Giacinta/Parte prima/III
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III.
Quella figliuola venendo al mondo, non avea fatto gran piacere alla sua mamma. Infatti essa n’era presto sbarazzata, dandola a balia in campagna e andando a vederla il meno possibile.
Nella rare visite, anticipatamente annunziate, la signora Marulli trovava la bambina lavata, pettinata, ravviata di tutto punto, con la biancheria di bucato; e le bastava. La toglieva in braccio, la baciucchiava, le faceva un po’ il solletico sui labbrini e sul mento per vederla ridere; poi la rendeva alla balia o la metteva in culla ella stessa.
La Marulli arrivava lassù sempre accompagnata ora da uno, ora da un altro signore che chiamava cugino.
— Muta cugino quasi ogni anno! — diceva la balia, sorniona, a quell’altro sornione di suo marito.
Dopo la corta visita, la signora Marulli e il cugino si perdevano pei campi, fra gli alberi, fra le macchie, e tornavano alla cascina sul tardi. Allora ella dava in fretta un paio di baci freddi alla bambina, montava in carrozza col cugino, e nemmeno affacciavasi allo sportello partendo.
Anche quando arrivava lassù col marito, il cugino non mancava mai per la passeggiata pei campi. Il signor Marulli rimaneva alla cascina, a cullar la bimba, a dondolarsela fra le braccia, attaccando discorso col marito della balia, raccontandogli tutte le faccende di casa sua:
— Gran donna quella sua moglie! Aveva energìa per cento. Lui si mescolava poco nelle cose di casa. Quando aveva consegnata alla moglie l’intiera mesata dello stipendio d’impiegato alla Prefettura, si sentiva sgravato da un peso. Pur che gli rimanesse qualche soldo in tasca pei sigari, pel tabacco da pipa e per la partita di tressette al caffè, a lui come lui non gli occorreva altro. — Tiravano innanzi, col provento dell’impiego e con alcune rendite dotali della moglie pagate esattamente da un parente di lei che stava a Parigi o viaggiava pel mondo: non lo conoscevano neppur di vista. — Basta. L’abilità di quella donna moltiplicava i quattrini. Pel loro stato, non c’era male. Destavano invidia.
Il contadino stava a sentirlo, zitto, pensando che forse il cugino aiutava la signora a sbarcare il lunario:
— E il marito chiude un occhio, com’usa in città.
Dopo che certi braconi sventarono la storiella dei cugini, questa parola rimase.
Allora la signora Marulli, fresca, bella, di un’aria capricciosa, contava appena ventotto anni, ed era sposa da due. Aveva aspettato un po’ troppo il marito da lei fantasticato — che doveva sposarla pei suoi begli occhi, come le diceva la nonna — e il signor Paolo era stato accettato in mancanza di meglio.
— Però se n’era compensata — malignava la gente.
Sembrava una donna seria, tranquilla, assennata, dignitosa, senz’affettazione, sinceramente cordiale, una vera signora.
— Ma bisognava — secondo il cavalier Mochi — praticarla un po’ da vicino per scoprire tutte le basse avidità che bollivano sordamente in quell’organismo. Tant’anni di fredda giovinezza l’avevano depravata. E non aveva, in quel che faceva, neppur la scusa dei sensi!
La maternità fu per lei un peso insopportabile, un impiccio odioso. La piccola Giacinta rimase quasi dimenticata in campagna. Quando la sua mamma si rammentava di andare a vederla una o due volte l’anno, la bimba — dinanzi a quella persona quasi sconosciuta, vestita così diversamente dalla balia, con quel cappellino, e quelle piume, e quei nastri — si tirava indietro a testa bassa, imbroncita, guardandola sottecchi, succhiandosi il ditino; e faceva spallucce a ogni parola della mamma, della sua mammina vera, come le diceva la balia.
— Le vuoi bene alla tua mammina?
— È un’orsacchiotta, addirittura.
La signora Marulli stentava a capacitarsi che quell’orsacchiotta fosse sua figlia.
Dopo che dovette ritirarsela in casa, la trottolina di cinque anni, che le si raggirava tutto il giorno fra i piedi e spesso strillava per cose da nulla, le faceva perdere subito la pazienza:
— Ah!... Aveva le bizze?
E afferratala duramente per un braccino, la chiudeva in una stanzetta.
— Lì; impara a strillare e a rotolarti per terra!
Nemmeno Camilla, la serva di casa, voleva vedersela attorno, specialmente in cucina. Però con lei la bimba si rivoltava; le diceva: — Sciancata!
E un giorno, ricevuto dalla Camilla uno spintone sgarbato, le avventò la parolaccia del marito della balia, quando questi sgridava la moglie.
Camilla l’avrebbe pestata sotto i piedi. E non gliela perdonò mai.
