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posto a legge delle nostre esistenze questo dilemma terribile.

Perché, sarei io stato sì vile da gettare sopra di lei la responsabilità di quell’avvenimento, da dirgli come ella mi aveva imposto il suo amore? E quando pure egli ne fosse stato convinto, avrebbe potuto sottrarsi alle esigenze di quei pregiudizi che lo costringevano a pretendere da me una riparazione palese come l’offesa? No, non v’era a questo riguardo alcuna via di transizione; un duello era inevitabile.

Poichè m’ebbi definita la mia situazione in questi termini, mi sentii un poco più tranquillo. Il timore, l’aspettazione di un male, sono un male maggiore di quello che si teme e si aspetta. Mi sarebbe importato poco il morire; mi era avvezzato a questa idea fino da fanciullo, e la mia gioventù non era stata che una lotta continua tra l’istinto tenace della vita, e la mania assidua del suicidio; ma uccidere lui, quell’uomo che sapeva accomodarsi sì bene cogli uomini e coll’esistenza, che era così onestamente felice!... quello era un pensiero che mi lacerava il cuore.

Di Fosca non mi dava gran pena. Io non l’amava; i mali che ella aveva cagionato parevano disgiungerci ancora di più. La mia pietà era sì poco viva, che il minimo de’ suoi torti bastava a farla tacere.

Le mie idee si rischiararono a poco a poco.

Non si può durare lungamente sotto l’oppressione di un gran dolore. Il cuore, prostrato per un istante, si risolleva subito; la speranza ritorna a sorridere, precorre gli avvenimenti, e ci addita le gioie che devono compensarci di quegli affanni.

Rientrai nella città. Mi pareva d’essermi dimenticato di qualche cosa, aveva nella testa l’idea confusa di un piacere vicino, di una gioia certa, ma non sapeva quale fosse. Ad un tratto me ne sovvenni; fu un baleno: non aveva letto ancora la lettera di Clara.