Galatea (Barrili)/XII
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XII.
Violino di spalla.
16 agosto 18...
Che due giornatacce! Sono stato di pessimo umore, e n’ho avuto le mie buone ragioni. Io, già, son fatto così; non amo i mezzi termini, nè le mezze misure. O la pace stabilita, o la guerra dichiarata. Mi seccano le tregue, e più mi turbano le vigilie, con le loro aspettazioni, coi loro sospetti, colle loro incertezze tra il sì ed il no. Star sempre in armi è una condizione sciocca, alla quale non mi saprei adattare, perchè temerei sempre di far troppo o troppo poco, e sopra tutto di perdere la pazienza prima del tempo, come sarebbe il caso qui per l’appunto. Perchè io non li temo, i miei tre fastidiosi personaggi, e temo piuttosto che mi vogliano stancare, ridersi di me, per trovar poi qualche gretola e scapparmi via, dopo avermi ben molestato; li voglio al punto buono, per andar subito a fondo. Hanno certe arie, davanti a me, da cavare i ceffoni dalle mani di un santo. La pazienza non è il mio forte, e mi duole che non ne siano persuasi. A buon conto, una ne ho fatta, che li ha costretti a meditare. Quando c’incontriamo, senza che ci siano signore di mezzo, non ci salutiamo neanche. Ho incominciato io; questa voglia me la sono levata, rizzando la testa e facendo sporgere un pochettino il labbro inferiore, come un arciduca di casa d’Austria. Tanto meglio per loro, se facendo così li avrò liberati d’una noia; certo mi son liberato io d’un’altra maggiore. Ma se credono che io voglia fermarmi qui, la sbagliano di grosso.
Sono io innamorato della contessa? No davvero. Incapriccito? Neanche. Anzi, diciamo tutto, se alle prime poteva darmi negli occhi, perchè la bellezza è sempre la bellezza, ora non me ne faccio più nè di qua nè di là, perchè quella bellezza mi si è mostrata falsa. Nell’anima, s’intende. L’hanno anche i bottoni, e volere o no si riverbera sempre all’esterno. Che bisogno c’era di darsi ventisei anni? Ne ha trentadue per lo meno. E di che si lagna? Si può esser belle a trentasei, a quaranta, e piacere anche più in là. Finalmente, si ha l’età che si dimostra. Io non mi vergogno dei miei trentacinque; se ne avessi, colla faccia d’oggi, quaranta e cinquanta, che male ci sarebbe, per oggi? Levarsi gli anni è una debolezza che non ammetto neanche nelle donne; anzi nelle donne meno che negli uomini. Esse, in fin dei conti, hanno l’invidiabile privilegio di non sentirsi domandare in società la fede di nascita. Perchè darla falsa a chi non ha domandata la vera?
Questo è stato un punto nero per lei. Resta bella, ma non mi è più simpatica come prima. Del resto, più mi osservo e mi studio, più riconosco di non essere stato un solo momento ingannato dalle sue belle moine. Aggiungiamo che per me quella donna ha la bellezza troppo vistosa, del genere a cui tutti s’inchinano, essendo ella formata di quegli elementi che piacciono al maggior numero. Veste troppo bene, tanto che vi rifà il figurino a capello. Che cosa significa ciò, se non questo, che il suo personale si adatta a tutte le mode, non istonando con nessuno dei loro artifizi? La testa è bellissima per la eleganza dei lineamenti; ma non è forse troppo piccina, tanto ella va con tutte le fogge di pettinatura? Non è nel complesso un po’ bambola? Quella bocca... le rendo giustizia, e faccio il saluto militare. Ma quegli occhi lunghi, sotto quelle palpebre tagliate a mandorla, son proprio naturali? Apparirebbero tanto luminosi, fosforescenti, senza il sapiente contrapposto del bistro? Non sarà così, ma pare che sia, e sa di commedia. Proprio come una regina di commedia, la contessa ha bisogno, dovunque ella sia, di aver tutti a’ suoi piedi; non è contenta, fin che ce n’è uno che non accetti il suo giogo. Ero io quel tale, in Corsenna; si è rivolta a me, come si sarebbe rivolta ad un altro, al commendator Matteini, per esempio, prendendo ipoteca anche su lui.
