Fra la favola e il romanzo/Beneficio fatto non va perduto/VII

Beneficio fatto non va perduto - VII

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VII.



Le figlie di Maurizio Gerli non posseggono più nulla, fuorchè una meschina rendita proveniente dalla dote della loro madre, da poter bastare appena al nutrimento della ristretta famiglia. La quale dalla villa dell’Ardenza s’è ridotta in un piccolo cascinale presso la porta Maremmana. Questa cascina al disopra del pianterreno ha parecchie cameruccie alquanto comode e pulitine: essa è proprietà del vecchio Maso che la tiene allogata ad un suo nipote. Tommaso tanto [p. 37 modifica]ha pregato il Gerli, che questi provvisoriamente s’è indotto ad accettare l’ospitalità nella casa del suo antico servo. In essa adunque vivono Maurizio, le figlie, Tommaso e la Caterina. Questi due non è a dirsi quanto gareggino fra loro per rendere meno grave ai padroni qualunque privazione. E qui è da notare quanto grande dovesse essere la virtù e la forza morale non solo di Maurizio, ma delle due buone fanciulle, che dall’agiatezza e da tutte le comodità della vita, trovatesi di repente nello stato più meschino, sapevano far buon viso alla loro mala fortuna, e sopportavanla con dignità e con animo sereno.

E gli amici?... Fa che la ruota giri e ti precipiti al basso, la più parte di essi ti mirano dall’alto, ma dicono d’avere la vista miope e che non t’hanno ravvisato, e passano oltre. Nondimeno da principio alcuni di loro, che nutrivano affetto per il povero Maurizio, presero grande interesse alla sua disgrazia, poi chi per le proprie faccende, chi per rilassatezza, chi per egoismo, un poco alla volta si allontanarono. Solo Geppina, come amica delle figlie, costantemente una volta la settimana veniva a star la giornata in loro compagnia, sebbene abitasse alla contraria estremità di Livorno.

L’unico mobile che Maurizio, per la delicata generosità d’un creditore, aveva potuto conservare di tutte le sue ricche suppellettili, era il pianoforte, un perfetto istrumento di Pleyel. Da esso, nelle lunghe sere d’inverno, che già inoltravasi a lunghi passi Sofia ed Emilia cavavano talvolta soavissime melodie; cosicchè ne traevano qualche diletto, molcendo ad un tempo l’addolorato cuore del padre, che non sempre riusciva a dissimulare quanta amarezza [p. 38 modifica]lavorasse nel petto. Questi rifuggiva dal recarsi sovente in città, e non potendo alla giornata sperare il ravviamento d’alcun commercio, per non istare inoperoso e procacciarsi qualche compenso, valentissimo com’era nella scienza de’ numeri, aveva impreso a porre in ordine registri, rendiconti ed altre operazioni di simil natura per commissione altrui.

Le due figlie con l’aiuto della Caterina davan mano a tutte le faccende della casa, sebbene le più umili. Cucivano i loro modesti vestiti, prendevan cura della poca masserizia, delle biancherie; ed invece de’ loro graziosi e rari augellini, governavano alcuni piccioni ed una chioccia. Insomma chi vedute le avesse, le avrebbe tenute per figlie a qualche buon fittaiuolo. Intanto però esse non lasciavano andare perduto un solo istante in ozio, e sovente ricorrendo a’ loro pennelli, prendevano a ritrarre semplici scenette con animali e contadini, le quali riuscivano di un meraviglioso effetto.

Un giorno ch’esse aveano dato l’ultimo tocco ad un quadretto rappresentante due garzoncelli che danno sepoltura ad un augellino morto, Emilia disse alla Sofia: — ma sai, sorella, che mi par buono questo nostro lavoretto? V’è proprio da andarne altiere; non ti sembra?

— Tu sei un po’ troppo fiduciosa, Emilia; ma pure sì, se guardo a’ tuoi cespugli, a questa frana, a questo ruscello, debbo convenire con te che tutto è tratteggiato con verità e colorito fresco e vivace.

— Oh guarda mo’! si direbbe che i tuoi bambini qui non valgano queste quattro frasche; ma non vedi quanta grazia in quei visetti paffutelli, atteggiati a tristezza? E quei loro vestitini, e [p. 39 modifica]l’augelletto con le zampine distese sul piccolo feretro di velluto cremisi? Ma ti dico che questo nostro è un capolavoro, e che... Senti, senti che idea mi balena ora in mente... — Le due sorelle confabularono alquanto, e recaronsi quindi dal padre che stavasi tutto intento ai suoi conti. S’avvicinarono ad esso; e, ponendoglisi ciascuna da un lato, posarono ambedue una mano sur una spalla di lui.

— Babbo, disse Sofia, perdona se ti rechiamo disturbo. Puoi accordarci qualche istante d’udienza?

— Te lo domandiamo ufficialmente, soggiunse Emilia; perchè veniamo da te in forma pubblica, in missione cioè.

— Figlie, dilette figlie! — rispose il Gerli deponendo la penna, alzando il capo, e prendendo nelle sue le mani delle fanciulle. — Disturbarmi voi; voi che siete l’unico mio bene, l’unica mia gioia, la vita mia? A che questo insolito contegno? Parlate: io sono tutto a voi.

— Parla tu, Emilia...

— No, signora Sofia, ella è la maggiore, rispose Emilia con grazioso sussiego, e sta a lei ad arringare, e pensi ad uscirne con tutti gli onori.

