Gemme d'arti italiane - Anno I/Orsanmichele in Firenze

Giambattista Bazzoni

Orsanmichele in Firenze ../Il saluto al mattino ../La Madonna col Bambino IncludiIntestazione 2 agosto 2018 25% Da definire

Il saluto al mattino La Madonna col Bambino

[p. 140 modifica]INTERNO DELLA CHIESA D'OR SAN MICHELE A FIRENZE [p. 141 modifica]

ORSANMICHELE A FIRENZE

di

Luigi Bisi

per commissione della Contessa Giulia Samoyloff

Firenze la bella, la città del Fiore, è, fra tutte, la città veramente italiana; ell’è più italiana di Roma, che solo spetta alla storia antica, più di Napoli che è greca, più di Genova, ch’è iberica, più di Milano, ch’è gallica, più di Venezia, ch’è orientale. Firenze serba e serbò mai sempre lo spirito della vetusta Etruria, madre d’ogni coltura in remotissime e [p. 142 modifica]tà; di quell’Etruria che, eclissata, o meglio celata per secoli dallo splendore del latino impero, risorse poi nella sua pristina sede, all’uscire dalle tenebre dell’evo medio, con un aspetto, se dal primo totalmente diverso, segnato però da quella squisita e fina impronta, che gli fu propria nei lontani tempi, e che riapparendo in nuova forma, costituì il tipo italico, ch’è il vero atticismo de’ tre famosi secoli dopo il ducento.

E facendo rivivere col pensiero que’ che di tal tempo popolavano la toscana cerchia cittadina, artisti, poeti, reggitori, armigeri, giovani corteggiatori, donne amorose, viene alla mente alcun che di poetico, di gentile, di dignitoso, di valente, una eleganza, una ricchezza di forme, una arguta perspicacia, una penetrazione profonda, tutto ciò insomma che dir ponno alla calda fantasia, i nomi, così della Fiammetta del Bocaccio, come della Benci del Ghirlandajo, così del Ferruccio, come di Macchiavello, di Michelangelo, del Cellini, e più di ogni altro di colui, che quivi nacque in umile casetta, Dante Allighieri.

E sii tu lombardo, ligure, di Romagna, o di Calabria, visitando quella città, maestra a noi comune di favella, sentirai, più che nella tua patria stessa, risuonarti all’anima un’eco armoniosa delle età smarrite. Eccoti i suoi palagi, i suoi templi, le vie, le piazze, le cui sole appellazioni sono vive scene di storia. Eccoti l’Arno famoso. Questo è il ponte di Santa Trinita. Dal bel mezzo di esso, se guardi contro la correntìa del fiume, ti sta in faccia Ponte Vecchio, ch’è tutto una fila di case, aperta nel mezzo dal vano di tre archi, al di là de’ quali l’occhio scorge la linea dolcissima de’ colli, che sono quelli stessi su cui dalla destra, appare San [p. 143 modifica]Miniato al Monte, co’ cipressi e la torre, segnata dai cannoni dell’Orange, quando spiravano le franchigie di Firenze. Or volgi l’occhio a sinistra, e sopra le case vedi grandeggiare alta, severa, orlata di merli, la torre di Palazzo Vecchio vigorosa memoria di passate generazioni, ed altre torri e loggie di storici palazzi, tra cui a capo al ponte, ti sta quel de’ Feroni, che poterono i tempi mutare in placida ed agiata dimora, ma non togliergli quello, datogli da Arnolfo, fiero aspetto di castello, eretto a foggia d’un gran dado di ferrigne pietre. Se poi rimanendo sul ponte stesso di Santa Trinita, ti rivolgi della persona, e guardi a seconda dell’acqua, eccoti di prospetto altro ponte, quello alla Carraja. A manca di esso tondeggia aerea la cupola di Santo Spirito, e si disegnano all’orizzonte più fuggenti le colline, la curva de’ quali piegandosi lontana, pare accenni al pian discosto della marina. E que’ colli, nella cui ampia corona siede la graziosa città, vedi amorevolmente pendenti, toccantisi con belle, estese e sinuose

linee, e scorgi dominare in essi il verde pallido dell’ulivo, tra cui spiccano le tante ville, non abbaglianti per bianchezza come avviene al mezzodì d’Italia, ma nette all’occhio co’ giardini loro e i cipressi bruni allato. Di quelle ville, tante ne sostengono i colli ver Pistoja, che t’assumono aspetto d’una nevicata.

Il ponte di Santa Trinita, posto com’è di mezzo cavalcando l’Arno, fra ponte Vecchio e il ponte alla Carraja, quando Appenino versa linfe abbondanti, sembra dividere il fiume in due gran vasche, cui fanno sponda i celebrati lungarni. Quivi è la parte vitale, l’anima della fiorita città, quivi si specchia più ridente il poetico cielo d’Italia; e quivi versarono la loro limpida luce tanti [p. 144 modifica]rosei mattini, e quivi morirono riflessi tanti dorati crepuscoli, facendo battere più amorosi o dolenti chi sa mai quanti cuori pieni d’italica passione!

Oh Firenze, Firenze la vaga e la gentile! chi t’ha ammirata e sentita vivamente nell’anima, come vola a te giojoso al vibrare d’ogni tocco, che ti presenti all’immaginoso pensiero! E tutto a te mi chiamava la magica tela che mi fece biancheggiare dinanzi, dentro l’oscure pareti d’un tuo bel tempio, la marmorea creazione del sommo Orgagna, che con tanta ispirazione d’arte quando l’arte era santa, faceva dire al marmo santi concetti. Ho avanti agli occhi, vero nella sua armoniosa maestà, il grande tabernacolo dal possente Artefice eretto1 per accogliere l’immagine miracolosa della Vergine, ch’era dipinta da prima sull’uno de’ pilastri dell’antico portico a San Michele in Orto, aperto a pubblico granajo, il quale, per onoranza di quella sacra effigie, si tramutò (opera consueta della Fede) in una delle chiese della ricca Firenze, ammiranda per istupendi lavori di valorosi maestri, che nell’interna parte e per tutto all’esterno vi fanno adornamento. E la maggiore e più sontuosa opera, per cui va celebre quel religioso edifizio, è questo tabernacolo d’Andrea Orgagna, che sotto la sua volta, quasi altro tempio, s’erge portentoso, tutto fiorito d’ornati, di figure, scolpite sì intere che a basso rilievo, e sparso di preziose pietre a colori, postevi con sapiente lavoro a tarsia, riccamente profuse; ed è cinto poi intorno intorno da bella grata [p. 145 modifica]di bronzo, che va frammezzatta da angioletti sovra piedestalli a colonna.

Dire quanto pregio d’arte vi sia in quegli intagli, quanta verità e soavità d’espressione nelle figure, non si può con parole; d’uopo è recarvisi e contemplare. E vi prenderà maraviglia nello scorgere ch’uno fra i molti de’ bassi rilievi del tabernacolo, quello rappresentante lo Sposalizio di Maria, venne riprodotto, con simiglianza affatto ligia di linee e di movenze, dalla giovinetta mano di Raffaello, nella tavola che di lui possediamo2, lo che bastar deve a rendere convinti dell’alto pregio di quel monumento.

Luigi Bisi è quegli che ritrasse sulla tela, nelle sue sincere forme, il tabernacolo dell’Orgagna dentro le quadrate mura d’Orsanmichele3. E giustamente veniva affidato il difficile incarico al pennello di questo nostro, che, sì fresco d’anni, è già eminente nel genere di dipintura che chiamasi prospettico, assai diverso dal teatrale, e in cui lasciò tanta fama di sé l’altro nostro concittadino, or fa pochi anni perduto, Giovanni Migliara. Ed è genere di pittura che consiste precipuamente nel rappresentare, togliendogli dal vero, gli interni di edifici monumentali, sian templi, chiostri, regie, o palagi; lo che fu poco in uso per lo addietro presso i pittori in Italia, sendo più proprio de’ Fiamminghi, tra cui tanti salirono a gloria unicamente per avere seguito nel dipingere il genere che accenniamo.

Il giovine nostro pittore, quantunque nato di qua dall’Alpi, non fu mai sedotto dal vago azzurreggiare delle tinte di questo cielo, dal morbido aleggiare delle [p. 146 modifica]nubi, dall’aspetto de’fioriti campi, o dal soleggiare vigoroso per le vie e le piazze angolari. Egli ama raccogliersi sotto le imponenti vôlte delle vaste cattedrali, pei cori silenziosi, per le lunghe navate, in faccia ai muti monumenti. Quivi egli penetra il mistero delle spaziose oscurità, fatte più solenni e imponenti dalla luce, o adombrata dai mille colori delle arcuate finestre, o scendente con obbliquo raggio listando il vano. Poi piena l’anima del religioso sentimento, innalza sulla tela, col magistero delle tinte, il grande edifizio, erge le colonne in fuga, gira la volta, sprofonda l’abside oscura, illumina i profili, fa posar sulle basi le statue ed i sarcofagi, ti crea innanzi insomma l’opera dei secoli nella sua maestà veneranda.

Ed è gran ventura per lui lo abitare questa città nostra ove sorge, originale maraviglioso, e modello ad esso inesauribile, il Duomo, di cui egli ha scrutati coll’occhio tutti i penetrali, visitati tutti gli angoli secreti, tutti i vani sonori delle sommità profonde, seguìto l’andamento di tutte le cornici, conosciuto il vaneggiare di tutte le nicchie, contemplato il pregare, il meditare, il patire di tutti i santi, di tutti i martiri che popolano la gotica cattedrale. Per ciò fu dato di sua mano ammirare riprodotti tanti aspetti di quel gigantesco monumento; e fra tutti rammenteremo quello, in più ampie dimensioni da esso eseguito nell’anno 1840; che fu acquisto di S. M.

l’Imperatore e Re FERDINANDO I, il quale lo volle ad arricchire la sontuosa galleria del palazzo di Belvedere in Vienna4. [p. 147 modifica]

Uscendo poi da tal patrio soggetto, diremo che il lavoro del Bisi che giovò mirabilmente ad elevarlo a considerevole grado di estimazione, fu altresì il quadro rappresentante il Coro della chiesa di Brou a Bourg en Bresse, nel quale si ammira il grandioso monumento di Filiberto il Bello Duca di Savoja, e di Margherita d’Austria, monumento per cui va sì rinomato quel tempio, essendo l’una delle più vantate opere di scultura del principio del secolo decimosesto, a cui sudarono più anni intorno, i famosi maestri, Giulio Vambelli, Onofrio Campitoglio e lo svizzero Corrado Megt. Il Bisi riprodusse con vero miracolo d’arte il liscio eburneo del marmo di che tutto componesi il sepolcrale edificio, alle cui statue, a cui ornati, condotti di sorprendente maniera,

fe’ girare l’aria intorno, così che tu giudichi, mirando il quadro, non potere veder meglio chi vede il vero; e ciò appunto sclamava ciascuno contemplando quel dipinto nelle ricche sale della nobile casa Litta, che lo possiede, quando non ha guari, facevansi liberamente aperte agli ammiratori.

Non chiuderemo questi cenni intorno al Luigi Bisi nostro, senza notare altresì ch’egli spetta ad una di quelle privilegiate famiglie, che s’hanno il vanto singolarissimo d’essere tutte una propagine di artisti. E infatti Tomaso Bisi, che da Genova, d’onde deriva la sua casata, prese dimora in questa città, fu frescante di buon nome. Egli poi s’ebbe a figliuoli, Giuseppe e Michele; il primo professore, paesista di grido, il secondo valente incisore, quegli al cui bulino sono dovute, tra l’altre ben note stampe, [p. 148 modifica]la Madonna col Sant’Antonio di Bernardino Luino, l’Amore e Venere d’Andrea Appiani, e dal quale sta per essere condotta a termine la tavola in rame, rappresentante Una Madonna di Guido, cui pose tutto quell’amore quella diligenza di lavoro, che valer debbono a farla degno riscontro alla sì celebre Madonna di Raffaello, intagliata dal Müller. Questi è il Bisi, genitore al Pittor nostro prospettico, siccome Giuseppe vanta a figliuole l’Antonietta e la Fulvia, l’una per opere di figura, l’altra per quelle di paese, già esperimentate artiste, i cui lavori tengono lodevolissimo posto nelle nostre pubbliche mostre annuali.

Così per l’incremento del sapere pittorico, dovizia ed onore della patria, possano scendere, sempre, più meritate corone, su quel fiorente cespite, in cui è gloria l’amore dell’arte, e nobiltà l’ingegno d’elevarla ad invidiata meta!

G. B. Bazzoni

  1. L’anno 1347.
  2. Alla Pinacoteca di Brera.
  3. Il quadro ha la dimensione d’oncie 14 per 47.
  4. Fu pure di Luigi Bisi l’originale che, tolto col daguerrotipo e riprodotto all’acqua tinta, fornì la stampa dell’interno del Duomo, la quale orna i volumi di Milano e il suo territorio, presentati dal Municipio agli Scienziati italiani dei sesto congresso. Il quadro veniva da lui dipinto per commissione di S. A. il Duca di Leuchtenberg.