Vedo queste cose, e ci sto; senza far molto, solo per dar noia a quei tre, ma ci sto. Non mi prendo l’incarico di accompagnarla a casa, come fanno loro; ma dove mi trovo con lei, cerco d’invadere, aiutandomi lei con una grazia che dev’essere crudele per chi ne soffre. Soffrono essi poi tanto? Animali da esperienze, son forse meno sensibili al dolore. Non si adattano già a portar la croce in tre? Comunque sia, devo essere un bruscolo nell’occhio per tutti e tre; me ne persuado al muso che fanno.
Non intendo Galatea, che è sempre e più che mai pane e cacio colla contessa. Quando è presente Adriana, la signorina Wilson non rifugge neanche dal ritrovarsi con me; pare anzi che ci prenda gusto a farmi parlare, rimanendo in nostra compagnia. Quando non c’è Adriana, non mi sfugge, ma non mi cerca neanche, e se è lontana ci resta volentieri, amando meglio di prendere ipoteca sul commendator Matteini. A vederlo, allora, il più conservato dei conservatori, come fa la ruota! Credo che non parli più nemmeno di Bologna, “città dell’anima„. Che gusto ci trova, la signorina Kathleen? Ma già, capisco che quella gran diavola fa per chiasso, sempre bisognosa di moto, di varietà, d’aria, di luce, sempre aperta l’anima e il cuore, sempre fuori del guscio, come l’argonauta, toute en dehors, direbbero i francesi. È più intima, più raccolta, più seria, quando è con Terenzio Spazzòli, col quale ieri ha confabulato a lungo. Hanno un altro segreto insieme, ed io ho potuto scoprirlo, da certi discorsi che hanno tenuto colla sindachessa e colla segretaria comunale. Parlavano dell’Asilo infantile e dei suoi bisogni pecuniarii; domandavano se ci fosse una sala abbastanza vasta in paese, quella dell’Asilo non parendo abbastanza capace di una numerosa assemblea. Si tratta d’imbastire un concerto a pagamento, un concerto vocale e strumentale, il gran da fare di tutte le stazioni, di tutte le colonie e di tutte le stazioni estive. Mi è giunto perfino all’orecchio l’accenno d’un prologo in versi, che qualche signorina potrebbe recitare. Hanno già sotto la mano il poeta? Forse; non è vivo e sano Enrico Dal Ciotto? Ma vorrei proprio vedere che la signorina Kathleen si rivolgesse a lui. Questa, poi, me l’avrei per male; sempre che i martelliani dovesse recitarli lei. Se si tratterà delle Berti, sia pur chi si vuole il poeta. Ma la musica? qui ti voglio; non c’è neanche un concertino di trombe, in Corsenna; per avere un pianoforte e un “maestro al cembalo„ bisognerebbe mandare a Dusiana. Basta, vedremo.
Frattanto, siamo giunti a quest’oggi. Filippo mi ha telegrafato ieri che si metteva in viaggio; arriverà oggi al tocco. Eccellente amico! Capiterà con la sua bell’aria marziale di paladino antico. Non è un letterato, che Dio lo benedica; è un uom di fatti, tagliato alla brava in un buon tronco di querce, diritto come una spada e netto come il filo d’un rasoio. In che modo siamo andati d’accordo noi due? Per le nostre dissonanze, direbbe un osservatore superficiale; e non è vero. Se all’aspetto non ci rassomigliamo punto punto, credo che abbiamo comune qualche intrinseca qualità, e che questa ci unisca. Egli è più rigido, in apparenza, più riguardoso nelle sue maniere, più abbottonato; ma è poi altrettanto sincero. Abbiamo il nostro guscio tutt’e due; ma io, meno savio, son troppo spesso e volentieri fuori del guscio. Altra differenza; io faccio spropositi da cavallo, sempre nell’idea di andar per le spicce, mentre egli è sempre ponderato e di buon consiglio; eppure non ne dà mai di debolezza nè di pace. Vecchio schermidore da terreno, suol dire che la migliore di tutte le parate è l’andare a fondo.
