Fosca/Capitolo IV
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IV.
Non so dire come ne partii per venire a Milano. Non so spiegarmi questa risoluzione, perchè non aveva più alcuna forza di volontà quando vi venni.
Era sul finire d’aprile, e mi ricordo di aver fatto a piedi attraverso la campagna un tratto di strada assai lungo. Due allodole gorgheggiavano nel cielo che mi sembrava alto, sereno, sconfinato più di quanto non mi fosse mai parso dapprima. Esse si erano tanto innalzate che il mio occhio non arrivava a vederle, erano lontane l’una dall’altra, e a giudicarne dal canto, parevano immobili — si sarebbe detto che avessero trovato lassù dove posarsi. Il loro gorgheggio aveva qualcosa di affettuosamente intimo, pareva una serie di domande e di risposte; ed era sì melodioso, sì calmo, sì limpido che mi ricordo d’averlo udito ancora ad una grande distanza dal luogo ove l’aveva sentito la prima volta. Certo perchè calmo e limpido, non perchè vigoroso. Vi è uno strano mistero di luce in quel canto. Il mio orecchio poteva forse udirlo per la stessa ragione che il nostro occhio discerne il letto algoso di un lago attraverso le sue acque alte e tranquille, e non vede quello del torrente, le cui onde basse ed impetuose, ma torbide, scorrono con impeto al mare.
Aveva anche raccolto lungo la strada un mazzetto di tussilaggini gialle — gli unici fiori che abbelliscono quei vigneti sterili e desolati — e lo conservo tuttora nella mia scatola dei fiori disseccati.
Ho segnato tutti i periodi solenni della mia vita con dei fiori. Ne conservo una quantità di mazzetti che sono come le pietre miliari del cammino percorso nella mia esistenza, e li porto meco come l’unico tesoro che io possiedo al mondo.
Ho sempre sentito una specie di rispetto per queste piccole e fragili creature di un giorno, anche una specie di fede.
Un anno a Milano, in un’ora di profondo sconforto, una donna che passeggiava meco al mio fianco tenendo in mano una rosa, mi precedette di alcuni passi, e sfogliandola, e gettandone i petali dinanzi a me, mi disse scherzosamente: «Spargo dei fiori sul vostro cammino.» All’indomani un avvenimento inatteso mi restituiva la gioia e la pace.
Allorchè giunsi in quella città, io non aveva nè progetti, nè idee, nè speranze di giorni migliori. Vi era venuto, direi quasi, inconsciamente. Sapeva che fra due mesi sarei stato richiamato al reggimento e che di là avrei meglio potuto sollecitare questo richiamo. Forse era stato tale il movente del mio viaggio.
Appena arrivatovi, cercai con ansietà di un amico che certa comunanza di sventure mi aveva reso da tempo assai caro. Egli abitava in una casa signorile e assai vasta, dove era però quasi sconosciuto. Bisognava chiedere di lui. Battei perciò ad un uscio del primo piano, e venne ad aprirmi una donna giovane e bella. Mi parve che rimanesse colpita in modo singolare dal mio aspetto; nè io lo fui forse meno del contrasto che formavo col suo. Essa era sì serena, sì giovane, sì fiorita; e il mondo pareva dover essere stato fino allora così benigno con lei, che io la guardai un istante senza parlare, compreso d’una meraviglia dolce e profonda.
— Di chi cercate, in grazia?
— Profferii il nome del mio amico.
— Al secondo piano.
Avrei giurato di aver sentito già più volte quella voce, di averla sentita bambino, ne’ miei sogni... La guardai come si fa a persona che parci di conoscere. Nell’allontanarmi sentii che un lembo del mio soprabito era stato chiuso tra le due imposte dell’uscio. Ella se ne avvide e fu sollecita a riaprire.
— Perdonate.
M’inchinai. Non risposi nulla, ma tornai ad affissarla sì stranamente, che essa mi guardò quasi spaventata. Sentii quello sguardo penetrarmi penosamente nell’anima.
«Sì felice, sì florida, sì bella!» esclamai tra me stesso salendo la scala; «oh dolce creatura! se tu mi porgessi quella tazza che l’età e gli affanni hanno allontanato forse per sempre dalle mie labbra, come potrei rifiorire anch’io, e sorridere ancora alla vita! Ma la gioventù è dei giovani, e le gioie non sono che dei felici!»
Giunto sul pianerottolo, mi rivolsi, e vidi ch’ella era rimasta immota sull’uscio, e mi accompagnava dello sguardo, e pareva commossa e pensosa. Aveva ella compreso che io era sventurato, e aveva sentito il bisogno di confortarmi del suo affetto e della sua compassione?
Dirò cosa antica come l’amore. Bastarono quello sguardo e quella mestizia. Da quel momento le nostre sorti furono gettate. Io l’aveva vinta con l’unica attrattiva che vi era in me, — quella da cui le donne sono prese assai raramente, ma cui, ove lo sieno, inorgogliscono spesso di cedere senza resistere, perchè comprendono di mettersi così sulla via di una missione che le santifica — l’attrattiva della sventura.
Trovai il mio amico, e mi installai nel suo appartamento.
Ebbi da lui notizie di quella donna. Suo marito era giovine e avvenente, occupava una carica distinta in un’amministrazione governativa; non erano ricchi, ma parevano agiati e felici; avevano un figlio; essa si chiamava Clara: quando non agucchiava presso una piccola finestra che guardava nel cortile, leggeva romanzi sul suo balcone, seduta in mezzo a’ suoi vasi di fuxie e di geranii; suonava anche il pianoforte e cantava.
Passai quella prima notte in una specie di delirio; lessi l’epistolario di Foscolo — l’uomo antico — e rividi in un’allucinazione le scene passate della mia vita. Mi pareva che tutto fosse finito lì, con quel giorno, con quella fuga, coll’incontro di quella donna; travedeva non so quali gioie nell’avvenire.
Fui riscosso per tempo dal suono di un pianoforte che veniva dal piano sottostante. Apersi la finestra e mi affacciai dal mio balcone. Era un mattino lucido, caldo, sereno, il sole si versava sulla via che brulicava di passeggieri affaccendati. Le carriuole dei lattivendoli stridevano sulle loro ruote mal ferme, i vetturini facevano scoppiettare le loro fruste, gruppi di fanciulli s’inseguivano schiamazzando; ogni cosa era vita, luce, moto, allegrezza. Da lungo tempo non aveva assistito a quello spettacolo del ridestarsi di una gran città. Abbassando lo sguardo sul balcone di sotto, vi scorsi Clara che mi stava guardando. Essa era seduta in mezzo a’ suoi vasi in un abito semplice e negletto; ma le sue fuxie non erano ancora in germe, e non v’era altro di fiorito intorno a lei che alcune pianticelle di primule e di azzalee.
L’amore, la più complessa e la più potente di tutte le passioni, è ad un tempo la più facile e la più semplice nel suo nascere. Un uomo e una donna si incontrano, si vedono, si guardano — e basta. Da che cosa era egli stato mosso quello sguardo? Che cosa vi era in esso? Che cosa diceva? Nessuno lo sa. Nondimeno tutti gli amori incominciarono con uno sguardo.
Rientrai nella stanza ebbro. Non di amore, no; non amava ancora, non ne sperava; ma assetato di conforti, di compianto, di lacrime. Avrei desiderato una donna, non per chiederle le sue carezze, ma per piangere sul suo seno. L’uomo è più profondo nell’amore, la donna nella tenerezza; si piange meglio sul seno di una donna.
Non so se gli altri uomini abbiano subiti abbandoni, subiti impeti, subite risoluzioni come ho io. In me vi è nulla di lento, di ordinato, di normale. La mia è una natura a molle, a sbalzi; una natura sempre alternata.
Le scrissi, e le gettai dal balcone un biglietto contenente queste sole parole:
«Io sono infelice, io sono malato, io soffro.»
Il biglietto cadde a’ suoi piedi. Essa lo vide, esitò un istante, poi si curvò, lo raccolse, e fuggì nella sua camera.
Non ricomparve più lungo il giorno. Alla sera la vidi un istante sul balcone, e osservai che aveva gli occhi soffusi di lacrime.
