’era soltanto la data della nascita e della morte: nient’altro.

Allora, siccome il becchino ci passava accanto con la pala sulla spalla, mi rivolsi a lui. Mi guardò, meravigliato della mia curiosità; e mi rispose, appoggiando a terra la pala:

— Anche quella l’ho seppellita io!

E si mise a ridere. Allora io dissi, tanto per farlo parlare: [p. 113 modifica]

— Credo di averla conosciuta.

— Certo. Ma non pensavo che la conoscesse anche di nome. Non so se lo sa: la chiamavano tutti la Matta....

Perchè egli non s’avvedesse che gli avevo fatto una domanda senza scopo, stavo per muovermi, tanto più che il mio amico mi tirava per il braccio; ma il becchino proseguì:

— E, forse, era matta da vero. Ma disgraziata. Lei l’avrà vista per le strade di Siena con il barroccio a vender la frutta.

Ora avevo capito davvero, come non mi aspettavo; e lo ringraziai.

A Siena, infatti, la conoscevano tutti, e la rammentai al mio amico, che mi chiese:

— Ma che t’importa di lei?

Io non seppi quel che rispondergli; e, dopo pochi passi più, mi misi volentieri a parlare d’altro.

La prima volta che vidi la Matta, finivo di salire Via delle Terme, verso la Lizza. Ella invece andava in giù. Per reggere meglio il carretto, appuntellava i piedi e si buttava all’indietro tenendo le stanghe con le braccia [p. 114 modifica] tese. Le era caduto dietro il collo il fazzoletto e aveva i capelli, già grigi, arraffati. Si capiva che per lei era un grande sforzo. Ma due ragazzi, fingendo di rincorrersi, uno le dette uno spintone e un altro le fece uscir di mano le stanghe.

Il carretto si fermò in fondo alla scesa, di traverso, ad una porta. Le frutta, già cadute, seguitarono a rimbalzare sino alla fine dell’altra scesa di Via delle Belle Arti.

Anche la Matta era caduta, ma si rialzò con un grido che non finiva mai. Pareva che gridasse anche con gli occhi spalancati. Poi si mise a piangere, ma così forte che tutti si affacciarono alle finestre. Da una cànova di vino escirono cinque o sei facchini con i bicchieri in mano.

Io guardavo le persone che s’erano fermate.

Tutti ridevano: un facchino, incitato da quelle risa, le avventò addosso il vino che gli era rimasto in fondo al bicchiere; e da tutte le parti le gridavano:

— Matta! Matta! Come farai a ritrovare la tua merce? È meglio che tu la lasci mangiare a chi è più svelto di te. [p. 115 modifica]

Ognuno diceva qualche cosa, che facesse ridere sempre di più. Allora la donna, come se non ci fosse stato nessuno, si sedè su lo scalone del botteghino del Lotto; seguitando a piangere e tirandosi a manciate i capelli.

Un uomo, che voleva escire, la fece alzare; e un altro le disse, quasi rimproverandola:

— Togliete il barroccio di lì, che dà noia. Perchè state a piangere? non vedete che tutti ridono?

Qualcuno si mise a fischiarla; alcuni ragazzi raccattarono le frutta che si erano meno ammaccate e insudiciate, e si misero a mangiarle proprio dinanzi a lei. Allora ella fece un altro urlo e si scagliò contro il più vicino. Ma non riescì ad agguantarlo. I ragazzi fuggirono.

La Matta allora cominciò a borbottare; ma non riescivo a capire quel che diceva. Di quando in quando andando dov’era il carretto, si fermava, si metteva le mani al viso e alzava la testa su in aria: forse pensava a Dio.

Durò fatica a riprendere il carretto che con una ruota si era incastrato fra l’uscio e il muro; poi radunò i cestini vuoti e cominciò a raccogliere quel che le era rimasto. Puliva le [p. 116 modifica] frutta alla sottana sopra il ginocchio; o vi soffiava sopra, sdrusciandole poi sotto il gomito.

Fece l’altra scesa; e, quand’ebbe, alla meglio, rimesso i cestini al posto, si sedè su lo scalone di una chiesa, sfinita, con la testa su le ginocchia.

La sua faccia era un groviglio di vene e di rughe; e degli occhi si vedeva quasi soltanto il bianco. Ma aveva il viso rosso e non piangeva più. Io stavo distante, e pure la sentivo affannare.

Quando si fu riposata, riprese il carretto e andò per altre strade.

Questa donna era stata, da giovane, quasi ricca; aveva avuto in dote due poderi. Ma, mortole il marito per un calcio preso da un bove, si trovò dopo pochi anni nella più umile miseria. Sarebbe stata quasi bella se non avesse avuto il naso piccolo e a becco di civetta, e un taglio dritto sul labbro di sopra. Aveva il mento che faceva vedere la forma dell’osso, ma la faccia rotondetta; e gli orecchi piccoli. Quando spingeva il carretto, teneva con i denti il labbro di sotto; e, allora, la pelle del mento si [p. 117 modifica]stirava ancora di più. Era sciancata e teneva la testa tesa in avanti e rialzata: il collo le era restato piegato a quel modo.