Curioso cavaliere, che per gloria sua avrebbe dovuto nascere otto secoli fa! Ricorderò sempre quella volta che andò per conto mio, con un altro degno collega, a chiedere una spiegazione. Trovò l’avversario, brav’uomo e d’ingegno, che aveva avuta la colpa o il merito di darmi una solenne stroncatura per certi miei versi, e gli parlò in questa forma:
— Perdoni l’incomodo, che sarà breve. Siamo i tali dei tali; veniamo in nome del signor Rinaldo Morelli, nostro amico, a chiederle in cortesia tre cose: il luogo, l’arma e l’ora. —
Filippo Ferri è fatto così; tutto d’un pezzo. Sta sulla sua come un Artabano; ma nessuna sua parola offende. Pochi uomini sono cortesi quanto lui, nessuno più di lui; ma suol parare andando a fondo. Ha dolce il sorriso e fiero lo sguardo; solo a vederlo per istrada bisogna dire: ecco un uomo.
Al tocco ero alla stazione della strada ferrata, distante un’ora da questo dolce paese. Il treno è arrivato ansimando, come per farmi capire che non era colpa sua se giungeva con quaranta minuti di ritardo. La testa di Filippo appariva da un finestrino, e gli occhi suoi mi balenarono un sorriso che ancora non trapelava dal doppio festoncino dei baffi. Corsi ad aprirgli lo sportello; si calò giù, e mi si avventò al collo come un padre. Ma dopo avermi baciato e ribaciato, si tirò indietro con aria di rimprovero, aria paterna anche questa, per dirmi:
— Ah cane! Così mi hai ingannato?
— Io! — esclamai. — In che modo?
— Dicendomi che non c’era l’inglesina, perbacco.
— E non c’è, difatti, non c’è.
— Come, non c’è? Non mi hai tu incominciata la tua lettera in inglese? Ancora un paragrafo di quegli starnuti, e mi toccava di pigliare un interpetre. Sai bene che d’inglese io non ne mastico, e di tedesco nemmeno. —
Lo so benissimo. Tra le originalità di Filippo Ferri c’è questa, di non volersi dedicare a nessuno studio di prossima e diretta utilità. Per capriccio ha imparato l’ebraico; per prolungamento di capriccio ha imparato l’arabo e il copto.
— Sai che l’inglese è la mia passione; — gli dissi.
— E le inglesine no?
— No, ti giuro; e quando ti avrò raccontato ogni cosa, vedrai che si tratta di ben altro. Ora non è il momento.
— Nè il luogo; — soggiunse Filippo. — Lasciami dar la valigia a qualcheduno.
— C’è qui Pilade, il mio servitore. Hai bagaglio?
— Sì, e che bagaglio! un cassone.
— Consegna il polizzino a Pilade; sarà ritirato e caricato nella vettura... se pure una vettura basterà. Altrimenti prenderemo un carro.
— Basterà, che diamine! Ma ci sarà il dazio; vorranno visitare, e così si scopriranno gli altarini.
— No, non dubitare. È comune aperto, qui; per conseguenza, il tuo cassone arriverà chiuso nell’alma Corsenna.
— Di’ pure il tuo, perchè io l’ho portato per te; — mi rispose Filippo, mentre uscivamo dalla stazione. — C’è un vero arsenale. Dieci fioretti coi bottoni, e una coppia di spade; dieci sciabole non affilate, e quattro col filo; ti bastano?
— Ce n’è d’avanzo. Ma son tutte armi bianche?
