Fosca/Capitolo XLIV
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Capitolo XLIII | Capitolo XLV | ► |
XLIV.
L’indomani era la vigilia di Natale: avevo detto a Fosca che per quel giorno sarei ritornato, e tenni la promessa. Un biglietto del dottore che trovai nella mia stanza mi diceva:
«So che ella vi aspetta a pranzo qui. Se vi verrete (e non farete male a venirvi) direte al colonnello e agli altri che non siete ancora partito, che una lieve indisposizione vi ha obbligato a rimanere. Io sarò là a farne fede. Immagino che non avrete paura di aggravare la vostra coscienza con questa menzogna inevitabile».
Vi andai. Tanto non avrei potuto evitare di veder Fosca, e il minor male che mi fosse possibile sperare era appunto quello di non vederci da soli. La certezza della mia traslocazione imminente mi infondeva una specie di coraggio che non aveva avuto prima. Per poco non era divenuto anche audace. Affrontava questi pericoli con calma, perchè sapeva che erano gli ultimi. La mia apparizione non produsse alcuna sorpresa nei miei commensali, giacchè il dottore ne li aveva prevenuti. Il colonnello mi strinse la mano fino a farmi sentire un po’ troppo la pressione delle sue dita secche e nervose, e mi disse con schiettezza:
— Sono veramente contento che non siate ancora partito; me ne dispiace per voi, ma per me ne sono lieto. È una puerilità, un’abitudine come le altre, lo capisco, ma in questo giorno sento anch’io il bisogno di vedermi circondato da’ miei amici. Il Natale è la più bella festa dell’anno. Io non sono nè turco, nè cattolico — sono semplicemente un galantuomo — ma alcune delle feste cristiane mi piacciono, mi vanno a sangue, armonizzano colle mie convinzioni; io ci vedo dentro un significato profondo, che le apparenze ci nascondono. La religione ne è un pretesto. Che credete? Non è già la nascita di Cristo che noi festeggiamo oggi; noi festeggiamo la famiglia, le gioie della vita domestica, il focolare. Se questa festa si celebrasse in agosto non avrebbe più una metà della sua importanza; è in questa stagione che sentiamo il bisogno di vederci riuniti. Ecco la casa, il camino, il ceppo tradizionale, la tavola apparecchiata. Peccato che non nevichi! Tempo fa, ho passato questo giorno sulle montagne, in una casetta sepolta tra le valanghe, coi lupi alla porta. Quello fu un vero Natale! E stasera rimarrete con noi? Faremo una piccola cena.
— Volontieri, io dissi, è una festa a cui ho legato anch’io delle memorie.
— Ah! continuò il colonnello mentre ci mettevamo a tavola, chi è che non vi ha legato delle memorie? Le più belle rimembranze della famiglia fanno capo a questo giorno. Volete ricordarvi delle ore più gioconde della vostra fanciullezza, delle persone che avete amato di più, dei vostri genitori, dei vostri fratelli? Bisogna che pensiate al Natale, alla casa dove siete nati, alla stanza dove potevate raccogliervi, alla fiamma del caminetto, alla notte vegliata cicalando...
— E alle gozzoviglie... interruppe uno dei commensali.
— Sia come volete, continuò il colonnello, anche alle gozzoviglie. Male per voi se in questo tacchino coi tartufi non vedete altro che un tacchino coi tartufi. Io ci vedo la ragione di un legame più stretto fra noi. Dov’è che gli uomini si trovano meglio riuniti che a tavola? È là che essi dividono il pane ed il vino, che si dimostrano più efficacemente il loro affetto, offrendosi a vicenda le cose più necessarie alla vita. A voi. Eccovi qui un petto di pernice; permettete che ve lo offra. Crederete forse che un uomo che vi offre un petto di pernice possa essere un vostro nemico?
Questa offerta era stata fatta a me.
— Tolga il cielo che io abbia a cadere in tale errore, io dissi, io considero la vostra offerta come la più eloquente testimonianza della vostra amicizia.
— Via, esclamò egli, voi credete di aver proferito una facezia, avete detto invece una grande verità. Io ho imparato a non dare alcun valore a quei doni che sogliono farsi i ricchi, a quei piccoli sacrificii fatti e retribuiti per convenzione. Quando io era ragazzo era molto povero, non mi vergogno certo di confessarlo. Ebbene, la camera migliore della casa era la mia, quei piccoli agi che poteva permetterci la nostra situazione erano per me; a tavola mi si davano le cose più squisite; mia madre era instancabile nell’occuparsi di tutti questi piccoli nonnulla che potevano recarmi piacere; quello era il vero affetto — tutto il resto è convenzionale, falso — è apparente. Se un uomo affamato — mettiamo anche semplicemente un uomo goloso — desse a me affamato l’unica costoletta che gli rimanesse per colazione, sento che dovrei essergliene più tenuto, che se m’avesse dato venti napoleoni dei quaranta che aveva nella sua saccoccia.
— È vero, disse Fosca, io credo...
— Chiedo scusa, interruppe suo cugino, tu non puoi credere nulla, non puoi essere in ciò un giudice competente; tu non puoi conoscere il valore di una costoletta, giacchè non ne hai mai mangiata una intiera in tua vita.