Il signor Paolo, tra le ore che passava all’ufficio e tra quelle al caffè, vedeva poco la figliolina.
Poi, alle figliole dovevan badare le mamme. Se fosse stato un bambino, allora sì, sarebbe toccato a lui!
E la piccina, che non si sentiva voluta bene da nessuno, andava spesso a cacciarsi in una stanza fuori mano; e in quella specie di ripostiglio — fra arnesi smessi, fra cornici guaste, fra cappelli vecchi del babbo, ciabatte, bottiglie vuote, seggiole che non si reggevano in piedi e scatole sfasciate, ripiene di cartacce e di volumi squadernati — trovava facilmente modo di fare il chiasso per lunghe ore della giornata, senza che la sua mamma si desse pensiero di lei.
La signora Marulli aveva già il capo a rimettere in bell’assetto la casa, ingrandita coll’affitto del quartierino allato e del giardino che le facevano gola da due anni.
— Voleva, finalmente, godersi un briciolo di agiatezza! L’aumento dello stipendio del marito, certe piccole economie di lei... Già, siamo tre mosche in famiglia! — conchiudeva.
Non metteva nel conto la Camilla, ora addetta soltanto alla cucina; nè la Marietta, la nuova servotta pratica di stirare e pettinare; nè Beppe, il servitorino, un ragazzo di quattordici anni con un testone di capellacci neri e un collo da toro...
— Che mangiava per quattro e non aveva mai nulla da fare! — brontolava il signor Paolo di nascosto dalla moglie.
E se lo vedeva gingillarsi in giardino a rastiar la terra col rastrello, a stuzzicare l’oca e le anitre che nuotavano nella vaschetta, a montar su per gli alberi in cerca di nidi, si sfogava contro di lui:
— Perchè non ripuliva i viali? Perchè non annaffiava i fiori e le piante? Fannullone!
Beppe gli si piantava dinanzi, alla militare, con un’aria di canzonatura, borbottando fra i denti:
— Sbraita, cornuto!
E trovava sempre qualche scusa:
— La bambina aveva voluto fare il chiasso fino allora. Era andato qua... Era andato là... La signora lo mandava attorno come il vento.
E spesso era vero.
La bambina, allestiti in fretta i compiti delle lezioni che veniva a darle a casa una vecchia maestra, passava il resto della giornata insieme con lui, giocando alla palla pel viale di acacie, o a rimpiattarello nella galleria mezza buia, dalla volta e dalle pareti incrostate di sassi spugnosi e di finte stalattiti; o nel chiosco dal cupolino a graticola, coperto di piante rampichine che ciondolavano in viticci carichi di campanule bianche. Lì Beppe le raccontava le fiabe o i suoi casi di quand’era bambino; ed essa stava ad ascoltarlo a bocca aperta.
Quel Beppe aveva fatto cento mestieri: il ragazzo di falegname, il mozzo di stalla, il merciaiuolo ambulante; aveva servito in un’osteria di campagna dove i vetturali, mentre le bestie mangiavano la biada, si divertivano a ubbriacarlo, a insegnarli canzonacce e bestemmie che quel figliaccio d’una cagna, come lo chiamavano, imparava subito a mente. Quanta gente, quanti paesi aveva egli visto! E quante cose sapeva!
— E che malizia, quello scimmione! — diceva Camilla.
Spesso infatti, nascosto con la bimba in fondo al chiosco, se la faceva sedere sulle ginocchia e le domandava:
— Che intrugliano la mamma e il signor Parati, quando non c’è il babbo e vanno in camera?
— Uh! — rispondeva la bambina, senza comprendere.
— Dovresti origliare; dovresti guardare dal buco della serratura.
— Perchè?
— Per vedere, per sentire. Ma ve’, non dir nulla alla Camilla, nè alla Marietta, nè alla mamma! Se no, addio chiasso! Vo via.
Questa minaccia atterriva la bimba; e il giorno dopo, per ingraziarselo, ella scendeva in giardino colla taschina del grembiule ricolma.
— Indovina che ci ho qui.
Beppe faceva il grullo.
— Indovina.
Beppe le accennava di avvicinarsi, le scostava le manine sovrapposte alla tasca e ne cavava fuori una manciata di confetti.
— Che diavolo erano?
Fingeva di non saperlo e se li metteva tutti in bocca e cominciava a masticarli, facendo dei versacci: puh! puh! quasi volesse sputarli via; ma li inghiottiva tutt’a un tratto, sbarrando tanto di occhi, mentre la bambina a quelle mossacce rideva, saltava, batteva le mani.
Se invece gli portava una pasta, Beppe la prendeva cautamente con due sole dita, e la guardava di traverso:
— Eh! Non se ne fidava!
