Fosca/Capitolo XLV
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XLV.
Non so perchè fuggissi. Credo che sia istinto: si fugge da un dolore come da un pericolo. In un attimo mi trovai fuori della città, nell’aperta campagna; era già buio, e le strade erano deserte. Mi arrestai al crocicchio di una via, e percossi col fodero della sciabola alcuni ramoscelli di sanguine, che sporgevano da una siepe, per farne cadere la neve. Guardai un lume che un contadino portava in lontananza attraverso i campi, e che pareva andar solo; lo seguii coll’occhio finchè lo perdetti di vista. Un cane magro, brutto, patito, mi si avvicinò annusando e agitando con lentezza, quasi con fatica, la sua coda aggomitolata; lo chiamai e mi curvai ad accarezzarlo, poi lo respinsi percuotendolo col piede. I suoi guaiti mi riscossero da quella specie di astrazione simile al sonnambulismo; riacquistai la coscienza di me, mi ricordai di ciò che era successo, e mi portai le mani alle tempie, perchè mi pareva che qualche cosa stesse per spezzarmisi nella testa.
Oramai tutto era scoperto, e in che modo crudele e impreveduto! Fra poco il nostro segreto sarebbe stato sulle bocche di tutti. Fosca, suo cugino, io più di ogni altro, saremmo stati fatti oggetti di scherno e di ridicolo. Lui, quell’uomo onesto, quell’uomo eccellente, colpito della stessa pena che una società ingiusta, fatua, goffamente crudele, avrebbe gettato sopra di me. Più ancora: avrei dovuto battermi con esso, forse ferirlo, forse ucciderlo; o io stesso rimanere ferito od ucciso. Tale il premio che egli avrebbe ricevuto della sua fiducia, io del mio sacrificio. Una fatalità inesorabile aveva posto a legge delle nostre esistenze questo dilemma terribile.
Perchè, sarei io stato sì vile da gettare sopra di lei la responsabilità di quell’avvenimento, da dirgli come ella mi aveva imposto il suo amore? E quando pure egli ne fosse stato convinto, avrebbe potuto sottrarsi alle esigenze di quei pregiudizi che lo costringevano a pretendere da me una riparazione palese come l’offesa? No, non v’era a questo riguardo alcuna via di transizione; un duello era inevitabile.
Poichè m’ebbi definita la mia situazione in questi termini, mi sentii un poco più tranquillo. Il timore, l’aspettazione di un male, sono un male maggiore di quello che si teme e si aspetta. Mi sarebbe importato poco il morire; mi era avvezzato a questa idea fino da fanciullo, e la mia gioventù non era stata che una lotta continua tra l’istinto tenace della vita, e la mania assidua del suicidio; ma uccidere lui, quell’uomo che sapeva accomodarsi sì bene cogli uomini e coll’esistenza, che era così onestamente felice!... quello era un pensiero che mi lacerava il cuore.
Di Fosca non mi dava gran pena. Io non l’amava; i mali che ella aveva cagionato parevano disgiungerci ancora di più. La mia pietà era sì poco viva, che il minimo de’ suoi torti bastava a farla tacere.
Le mie idee si rischiararono a poco a poco.
Non si può durare lungamente sotto l’oppressione di un gran dolore. Il cuore, prostrato per un istante, si risolleva subito; la speranza ritorna a sorridere, precorre gli avvenimenti, e ci addita le gioie che devono compensarci di quegli affanni.
Rientrai nella città. Mi pareva d’essermi dimenticato di qualche cosa, aveva nella testa l’idea confusa di un piacere vicino, di una gioia certa, ma non sapeva quale fosse. Ad un tratto me ne sovvenni; fu un baleno: non aveva letto ancora la lettera di Clara.
Sorrisi tra me stesso, e mi affrettai verso casa. Quella lettera mi avrebbe compensato di tutto. E poi, la mia felicità era adesso ben certa, fra poche ore sarei partito per Milano, sarei vissuto sempre vicino a lei, non l’avrei abbandonata mai più. Ora ne era ben sicuro. Come poteva io dolermi di una sventura sì lieve, dinanzi alle attrattive di una gioia sì grande e sì durevole? Io sorrideva di quel dolore miserabile.
Non so se gli altri amanti sieno stati nei loro affetti tanto sublimamente puerili quanto lo fui io. Vorrei pur leggere nel cuore degli altri uomini per conoscere se io ho realmente amato di più, se fui in ciò, come ho creduto e temuto sempre, un’eccezione mostruosa e sventurata.
Non lessi mai una lettera di Clara se non alcune ore dopo averla ricevuta, per prolungarmi coll’aspettazione il piacere di quella lettura. Spesso, appena apertele, incominciava a leggere a rovescio, o alla trasparenza della fiamma della candela, e guardava qua e colà in fretta alcune parole, e richiudeva tosto quei fogli per costruire con esse qualche frase a mio talento, e fantasticare su ciò che avrebbe potuto dirmi. Non comprendeva nulla, se non dopo averle lette dieci o venti volte; le ritenevo a memoria, e le recitavo a me stesso prima di addormentarmi; talora le ricopiavo imitando i suoi caratteri, per provare in qualche modo le sensazioni che ella doveva aver provato nello scriverle.
E aveva allora venticinque anni!
Ma in quella sera era troppo afflitto, aveva troppo bisogno di conforti, per potermi protrarre questo piacere. L’apersi con avida impazienza; ed ecco ciò che conteneva quella lettera terribile:
«Procura di ascoltare con calma ciò che sto per dirti. Abbi tu almeno quella forza che io non ho, e possa non conoscere l’amarezza di quelle lacrime disperate che io verso nello scriverti. Mio buon amico, mio Giorgio, mio angelo, noi non dobbiamo vederci più, noi dobbiamo lasciarci per sempre. La mia mano vacilla, e il mio cuore s’infrange nello scrivere queste parole.
«Ascolta. Sarò breve, ti dirò tutto più concisamente che posso, giacchè ogni parola che devo dirti mi trapassa l’anima come una lama. Rovesci di fortuna gravi e improvvisi hanno rovinato la mia famiglia. Mio marito è quasi povero. È necessario che tutto sia mutato nel nostro sistema di vita; che io attenda colla mia vigilanza, colla mia assiduità, forse anche col mio lavoro, a quelle economie che mi impone il mio dovere di moglie e di madre. Mio marito ebbe forse dei torti verso di me; io ne l’ho ben punito. Ad ogni modo, ora che egli è infelice, sento il bisogno di riavvicinarmi a lui e di proteggerlo col mio affetto. La fortuna ha riunito le nostre esistenze, non posso abbandonarlo. Tu stesso, tu mi disprezzeresti. Sono ora otto mesi che ci amiamo. La mia colpa fu lunga, la mia dimenticanza profonda, la mia felicità immensa.
«Tutta una vita non basterebbe a scontare questa felicità (poichè la felicità è cosa che si sconta). Come potrei pretendere di essere ancora felice? Come oserei di essere ancora colpevole? Lasciandoci ora, noi ci lasciamo in tutta la pienezza delle nostre illusioni e della nostra fede; noi porteremo intatte alla tomba queste illusioni che una intimità più durevole avrebbe scolorite o distrutte. La tua memoria riempirà tutta la mia esistenza.
«Non è il caso che ci ha separati, è una predestinazione, è una volontà superiore e imperscrutabile. La sventura che mi colpisce ha punito me di una colpa che non potrò mai lavare abbastanza colle mie lacrime; ha tolto dalla tua via un ostacolo che avrebbe certo attraversato a te, giovane, un avvenire che il tuo coraggio e il tuo ingegno ti additano lusinghiero e felice.
«Quando pure il mio cuore avesse potuto ribellarsi al sentimento di un dovere che m’impone di dividermi da te, io non avrei mai potuto sottrarmi al disprezzo di coloro che avrebbero penetrato il nostro segreto, alla condanna disonorante di cui la società avrebbe colpito la mia condotta. Mio figlio, l’unico scopo, l’unico affetto legittimo della mia vita, non avrebbe potuto redimersi mai dal disonore ingiusto e crudele che gli sarebbe provenuto dalla mia colpa; egli non avrebbe potuto arricchire il suo cuore di quel dolce sentimento che a voi uomini già esperti della nostra fatuità, dei nostri errori, spesso anche delle nostre bassezze, fa parere ancora nobile e cara la donna: la pura e santa memoria di una madre.
«Sì, Giorgio, io sono caduta con facilità, ma devo rialzarmi con coraggio. Mi sono data a te con franchezza, mi ti ritoglierò con pari franchezza; mi farò un’arma della tua stima, della tua ricordanza; adoprerò a nobilitarmi quella stessa forza che mi darà la memoria del nostro passato.
«Nella mia vita di otto mesi, io fui assai felice... Non ho mai tanto guardato e pensato a questo tempo, come ora che i nostri cuori stanno per dividersi. Un’idea mi conforta e mi inorgoglisce. Nessuno può toglierci questo passato, nessuno può fare che io non t’abbia amato con tutta l’anima mia e che tu mi abbia riamata collo stesso ardore. Questo tesoro di memoria è indistruttibile. Io l’ho celato nelle profondità più segrete della mia anima. È da esso che io attingerò qualche conforto per la mia vita avvenire, misera vita, piena di tristezza e di abbandono, ma abbellita dal sorriso de la tua rimembranza; senza questa certezza, dove avrei io trovato la forza di abbandonarti?
«Nè noi dobbiamo lasciarci solo come amanti, dobbiamo lasciarci anche come amici, ogni altra relazione tra noi sarebbe fatale; non ci potrebbe ricondurre all’amore perchè nol dovremmo, non legherebbe di più i nostri cuori perchè ce ne mostrerebbe quei difetti che l’amore ci aveva nascosti. Quando due creature si sono amate come noi, non possono più amarsi come gli altri; tu fosti tutto per me, non voglio che tu sia poco, preferisco che tu sia nulla. Le anime come le nostre non vivono che di piaceri grandi, o di grandi dolori. Prima di lasciarti ho voluto rivedere tutti quei luoghi che mi parlavano di te (forse io non li rivedrò mai più), ho voluto dare un addio a tutto ciò che il tuo affetto mi aveva reso caro. Nell’immensità del mio dolore, io sono ora quasi tranquilla. Io non ti perdo; ho raccolto dal nostro passato tante memorie che una lunghissima vita non basterebbe ad esaurirle.
«Ora addio. Tu lo vedi. Io ti scrivo piangendo, e non potrei scriverti di più; le lacrime cancellano le parole, quasi avessero sentimento di pietà e volessero risparmiare a te il dolore di versarne altre nel leggerle. Io non poteva ingannarti. Poteva essere ancora fra le tue braccia, ma il mio pensiero, il mio cuore sarebbero stati lontani da te.
«Il destino che ci separa è inesorabile. Se tu mi hai realmente amata, se ho meritato qualche cosa dal tuo affetto, fa che la tua rassegnazione e la tua virtù mi abbiano a rendere meno terribile il perderti.
«Ho lasciato apposta nella tua stanza la mia crocetta di brillanti. Tienila per memoria mia. Sarò felice se mi prometterai di portarla sempre sul tuo cuore. Non ti avrei fatto un altro dono, non avrei osato, ma una croce è simbolo di sacrificio, di abnegazione, di dolore; mi parve che ella avrebbe potuto farti ricordare di me, nella sola maniera in cui desidero che tu abbia a ricordartene. Quel giorno in cui mi lasciasti la prima volta, tu la vedesti brillare sul mio petto, tu la baciasti; vi si vedono oggi ancora le traccie delle nostre lacrime: ho pensato che questa memoria sarebbe stata sacra per te.
«Addio ancora. Sii forte, Giorgio, sii ragionevole, non maledirmi. Pensa che soltanto in questo modo io poteva riacquistare la stima di me medesima, non credermi interamente perduta, e tu sii pago di aver amata una donna non affatto indegna di te. Un abbandono più lungo ci avrebbe disgiunti, questo sacrificio ci riunisce. Se io fossi stata libera, mi sarei uccisa per non sopravvivere al nostro amore; esso fu immenso, ma immenso e terribile ne fu il distacco; tu invece conosci i legami che m’impongono di vivere. Ma se io fossi stata libera, ti avrei amato per tutta la vita.
«Addio, mio adorato, mia anima, (ti chiamerò ancora una volta con questi nomi diletti), addio per l’ultima volta, addio per sempre. Mi dicesti un tempo che assomiglio a tua madre, amami in essa e come essa. Il mio affetto, la mia memoria ti seguiranno fino alla tomba. Sii felice, Giorgio, sii onesto; e che il cielo vegli sopra di te».