— Non mancano le nere: quattro Flobert, quattro Lepage, con le rispettive munizioni nella valigia; va bene?
— Ottimamente; ci sono così tutti i ferri necessarii.
— Senza contar me.
— Ah, tu sei il re dei Ferri; — gridai, montando in carrozza.
Il bagaglio fu caricato a cassetta, sotto ai piedi del cocchiere e del servitore, che si aggiustarono come poterono; e i cavalli presero il trotto. Io ero raggiante di gioia; non avevo più niente da desiderare, se non forse di giunger presto a casa, per poter raccontare minutamente a Filippo tutto ciò ch’era necessario di fargli sapere. Egli non domandò nulla, per quanto fu lungo il tragitto. Di solito non domanda mai nulla. La sua massima è questa: Si ha da partire? Si parte; dal piè sinistro, uno, due; è la cosa più facile di questo mondo, e non so come i coscritti ci sudino tanto.
La strada è piacevole, alberata e fresca, lungo la riva del fiume, e il tragitto si fa senza molestia. Per me il paese è senza carattere; ma a Filippo non dispiace, forse perchè egli non ha l’uso di andar mai in campagna, e lo spettacolo gli riesce nuovo, con tutto quello sfoggio di verde. Sono contento che gli faccia buon effetto la valle di Corsenna. Quando incomodiamo un amico, siamo sempre felici ch’egli non si trovi male nel luogo dove l’abbiamo tirato contro sua voglia, o contro le sue consuetudini.
— Non credevo che queste montagne fossero così belle; — diceva egli, guardandosi intorno. — Sta a vedere che m’innamoro dei boschi, e faccio un idilio ancor io!
— Non dipenderà che da te; c’è tutto l’occorrente.
— Per iscriverlo?
— Ed anche per iscriverlo; ma io non credevo che tu intendessi di dir questo.
— Castagni! — disse Filippo, girando largo. — Castagni da per tutto. E lassù, quel nero sui monti?
— Abeti, mio caro, abeti e pini. Corsenna è famosa per il suo pinus Pinsapo.
— Ah! i miei complimenti. E niente peachpine?
— Non credo. Ma che ti salta di parlare inglese?
— Non ne far caso; non so che questo vocabolo. Ma capisco che bisognerà impararne degli altri.
— Che idee! Se ti ho detto che non c’è niente di vero, nelle tue supposizioni!
— E sia; — rispose Filippo. — Può esser bene come tu dici. Non vedo infatti la via polverosa.
— Oh, per questo, non ci ho merito; è piovuto stanotte.
— Ed è una gentilezza che mi usa questa poetica valle; — replicò Filippo, ridendo. — Io non amo il polverio, ed è questa una delle cagioni che mi fanno odiar la campagna. Le altre sono le mosche, i mosconi, le zanzare ed altri animali noiosi che ci s’incontrano. Non è anche la tua opinione?
— Per gli altri animali, sicuramente. Ma ora che c’è l’arsenale, li metteremo a dovere.
— Quando penso, — disse Filippo, mutando registro e mettendo un sospiro tanto fatto, — quando penso a tutte le scioccherie che l’uomo ha commesse, per volersi credere un animale socievole, mi viene la stizza. Era nato per vivere a coppie, ed ha voluto vivere a branchi, far tribù, città, popoli, reami ed imperi. Che cosa ci ha guadagnato?
L’ira in casa e la guerra permanente ai confini, o uno stato d’animi che non aiuta certamente a far buone digestioni, nè in casa nè fuori di casa.
— Sei diventato filosofo? Mi congratulo.
— Ma sì, che vuoi? Come tutti i guerrieri, per romper la noia d’un’ora di marcia.
— Non dubitare; siamo quasi alla fine del nostro viaggio. Eccoti l’alma Corsenna, che s’affaccia alla svolta. Vedi quel torrione là in fondo? È una colombaia di casa colonica. Quell’edifizio lungo e nero, che pare un castello o un convento? È una filanda, che non lavora più da molti anni. Il baco non ha voluto attecchire in Corsenna; e il villaggio, che s’incamminava a diventare un borgo, è rimasto villaggio.
