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Il signor Paolo, tra le ore che passava all’ufficio e tra quelle al caffè, vedeva poco la figliolina.
Poi, alle figliole dovevan badare le mamme. Se fosse stato un bambino, allora sì, sarebbe toccato a lui!
E la piccina, che non si sentiva voluta bene da nessuno, andava spesso a cacciarsi in una stanza fuori mano; e in quella specie di ripostiglio — fra arnesi smessi, fra cornici guaste, fra cappelli vecchi del babbo, ciabatte, bottiglie vuote, seggiole che non si reggevano in piedi e scatole sfasciate, ripiene di cartacce e di volumi squadernati — trovava facilmente modo di fare il chiasso per lunghe ore della giornata, senza che la sua mamma si desse pensiero di lei.
La signora Marulli aveva già il capo a rimettere in bell’assetto la casa, ingrandita coll’affitto del quartierino allato e del giardino che le facevano gola da due anni.
— Voleva, finalmente, godersi un briciolo di agiatezza! L’aumento dello stipendio del marito, certe piccole economie di lei... Già, siamo tre mosche in famiglia! — conchiudeva.
Non metteva nel conto la Camilla, ora addetta soltanto alla cucina; nè la Marietta, la nuova servotta pratica di stirare e pettinare; nè Beppe, il servitorino, un ragazzo di quattordici anni con un testone di capellacci neri e un collo da toro...
— Che mangiava per quattro e non aveva mai nulla da fare! — brontolava il signor Paolo di nascosto dalla moglie.
E se lo vedeva gingillarsi in giardino a rastiar la terra col rastrello, a stuzzicare l’oca e le anitre che nuotavano nella vaschetta, a montar su per gli alberi in cerca di nidi, si sfogava contro di lui: