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188 | fosca |
XLV.
Non so perchè fuggissi. Credo che sia istinto: si fugge da un dolore come da un pericolo. In un attimo mi trovai fuori della città, nell’aperta campagna; era già buio, e le strade erano deserte. Mi arrestai al crocicchio di una via, e percossi col fodero della sciabola alcuni ramoscelli di sanguine, che sporgevano da una siepe, per farne cadere la neve. Guardai un lume che un contadino portava in lontananza attraverso i campi, e che pareva andar solo; lo seguii coll’occhio finchè lo perdetti di vista. Un cane magro, brutto, patito, mi si avvicinò annusando e agitando con lentezza, quasi con fatica, la sua coda aggomitolata; lo chiamai e mi curvai ad accarezzarlo, poi lo respinsi percuotendolo col piede. I suoi guaiti mi riscossero da quella specie di astrazione simile al sonnambulismo; riacquistai la coscienza di me, mi ricordai di ciò che era successo, e mi portai le mani alle tempie, perchè mi pareva che qualche cosa stesse per spezzarmisi nella testa.
Oramai tutto era scoperto, e in che modo crudele e impreveduto! Fra poco il nostro segreto sarebbe stato sulle bocche di tutti. Fosca, suo cugino, io più di ogni altro, saremmo stati fatti oggetti di scherno e di ridicolo. Lui, quell’uomo onesto, quell’uomo eccellente, colpito della stessa pena che una società ingiusta, fatua, goffamente crudele, avrebbe gettato sopra di me. Più ancora: avrei dovuto battermi con esso, forse ferirlo, forse ucciderlo; o io stesso rimanere ferito od ucciso. Tale il premio che egli avrebbe ricevuto della sua fiducia, io del mio sacrificio. Una fatalità inesorabile aveva