— Vedo delle casine, per altro; dei villini sparsi qua e là.
— Certo; e sono l’unica bellezza del paese. Un po’ di bianco nel verde, un po’ d’acqua corrente da fianco e da piedi, e la gente assetata di fresco ci corre ogni estate a rifugio. Vedi quella palazzina lassù? Pare a mezza costa, di qui; ma per effetto di prospettiva. È veramente sul colmo d’un poggio. Si chiama il Roccolo, ed è il rifugio di una bella signora che tu sai, perchè me l’hai nominata in una tua lettera.
— Per sentita dire; — rispose Filippo. — Di persona non l’ho conosciuta mai. Il Roccolo! — soggiunse egli. — Che nome! E la signora è forse Diana cacciatrice? Scherzo, sai; non posso ignorare che si chiama Armida.
— Ma che Armida! vorrai dire Adriana!
— Diciamo pure Adriana; quanto a me, vorrei proprio dire Armida... e Rinaldo. Infatti, mi passa per la mente che non essendoci di mezzo nessuna inglesina, quest’altra....
— Ti dirò, ti dirò; — interruppi io; — appena saremo a casa.
— Ed anche più tardi, bada; io non ho bisogno di saper nulla. Parlavo così, per chiasso, e per non mostrarci troppo accigliati, quasi imbronciati, ai naturali del paese. Ma eccone tre, che non dovrebbero essere indigeni. Tre bei moscardini, in fede mia! —
Diedi una sbirciata ancor io, e vidi poco più su dai cavalli, in atto di tirarsi da banda, i miei tre famosi satelliti; li vidi in tempo per rizzar muso quanto ce ne voleva al loro bisogno.
— Quei tre vanno al Roccolo; — dissi a Filippo; — perciò li vedi in istrada a quest’ora. Son pronipoti dei Proci dell’Odissea. Ulisse è alle acque di San Pellegrino, ed essi non lasciano un’ora di pace a Penelope. Tu intanto non potevi esser più felice di così, Filippo mio caro; sei giunto appena, non hai ancora veduta la prima casa di Corsenna, e ti vien sotto la tribù dei seccatori, per cui ti ho pregato di venirmi a dare man forte. Vedili là, che passano il ponte.
— Ed è quello che non vorrebbero lasciar passare a te, non è vero?
— Se stèsse a loro, certamente. Ma non han barba da impedirmelo.
— Vorrà essere ad ogni modo un bel passo d’armi; — conchiuse Filippo. — Intanto, è di buon augurio per me averli veduti alla prima. —
L’abitato di Corsenna fu presto traversato dalla nostra vettura, e senza altri incontri di persone della colonia villeggiante. Bene si affacciavano alle finestre, ai terrazzini, agli sporti delle botteghe i Corsennati dei due sessi, per conoscere il nuovo venuto, fare i conti sulle sue valigie, e Dio sa quali supposizioni sul cassone ond’era accompagnato. Gran gioia la loro, al veder sempre tante facce nuove, che si scomodano dal piano per salire ai loro quattrocento sessanta metri sul livello del mare! “Ci vengono per l’aria buona„, dice il campanaro di Corsenna. “E non son mica ignoranti, i medici che ce li mandano. Vedete noi, di fatti, che arie di salute!„ A farlo a posta, il campanaro di Corsenna è nero, magro, stecchito come un’aringa affumicata. Ma chi si contenta gode. E il campanaro di Corsenna è un uomo che si contenta. “Mai peggio di così!„ è il suo intercalare.
