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braccia dietro la schiena, per abboccarla; e non falliva il colpo neppure una volta.
— Perchè mi guardi a cotesto modo? — gli domandò la bimba una mattina.
Beppe era sorpreso di vederla grande, sviluppata, quasi una donnina; come se la vedesse allora per la prima volta, con quel vestitino corto, con quel grembiule bianco, ricamato negli orli, che le copriva anche il seno, con quelle gambine diritte, tornite, dove le calze fin sopra il ginocchio non facevano una grinza.
— Cribbio!
E le aprì incontro le braccia, invitandola con lo sguardo.
La bambina slanciossi a corsa; e Beppe, presala ai fianchi, la sollevò in alto e se la mise in collo.
— Larà! Laràlliero! Zun! Zun!
La portava attorno, trionfalmente; e, dopo la suonata, imitava con le labbra i rulli del tamburo, battendole il tempo con le dita sui polpacci delle gambine.
Giacinta, passatogli un braccio dietro il collo, gli suonava intanto, col pugno dell’altra mano, la grancassa sulle spalle.
— Via! Via!
E ad aizzarlo, gli ficcava un ditino fra collo e camicia, sotto la nuca, appena Beppe arrestavasi per spingerla in su tra le braccia.
Così, fatto due o tre volte il giro dei viali, erano entrati nella galleria; e giunto dove questa faceva gomito e arrivavano appena i barlumi delle due bocche, Beppe si era buttato per terra con lei, su un mucchio di fronde e di erbe ripostovi il giorno innanzi. Giacinta tentò di scappare. Egli la trattenne pel braccio: