Galateo ovvero de' costumi/XXIX
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Cap. XXIX. D’alcune particolari sconvenevolezze, che si potrebbero usare a tavola. Presa occasione si dicono alcune cose contra l’intemperanza nel bere.
159. Non istà bene grattarsi, sedendo a tavola; e vuolsi in quel tempo guardar l’uomo, più che e’ può, di sputare; e se pure si fa, facciasi per acconcio modo. Io ho più volte udito, che si sono trovate delle nazioni così sobrie, che non isputavano giammai: ben possiamo noi tenercene per breve spazio.
160. Dobbiamo eziandio guardarci di prendere il cibo si ingordamente, che perciò si generi singhiozzo, o altro spiacevole atto; come fa chi s’affretta sì, che convenga che egli ansi, e soffi con noia di tutta la brigata.
161. Non istà medesimamente bene a fregarsi i denti con la tovagliuola, e meno col dito, chè sono atti difformi. Nè risciacquarsi la bocca, e sputare il vino, sta bene in palese. Nè in levandosi da tavola, portar lo stecco in bocca, a guisa d’uccello che faccia suo nido, o sopra l’orecchia, come barbiere, è gentil costume.
162. E chi porta legato al collo lo stuzzicadenti, erra senza fallo: chè, oltra che quello è uno strano arnese a veder trar di seno ad un gentiluomo, e ci fa sovvenire di questi cavadenti che noi veggiamo salir su per le panche; egli mostra anco, che altri sia molto apparecchiato e provveduto per li servigi della gola; e non so io ben dire perchè questi cotali non portino altresì il cucchiaio legato al collo.
163. Non si conviene anco l’abbandonarsi sopra la mensa. Nè lo empiersi di vivanda amendue i lati della bocca sì che le guance ne gonfino. E non si vuol fare atto alcuno, per lo quale altri mostri, che gli sia grandemente piaciuta la vivanda o il vino, chè sono costumi da tavernieri e da cinciglioni.
164. Invitare coloro che sono a tavola, e dire - Voi non mangiate stamane; o voi non avete cosa che vi piaccia; o, assaggiate di questo o di quest’altro; - non mi pare lodevol costume, tuttochè il più delle persone lo abbia per famigliare e per domestico: perchè quantunque, ciò facendo, mostrino che loro caglia di colui cui essi invitano; sono, eziandio molte volte cagione, che quegli desini con poca libertà, perciocchè gli pare che gli sia posto mente; e vergognasi.
165. Il presentare alcuna cosa del piattello che si ha dinanzi nou credo che stia bene; se non fosse molto maggior di grado colui che presenta, sicchè il presentato ne riceva onore; perciocchè tra gli uguali di condizione pare che colui che dona, si faccia in un certo modo maggiore dell’altro; e talora quello che altri dona, non piace a colui a chi è donato; senzachè, mostra che il convito non sia abbendevole d’intromessi, o non sia ben divisato quando all’uno avanza e all’altro manca, e potrebbe il signor della casa prenderlosi ad onta; nondimeno in ciò si dee fare come si fa, e non come è bene di fare; e vuolsi piuttosto errarc con gli altri in questi sì fatti costumi, che far bene solo. Ma che che in ciò si convenga, non dei tu rifiutar quello che ti è porto; che pare che tu sprezzi o che tu riprenda colui che ti porge.
166. Lo invitare a bere, la quale usanza, siccome non nostra, noi nominiamo con vocabolo forestiero, cioè far brindisi, è verso di sè biasimevole; e nelle nostre contrade non è ancora venuta in uso, sicchè egli non si dee fare. E se altri inviterà te, potrai agevolmente non accettar lo invito; e dire, che tu ti arrendi per vinto; ringraziandolo, o pure assaggiando il vino per cortesia, senza altramente bere.
167. E quantunque questo brindisi, secondo che io ho sentito affermare a più letterati uomini, sia antica usanza stata nelle parti di Grecia; comechè essi lodino molto un buon uomo di quel tempo, che ebbe nome Socrate, perciocchè egli durò a bere tutta una notte, quanto la fu lunga, a gara con un altro buono uomo, che si faceva chiamare Aristofane; è la mattina vegnente in su l’alba fece una sottil misura per geometria, che nulla errò; sicchè ben mostrava che ’l vino non gli avea fatto noia; e tuttochè affermino oltre a ciò che così come l’arrischiarsi spesse volte nei pericoli della morte fa l’uomo franco e sicuro, così lo avvezzarsi a’ pericoli della scostumatezza, rende altrui temperato e costumato; e perciocchè il bere del vino a quel modo, per gara abbondevolmente e soverchio, è gran battaglia alle forze del bevitore; vogliono che ciò si faccia per una cotal pruova della nostra fermezza, e per avvezzarci a resistere alle forti tentazioni e a vincerle: ciò non ostante a me pare il contrario, e istimo che le loro ragioni sieno assai frivole.
168. E troviamo, che gli uomini letterati per pompa di loro parlare fanno bene spesso che il torto vince, e che la ragion perde. Sicchè non diamo lor fede in questo; e anco potrebbe essere, che eglino in ciò volessero scusare, e ricoprire il peccato della loro terra, corrotta di questo vizio; conciossiachè il riprenderla parea forse pericoloso; e temeano nou per avventura avvenisse loro quello che era avvenuto al medesimo Socrate per lo suo soverchio andare biasimando ciascuno; perciocchè per invidia gli furono apposti molti articoli di eresia e altri villani peccati; onde fu condannato nella persona, comechè falsamente; chè di vero fu buono e cattolico, secondo la loro falsa idolatria: ma certo perchè egli beesse cotanto vino quella notte, nessuna lode meritò; perciocchè più ne arebbe bevuto, o tenuto un tino. E se niuna noia non gli fece, ciò fu piuttosto virtù di robusto celabro, che continenza di costumato uomo.
169. E che che si dicano le antiche cronache sopra ciò, io ringrazio Dio, che con molte altre pestilenze che ci sono venute d’oltra monti, non è fino a qui pervenuta a noi questa pessima, di prender non solamente in giuoco, ma eziandio in pregio lo inebriarsi. Nè crederò io mai, che la temperanza si debba apprendere da sì fatto maestro, quale è il vino e l’ebrezza.
170. Il siniscalco da sè non dee invitare i forestieri, nè ritenergli a mangiare col suo signore. E niuno avveduto uomo sarà, che si ponga a tavola, per suo invito: ma sono alle volte i famigliari sì prosontuosi, che quello che tocca al padrone vogliono fare pure essi. Le quali cose sono dette da noi in questo luogo più per incidenza che perchè l’ordine, che noi pigliammo da principio, lo richiegga.