Son felicissimo di vedere che il mio villino piace a Filippo anche più della valle, dei castagni, degli abeti e della strada maestra. Gli faccio vedere nel mio ritiro campestre ogni cosa; tranne Buci, che non c’è. Ma già so dove bazzica, quel ghiottone famoso. Non va mica al Roccolo, lui, dove si vive a petti di pollo e a zabaioni. Outsides, beefsteaks, cutlets, pigeon-pies, plum-puddings, sono, io credo, i suoi piatti favoriti. Ed hai ragione, o cane, e sei certamente più saggio di me.
Ho posto da alloggiare una intiera famiglia, e son solo, con due persone di servizio; posso dare a Filippo non una camera, ma due, tre, quante ne vuole. Ne occupa due, ci dispone tutti i suoi arnesi, e, mutati abiti, scende in giardino con me, aspettando l’ora del desinare. Qui, naturalmente, incomincio a raccontargli tutto ciò che mi è occorso.
— Briccone! — mi dice, dopo essermi stato tranquillamente a sentire. — Vuoi venire ai ferri, e farmi credere che non sei innamorato di Armida?
— Te lo giuro! Che ragione avrei per mentire con te? La contessa Quarneri è bellissima; la vedrai, e l’ammirerai come faccio io, ma intendendo anche tu che si possa ammirar la bellezza, senza scaldarcisi più che tanto. Non per niente siamo stagionati e navigati, ne convieni? Quanto a me, ti confesso che ci discorro volentieri. Ha una cultura scarsa, il che, dopo tutto, non guasta; ma è intelligente, ha una parlantina graziosa, e la sua conversazione mi va, senza bisogno d’altri sentimenti più intimi, e più matti. Non è accaduto anche a te di trovare delle signore con le quali si discorre bene, e non si vuol rinunziare alla loro conversazione?
— Non me ne parlare; la preferisco a quella degli uomini più dotti; — rispose con grave accento il mio amico Filippo. — Ma basti di ciò. Il tuo caso non mi par molto chiaro, per quanto riguarda le conseguenze possibili. Non sei innamorato, e vuoi leticare con tre rivali. Capisco, sì; non perchè siano rivali e ti voghino sul remo, non perchè tu sia rivale a loro e non li voglia sull’orma; solamente perchè ti hanno in uggia, come un visitatore pericoloso, e te lo lasciano intender troppo. E tu non vuoi mosche sul naso; è giustissimo, e te ne lodo. Ma c’è una signora di mezzo; ci vuol giudizio, nel condurre questa faccenda. Quantunque, alle volte, la pazienza si perde; — soggiunse l’amico, tentennando la testa. — Mi hai fatto fremere, poc’anzi, con quell’“ah sì?„ del tuo signor Dal Ciotto.
E fors’anche un po’ nasale, come il naïn ebraico, non è vero? Ma tu hai fatto bene a contenerti, per la prima volta, rispondendogli un “certamente„ altrettanto strascicato e più naïn di lui. Facciamo le cose a modo; i tuoi moscardini non ci diventeranno mica troppo duri, per aver aspettato un giorno di più ad esser pescati e fritti. Li vedrò più da vicino, questa sera, o domani, e me ne prenderò magari un paio per me.
— Ecco l’uomo che mi consiglia di far le cose con giudizio; — osservai. — Bella chiusa, signor Ferri!
— Ma sì, una bella chiusa a bastonate, degna del poema villereccio che tu sei riuscito ad imbastire. Il giudizio, poi, non esclude l’andare a fondo, quando questo sia opportuno. Io voglio che si facciano le cose con calma. Tu sei di primo impeto. Non mi hai confessato tu stesso che se ci avevi in pronto i tuoi ferri, incominciavi subito dal ceffone? Io no; prima di saltare addosso al mio uomo, me lo voglio patullare un’oretta, che diamine! Un combattimento senza avvisaglie, è come un desinare senza i principii.
— Ahimè! li avremo? — dissi io. — La cuoca è spartana, ti avverto, quantunque si chiami Argia.
— Ma Corsenna non sarà poi senza burro; — rispose Filippo Ferri, imperturbato. — Dammi del burro; aggiungi... qualche altra cosa; al resto ci penso io. —