— Oh, oh, esclamò il dottore, questa argomentazione è falsa. Converrebbe indagare se un piacere debba essere misurato dalla sua entità, piuttosto che dalla sua durata.
— Dall’una e dall’altra, diss’io.
— Sta bene, disse il colonnello, ma più assai dalla durata. Farò uno sforzo di logica. Argomentiamo da un caso opposto. Supponiamo a mo’ d’esempio, che abbiate a ricevere un colpo di bastone; voi ne sentirete dolore per uno, va bene, ma ricevetene invece dieci, ricevetene venti… Che ve ne pare? Persisterete a credere che il dolore dei dieci, dei venti, sia uguale a quello dell’uno? Singolarmente sì, ma molti dolori riuniti costituiscono un dolore più grande. Così è dei piaceri. Addizioniamo i piaceri, e ne avremo uno più vivo e più durevole. Forse che se noi rimanessimo qui, seduti a questa tavola fino alla mezzanotte, e riuscissimo a riunire con una catena di piccoli piaceri intermedii questi due grandi poli del piacere che sono il pranzo e la cena, non avremmo sciolto con onore questa questione?
Questa proposta trovò un eco in tutti i commensali.
— Chi avremo a cena con noi? chiese il dottore.
— Un mondo di persone, tutte le onorevoli metà dei nostri colleghi.
— Compresa la baronessa, la moglie di...
— Suo marito.
— O dell’amico di suo marito!
— Bando alla maldicenza, disse il colonnello. In verità che se io credo di avere una virtù, la è questa, di non veder mai ciò che non dev’esser veduto e, vedendolo, di persuadere me stesso di non aver visto. Vi è un beneficio grandissimo che ogni uomo è in grado di rendere ad un altro, e che è tuttavia quello che vien reso più raramente, l’astenersi dal dirne male.
— Ma io non aveva in animo di dirne male, disse quello tra noi che aveva provocato questa osservazione. Voleva far constare di un fatto. Vi sono certe cose che saltano agli occhi. I mariti...
— Può essere, interruppe il colonnello, che i mariti vedano poco; ma gli altri vedono troppo. Io apprezzo più la cecità dei primi, che l’accortezza dei secondi. La fiducia di un marito, di un padre, di un fratello è cosa che mi commuove, doppiamente poi se tradita. Io non ho riso mai della semplicità; la credo la più nobile delle virtù, invece ho sempre temuto della doppiezza. La natura ha donato all’uomo questa cecità, per dare alla colpa della donna un rilievo ancora più appariscente.
Io guardai Fosca il cui volto aveva incominciato ad impallidire. Il pranzo era finito, e, se avessi potuto, le avrei suggerito volontieri di ritirarsi nella sua camera.
— E se non fosse..., aveva ripreso il colonnello. Ma fu interrotto dall’arrivo del sergente di posta che ci recava un fascio di lettere. Io n’ebbi una, che conobbi tosto essere di Clara, e mi affrettai a nasconderla nel mio portafogli, impaziente di trovarmi solo per leggerla. Dopo le follìe di quel nostro ultimo ritrovo, che cosa mi avrebbe ella detto?
Il colonnello fece atto di riconsegnare le sue al sergente perchè le riportasse in ufficio, ma avendone veduta una col suggello del Ministero, la riprese e l’aperse. La lesse in un baleno, si rivolse a me con aria di meraviglia e di dispiacere, mi guardò un poco come per interrogarmi, poi mi disse:
— Siete voi, o sono quei signori del Ministero che hanno voluto farci questa sorpresa? Siete destinato al Dipartimento di Milano, e dovete raggiungere immediatamente la vostra destinazione. Che diavolo!...
— A Milano!...io balbettai tutto confuso — traslocato!... Veramente... non capisco...
E alzai gli occhi verso Fosca. Vidi il suo volto impallidire, trasfigurarsi, affilarsi. Ella stese le braccia verso di me, tentò sollevarsi, e ricadde sulla sedia. Suo cugino, i medici, le furono tosto dintorno; guardavano ora me, ora lei, e parevano sospettare le cause di quella sua crisi improvvisa. Successe un istante di silenzio. Gli occhi di Fosca, spalancati, immobili, vitrei, non cessavano di affissarmi. Ella si alzò ad un tratto agitata da una contrazione spaventevole, corse verso di me, si afferrò a’ miei abiti e proruppe in un grido straziante:
— Oh Giorgio, non mi abbandonare, oh mio Giorgio! mio adorato!
Quelle parole, quell’atto erano una confessione troppo eloquente. Suo cugino impallidì, arrossì, tornò ad impallidire; stette un istante immobile come istupidito, paralizzato, fulminato da quella rivelazione, poi si avventò verso Fosca guardandomi con occhi terribili, la strappò con violenza dalle mie braccia, la trascinò verso il suo appartamento; e nel varcare la soglia dell’uscio si rivolse, e mi disse:
— Uscite, signore; uscite di questa casa. Ci rivedremo assai presto.
Gettai gli occhi smarriti dintorno a me; il sergente di posta, le cameriere erano spariti; i miei commensali si erano alzati, e facevano mostra di frugare qua e là tra i mobili per cercare i loro berretti e le loro sciabole. Io uscii, mi cacciai giù per le scale colla disperazione nel cuore.