E voltatala e rivoltatala da tutti i lati:
— Che! Che! Di queste porcherie non ne mangio — aggiungeva, buttandola in aria, a grande altezza.
E intanto che la pasta veniva giù, le si piantava sotto, con le gambe larghe, con la bocca aperta e le braccia dietro la schiena, per abboccarla; e non falliva il colpo neppure una volta.
— Perchè mi guardi a cotesto modo? — gli domandò la bimba una mattina.
Beppe era sorpreso di vederla grande, sviluppata, quasi una donnina; come se la vedesse allora per la prima volta, con quel vestitino corto, con quel grembiule bianco, ricamato negli orli, che le copriva anche il seno, con quelle gambine diritte, tornite, dove le calze fin sopra il ginocchio non facevano una grinza.
— Cribbio!
E le aprì incontro le braccia, invitandola con lo sguardo.
La bambina slanciossi a corsa; e Beppe, presala ai fianchi, la sollevò in alto e se la mise in collo.
— Larà! Laràlliero! Zun! Zun!
La portava attorno, trionfalmente; e, dopo la suonata, imitava con le labbra i rulli del tamburo, battendole il tempo con le dita sui polpacci delle gambine.
Giacinta, passatogli un braccio dietro il collo, gli suonava intanto, col pugno dell’altra mano, la grancassa sulle spalle.
— Via! Via!
E ad aizzarlo, gli ficcava un ditino fra collo e camicia, sotto la nuca, appena Beppe arrestavasi per spingerla in su tra le braccia.
Così, fatto due o tre volte il giro dei viali, erano entrati nella galleria; e giunto dove questa faceva gomito e arrivavano appena i barlumi delle due bocche, Beppe si era buttato per terra con lei, su un mucchio di fronde e di erbe ripostovi il giorno innanzi. Giacinta tentò di scappare. Egli la trattenne pel braccio:
— Vieni qui! sta’ ferma!
L’accarezzava, le passava la mano tra i capelli, la baciava forte, con le labbra calde calde.
— Sta’ ferma! — ripeteva, con una specie di rantolo.
— Che hai?... Lasciami andare!
— Baciami anche te! — insisteva Beppe, tenendola più stretta.
Sentendosi quasi soffocare dal caldo insoffribile:
— Lasciami... Mi fai morire! — gridò ripetutamente, smaniando.
Beppe aperse le braccia.
— Brutto!
E, datogli sulla guancia col rovescio della manina, scappò pel giardino.
— Cucurucù, Cucurucù!
Saltellava allegramente sull’entrata della galleria battendo le mani: cucurucù! mentre Beppe avanzasi carponi, col fare lento di un gatto che stia per slanciarsi sul topolino. Ma lei, via, di corsa. Allora la inseguì rotolandosi pel viale, grugnendo, miagolando, abbaiando. La bambina, fermavasi un istante per lasciarlo accostare, e prendeva la rincorsa...
— Oh, bravo! Oh, bravo!
Beppe, poggiate le palme sul terreno e levate in alto le gambe per una bella capriola, si era rialzato lestamente, a piedi giunti, con le braccia in croce e una smorfiaccia sul viso.
Da quel momento non l’aveva lasciata più in pace, minacciandola:
— Se non voleva far il chiasso a quel modo!...
Talchè la bambina, impaurita, ora lo invitava, prevenendolo; attratta anche da un inconsapevole compiacimento di cosa vietata, dopo che gli sentiva ripetere:
— Zitta!... Per la Madonna! O non più chiasso, nè nulla!
Ma un giorno Camilla, spolmonatasi invano a chiamar: Beppe! Beppe! dalla finestra di cucina, discese, arrancando con la gamba storta, in giardino:
— Dove s’era ficcato quell’animale?
Beppe e la bambina uscivano in quel punto dalla galleria, e la bambina piangeva e si asciugava gli occhi col grembiule.
— Finiscila! — brontolò Beppe, scuotendola brutalmente pel braccio.
La bambina, vista la Camilla, diede in un nuovo scoppio di pianto.
— Che cosa è stato?
— Nulla! — rispose Beppe, con le ciglia aggrottate, coi pugni stretti.
Camilla asciugava il viso alla bambina, tempestandola di domande:
— Che cosa è stato?... Smetti di piangere!... Non si capisce niente... Che ti ha fatto quel forca?
— Non dir... nulla... alla maamma! — balbettava la bambina, tra i singhiozzi... — Non dir... nulla... alla maa...mma!
— Sì, sì, non le dirò nulla!...
— Mi ha fatto male... qui...
— Ah! maiale! — urlò Camilla, sputando dietro a Beppe che fuggiva.
— Non dir nulla... alla mamma! — ripeteva la bambina, strascicata per le scale come un fagotto, riluttante.
— La mamma!... La mamma!... Accidenti! — digrignava Camilla.