— Come tu vuoi. Senza preamboli, non è vero? Ecco adunque, babbo, di che si tratta. Noi abbiamo una speculazione in vista, un progetto, come suol dirsi, che, se tu lo permetti, ci frutterà delle buone lire; ed in tal caso anche noi diverremo produttrici per aiutarti a far andare la casa.

— Io non intendo. Spiegati, mia buona figliuola.

— Ecco, padre mio. Noi, cioè Emilia ed io, abbiamo un piccolo capitale che si vorrebbe mettere a frutto. [p. 40 modifica]

— Un capitale!... interruppe Maurizio, e donde lo traeste?

— Intendi, babbo: non un capitale effettivo, un capitale sonante, ma qualche cosa che può tenere luogo di esso. Tante volte noi t’abbiamo udito a dire che il lavoro è il più sicuro dei capitali, e che queste due forze si fondono in una, perchè senza lavoro non v’ha capitale, e senza capitale non v’ha lavoro.

— Ebbene?....

— Ebbene noi vorremmo porre a frutto il lavoro de’ nostri pennelli, vendendo i nostri quadretti, e trarre così guadagno dal capitale che tu ci donasti.

— Ma che idea è codesta, riprese il padre alquanto accigliato, e di qual capitale tu parli?

— Sii buono, babbo: ascolta. Se invece di spendere molto danaro come tu hai fatto per la maestra di disegno e di pittura, per la carta, le matite, i colori, i pennelli, i modelli e cento altre coserelle, tu avessi depositato quelle somme in una banca a nostro nome, noi ora avremmo un bel peculio che ci frutterebbe un buon interesse. Tu invece con quel danaro hai voluto che da noi si apprendesse un’arte, la quale, oltre il grande diletto che ci procura, può esserci utile materialmente con la vendita de’ nostri lavori. Ed ecco il capitale che noi vogliamo porre in commercio; ecco la speculazione che noi abbiamo in mente di effettuare, se tu il consenti.

Maurizio durava ancora nell’aspetto contegnoso senza pronunciarsi, sebbene in cuor suo intendesse tutta la giustezza del raziocinio della figlia, e nulla trovasse da opporvi. Ma avendo egli allevato nella opulenza le due fanciulle, rifuggiva alla idea che [p. 41 modifica]il lavoro delle loro mani corresse per la piazza come mendicando un pane.

Le figliuole lessero quasi per intuizione sul volto del padre quel pensiero, ed Emilia affrettossi a dire. — Nessuno lo saprà, sai, babbo; acqua in bocca: Tommaso di tanto in tanto porterà in città un nostro quadretto; dirà che lo ha ricevuto... da Firenze, per esempio; e siccome non saremo difficili sul prezzo, e sceglieremo soggettini simpatici, v’è a sperare che ne otterremo la vendita senza che alcuno sappia donde venga il lavoro.

— E poi, babbo, soggiunse Emilia, tu stesso quando da principio dopo la disgrazia t’accorgevi che noi eravamo afflitte del vederti occupato da mattina a sera sulle scritture degli altri, non ci ripetevi che il lavoro, qualunque esso sia, onora l’uomo? E perchè non deve onorare anche la donna?

Non v’ebbe d’uopo di molti altri argomenti perchè Maurizio s’inducesse a concedere alle figlie il desiderato permesso; ed il quadro — Il seppellimento di un amico — con grande mistero venne affidato a Tommaso. Il quale condottosi in città, tanto si adoperò con la naturale sua loquacità, che ne ottenne la vendita a prezzo vantaggioso; ma fu miracolo che non dicesse da quali mani era dipinto, in ispecie quando sentì dal compratore mirabilia sul quadro, e sull’ingegno dell’incognito artista.

Tornato alla cascina tutto festoso narrò il fatto al Gerli ed alle figlie, e deponendo sul tavolino dieci napoleoni d’oro: dicasi poi, esclamò, che i proverbi non sono vangelo: «impara l’arte e mettila da parte.» E questo è nulla, signorine, chè già abbiamo commissioni in moto. Il compratore, che si [p. 42 modifica]chiama il signor Domenico Zaccaria, dev’essere un’ottima pasta d’uomo, sebbene un po’ vivace, consegnatomi il danaro, mi dice: — Ehi, galantuomo, veggo che questo tuo pittore è di buona scuola.

— La mi burla? rispondo io, premiato all’Accademia!

— E dimmi, dipinge le marine? — dice lui.

— Oh che mi domanda? mari, boschi, pianure, tutto quel che la comanda, soggiungo io.

— Ebbene, se è così, che mi dipinga un tramonto di sole sul mare. Però, intendimi bene; voglio che fra il sole e chi guarda siavi l’isola della Meloria e la sua torre.

— Non ho bene inteso, signore...

— Ciuco! dice lui così per dire. Il sole deve essere nascosto dalla torre della Meloria, e l’effetto del tramonto deve prodursi sul cielo e sul mare: 250 lire, se il lavoro è perfetto, e quindici giorni di tempo. Ho accettato, signorine; e son da loro per sentire se ho errato. —

— No, no, Maso; ottimamente, disse Sofia. Emilia, questo è tutto lavoro tuo. Oh il tuo quadro sarà perfetto! Quante belle marine non hai tu ritratto dall’Ardenza e da Antignano? — E, preso il danaro: — vedi, babbo, è questo il frutto del capitale, ed è tuo di diritto; — ed intanto le due sorelle lo versavano con un certo sentimento fra l’orgoglio e la tenerezza nelle mani del padre, che le ricompensava con affettuose carezze.