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Sorrisi tra me stesso, e mi affrettai verso casa. Quella lettera mi avrebbe compensato di tutto. E poi, la mia felicità era adesso ben certa, fra poche ore sarei partito per Milano, sarei vissuto sempre vicino a lei, non l’avrei abbandonata mai più. Ora ne era ben sicuro. Come poteva io dolermi di una sventura sì lieve, dinanzi alle attrattive di una gioia sì grande e sì durevole? Io sorrideva di quel dolore miserabile.

Non so se gli altri amanti sieno stati nei loro affetti tanto sublimamente puerili quanto lo fui io. Vorrei pur leggere nel cuore degli altri uomini per conoscere se io ho realmente amato di più, se fui in ciò, come ho creduto e temuto sempre, un’eccezione mostruosa e sventurata.

Non lessi mai una lettera di Clara se non alcune ore dopo averla ricevuta, per prolungarmi coll’aspettazione il piacere di quella lettura. Spesso, appena apertele, incominciava a leggere a rovescio, o alla trasparenza della fiamma della candela, e guardava qua e colà in fretta alcune parole, e richiudeva tosto quei fogli per costruire con esse qualche frase a mio talento, e fantasticare su ciò che avrebbe potuto dirmi. Non comprendeva nulla, se non dopo averle lette dieci o venti volte; le ritenevo a memoria, e le recitavo a me stesso prima di addormentarmi; talora le ricopiavo imitando i suoi caratteri, per provare in qualche modo le sensazioni che ella doveva aver provato nello scriverle.

E aveva allora venticinque anni!

Ma in quella sera era troppo afflitto, aveva troppo bisogno di conforti, per potermi protrarre questo piacere. L’apersi con avida impazienza; ed ecco ciò che conteneva quella lettera terribile:

«Procura di ascoltare con calma ciò che sto per dirti. Abbi tu almeno quella forza che io non ho, e possa non