Da quel momento la mia illusione non ebbe più freno. Essa aveva pianto per me, essa aveva accettato in certo modo il cómpito che io le aveva chiesto di consolarmi.
Fui assalito da una smania febbrile di vederla, di sentire la sua voce, di averla vicino a me, di gettarmi a’ suoi piedi, di dirle lacrimando tutta la povera storia della mia vita.
Avessi avuto un oggetto toccato da lei, portato da lei, un suo nastro, un suo abito, avrei passato la notte guardandolo, me ne sarei sentito meno diviso.
Così fu in ogni tempo della mia anima. Passai sempre dall’apatia all’adorazione senza soffermarmi sull’amore. Perchè riposarsi a metà? Perchè non mirare agli ultimi limiti? Le grandi cose sono estreme — le grandi anime adorano o odiano.
Erano cominciate allora le pioggie lente e monotone della primavera; pioveva tutto il giorno, e le finestre del suo balcone erano chiuse. Io la sentiva suonare e cantare sotto di me. Era caso, era divinazione? Essa ripeteva sempre alcune arie che mi erano care, e che mi rammentavano le scene più dolci della mia vita. Non uscivo più di casa per non allontanarmi da lei. Là, in quella stanza, le ero vicino; non la vedevo, ma sapevo di esserle vicino.
E poi, la sentiva!
Le scrivevo tutto il giorno, le scrivevo cose strane, immense, inaudite. Ero spaventato di me medesimo. Spesso la notte balzava dal letto e mi gettava sul pavimento come per tenderle le braccia, come per esserle più d’appresso. La mia anima, vuota da tanto tempo, si era gettata con furore su quella preda. Se la sua pietà non fosse venuta a salvarmi, io mi sarei divorato il cuore.
La rividi. Il bel tempo era ritornato, aprile era finito, e maggio fioriva. Risentii tutte le febbri della primavera, quel fuoco ardente che il sole di maggio trasfonde nelle fibre, nelle vene, nel cuore. I fiori sbocciavano, gli uccelli riprendevano le loro canzoni, le fanciulle — fiori umani — scherzavano lungo le aiuole; dappertutto l’inno all’amore era cantato.
Un giorno nel salire la scala, vidi le sue stanze aperte, essa era sola; corsi verso di lei, e mi precipitai alle sue ginocchia. Essa fece atto di fuggire; io rimasi immobile col volto celato tra le mani. Mi si appressò piangendo, si curvò verso di me, e mi disse singhiozzando:
— Abbiate pietà, andate, lasciatemi.
— No, io morirò qui, io soffro.
— Oh mio Dio! povero giovine!
— Mi odiate?
Essa mi strinse al suo seno, e mi coprì di baci e di lacrime.
— Vi amo, vi amo, ma lasciatemi.
Fuggii come un demente.
Alla notte fui assalito dalla febbre; ebbi strane visioni, feci dei sogni puerili: vedeva delle farfalle e degli angeli, dei paesi che non aveva mai visto; mia madre, più giovane di molti anni, piangeva vicino al mio capezzale, ed era vestita di un abito grigio che io l’aveva veduta portare da bambino.
All’indomani era malato.
Le riscrissi:
«Io sono malato, io non guarirò se non vi vedo, venite.»
E essa venne.
Venne per due lunghe settimane, ogni giorno, dissimulando, come poteva, il suo segreto; divisa tra l’angoscia del mio stato e il rossore dell’inganno che le costava la sua pietà.
Fu la sua pietà, che la condusse all’amore; in quei giorni le nostre anime si unirono.
Più tardi io le scriveva ancora:
«Oh mia vita! Vieni a confortarmi. Vieni qui, lontano da cotesta casa dove non possiamo essere felici. Ho affittato una cameretta chiara, solitaria, serena, piena di sole. La riempirò tutta di fiori per te. Ma vieni. I nostri cuori hanno bisogno di palpitare l’uno sull’altro. Così si muore.»
E essa venne ancora.
La pietà l’aveva condotta all’amore; fu l’amore che la condusse alla colpa.
In quei giorni si unirono le nostre vite.