Per vivere, s’era messa a vendere le frutta; e, alla fine, non la riconosceva più nessuno e non le parlavano nemmeno le donne che dalla finestra la chiamavano perchè aspettasse che scendessero a comprare la sua roba.

Ella del resto capiva che faceva meglio a non parlare, e si rifiutava di attaccare qualunque discorso.

— Quanto costano i pomodori?

— Quattro soldi il chilo.

— Troppo.

— Tre soldi.

E già prendeva le stanghe in mano.

— Allora, datemene due soldi.

Ella rilasciava le stanghe, staccava contenta la stadera da un gancio sotto il carretto, e pesava in silenzio. Se le facevano cambiarie la roba dalla stadera, ella cominciava a borbottare. Ma non di rado volevano approfittarsene, e allora la Matta li allontanava con le mani e spingeva il carretto anche se ci si attaccavano per farla stare ferma. [p. 118 modifica]

Poi, fatti pochi passi, ricominciava a gridare senza mai alzare la testa:

— Bell’uva! Belle pesche!

Era capace di girare tutta la città, sempre lesta, mandando il carretto un poco di traverso, facendolo urtare contro le ruote di qualche carrozza.

Era difficile che io non la vedessi molestare o che nessuno non la guardasse ridendo. Se ne accorgeva? Forse, sì. Ma nel suo povero cervello chi sa quali sensazioni passavano. Qualche volta se ne doleva da sola, a voce alta, senza nemmeno fermarsi; anzi, andando più lesta per fuggire.

— Canaglia! Mascalzoni! Io non vi dò noia! Bell’uva! Belle pesche!

La voce si strozzava; e, invece di poter finire la parola, le veniva un nodo di tosse.

Un’ortolana, che era stata sua amica, le portava tutte le mattine la roba da vendere; quella scartata dagli altri e la peggiore.

La Franchi abitava in una delle strade più sporche di Siena: aveva una stanza sola, più bassa due scalini del lastricato. Là, da una parte, metteva il carretto; e, in un cantuccio, [p. 119 modifica] dormiva lei. In un altro cantuccio c’era un vecchio fornello di ferro, messo su quattro mattoni. Ma ella non poteva accenderlo; perchè il fumo uscendo andava nella strada su per le finestre; e allora le gridavano parolacce da tutti i piani. Ella spegneva subito il fuoco, e si contentava di mangiare il pane.

Poi, cavava il carretto, e qualche ragazzo che per caso si trovava lì, l’aiutava; ma ella non osava ringraziarlo, per paura che poi cominciasse a molestarla. Piuttosto gli regalava, senza dirgli niente, qualche cosa dei suoi cestini. Correva attorno, per chiudere la porta; poi si metteva la chiave in tasca, legandosela con uno spago per non perderla; e, fino alla sera, non tornava. Mangiava soltanto quando non ne poteva più dalla fame e dalla stanchezza, sedendosi su gli scalini delle chiese; tenendo sempre d’occhio il carretto. Per solito comprava il pane la mattina, che le bastasse tutto il giorno, dal fornaio di faccia alla sua stanza; e lo teneva tra cestino e cestino, perchè non si divertissero a portarglielo via. Per companatico mangiava le frutta andate a male, di quelle che non riesciva a vendere. Andava a bere un bicchiere di [p. 120 modifica] vino quando aveva finito di mangiare. Ma nessun vinaio la trattava bene, perchè gli avventori dicevano che era troppo sudicia e aveva male in bocca. Allora la servivano con i bicchieri rotti perchè non tornasse più, e non la facevano nè meno entrare entro la bottega. Ho visto io respingerla fuori, a gomitate.

Il fornaio, quando vedeva che il carretto era pronto, le faceva trovare il pane già tagliato. Ella metteva un piede su lo scalino e con l’altro restava nella strada. Allungava il braccio, e il fornaio le dava il pane; ma non voleva prendere i soldi in mano. La Matta glieli metteva, tutt’un mucchietto, in proda al marmo del banco; e, quando se ne era andata, egli diceva guardandoli e storcendo la bocca:

— Chi ha il coraggio di toccarli?

Poi rideva, e li buttava lesto dentro il cassetto aperto con l’altra mano.

La Matta era anche piena di pidocchi: mi ricordo che si grattava sempre.

A sessant’anni, le venne un cancro nella lingua. Allora la portarono all’ospedale. E la sua agonia durò due settimane. Aveva smesso affatto di parlare, e il medico doveva far conto di [p. 121 modifica] curare una povera bestia qualunque. Per due settimane non si mosse più da come la mettevano. Dovevano tenerla supina, e le rimboccavano le coperte fino agli orecchi.

La sua faccia era doventata orribile, e non si capiva dove fossero sparite le sue pupille. Dal suo letto veniva un odore nauseabondo, che molestava gli altri malati.

Ella non si lamentava mai: soltanto respirava eguale se dormisse o fosse desta. Che era morta se ne accorsero il giorno dopo; perchè ormai non si sentiva nè meno più respirare.

Gli altri malati, quando la portarono via, dissero alla suora:

— Oh, ora, s’è avuto un sollievo!

A venti anni, Anna Franchi era stata sposa.